L’Ungheria e l’oblio di Lukàcs. Intervista a Janos Kelemen

Le autorità ungheresi hanno annunciato la revoca dei finanziamenti all’archivio Lukàcs di Budapest.


L’Ungheria e l’oblio di Lukàcs. Intervista a Janos Kelemen Credits: http://www.radiopopolare.it/2016/03/la-nuova-ungheria-chiude-la-casa-archivio-di-lukacs/

Un rapporto da sempre tormentato quello tra il grande pensatore marxista ed il suo Paese natale, tanto che pochi giorni fa le autorità accademiche ungheresi hanno annunciato la revoca dei finanziamenti all’archivio Lukàcs di Budapest, che rischia pertanto la chiusura. Ne parliamo con Janos Kelemen, professore emerito di filosofia e linguistica dell’Università di Budapest, nonché direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, e conoscitore del pensiero di Lukàcs.

di Ferdinando Gueli

Quello tra Gyorgy Lukàcs ed il suo paese natale, l’Ungheria, è sempre stato un rapporto tormentato, per lui vale sicuramente l’antico detto latino nemo propheta in patria. Dalla rivoluzione bolscevica del 1919 guidata da Bela Kun e che lo vide giovane protagonista, all’esilio in Unione Sovietica negli anni tra le due guerre, durante il regime autoritario dell’Ammiraglio Horthy, dal periodo stalinista di Ràkosi al governo Nagy e alla rivoluzione del 1956, e infine negli anni successivi fino alla sua morte, avvenuta nel 1971. Ma anche dopo la morte di Lukàcs le classi dirigenti ungheresi, politiche ed accademiche, non hanno mai visto di buon occhio questo intellettuale che, invece, a livello internazionale, è riconosciuto come uno dei più grandi e brillanti filosofi marxisti del XX secolo. Nell’ultimo ventennio, dopo la caduta del socialismo reale ed il ritorno dell’Ungheria nel sistema capitalistico, si è assistito ad una vera e propria opera di rimozione sistematica della presenza e del lascito culturale di Lukàcs, potremmo definirla “operazione oblio”.

L’ultimo recente episodio è particolarmente significativo: si è avuta notizia che l’Accademia Ungherese delle Scienze sta revocando, per addotti motivi di bilancio, il finanziamento dell’archivio Lukàcs, l’unica piccola struttura rimasta, quasi ai margini, che raccoglie documentazione di fondamentale interesse scientifico per lo studio del pensiero lukacsiano, e che rischia così la definitiva chiusura.

Abbiamo intervistato, nella sua Budapest, a poche centinaia di metri dall’archivio Lukàcs, Janos Kelemen, filosofo e linguista, professore emerito dell’Università di Budapest, già direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, nonché studioso del pensiero di Lukàcs, per comprendere cosa stia accadendo in questo momento in Ungheria e cosa rimanga del passaggio di Lukàcs nella memoria culturale del popolo magiaro.

DOMANDA: Janos, o meglio Jimmy, come ti fai chiamare da compagni e amici, in questi giorni si e' avuta la notizia della possibile chiusura dell'archivio Lukàcs a Budapest. Cosa sta succedendo e qual'e' l'importanza scientifica di questo archivio?

RISPOSTA: Circolavano già da anni notizie sulla possibile soppressione dell’Archivio Lukacs. Nel 2012 gli venne tolto lo statuto di centro di ricerca e, malgrado le proteste internazionali, i suoi collaboratori scientifici furono espulsi. In questo momento si sta compiendo l’ultimo atto che, secondo i progetti pubblicati ufficialmente, consisterebbe, da una parte, nello smantellamento del materiale, separando e collocando la biblioteca e i manoscritti del filosofo in diversi dipartimenti dell’accademia, e, dall’altra, nella liquidazione del suo appartamento, che è la sede dell’Archivio, come luogo di memoria. Una tale decisione comporta un’enorme perdita culturale della nazione e del mondo scientifico internazionale. Lukàcs ha scritto uno dei libri più importanti del XX secolo. Le note marginali nei suoi libri, o la sua corrispondenza con alcuni giganti della cultura del secolo scorso come, per fare solo due o tre nomi, Thomas Mann, Ernst Bloch, Jean-Paul Sartre, costituiscono un inestimabile tesoro intellettuale.

D: Possiamo interpretare questa vicenda come l'ultimo passaggio di un lungo percorso storico di progressiva rimozione storica della figura di Lukacs dalla cultura nazionale ungherese?

R: Sì certamente! Lukàcs è oggi colpito da una sorta di anatema culturale. La biblioteca dell’Università di Budapest ospitava, nel cortile di ingresso, una sua statua, che venne subito rimossa nel 1990, subito dopo la caduta della democrazia popolare. C’era una strada che portava il suo nome ed oggi non più, come d’altronde accadde a quella dedicata a Marx, e diversamente da quanto invece è accaduto a Berlino. La figura di Lukàcs, già da allora, è stata sistematicamente rimossa dalla coscienza pubblica del popolo ungherese, ed in questo non hanno fatto eccezione neanche i governi a guida del partito socialista post-regime. Un’opera di rimozione che ha coinvolto anche gli ambienti accademici. Oggi l’OSA (Open Society Archive), istituzione culturale privata che fa capo alla Fondazione Soros, con la Central European University, università privata da lui fondata e finanziata, si sta di fatto monopolizzando, con la sua presenza e con la continua espansione tramite investimenti immobiliari, uno dei quartieri centrali di Budapest. Ebbene, all’ingresso di questa istituzione, appare oggi il basamento della vecchia statua di Lukàcs, ritrovato nei magazzini durante i lavori di ristrutturazione dell’immobile, ma esso appare spoglio non soltanto della statua ma anche dell’iscrizione in bronzo del nome di Lukàcs, di cui è possibile vederne l’impronta. Esiste una fondazione Lukàcs ma rimane ai margini della vita culturale ufficiale ed accademica. L’insegnamento di Lukàcs non è vietato ma osteggiato e marginalizzato. Si fanno alcuni corsi, con pochi studenti, che vengono ufficialmente etichettati come “neomarxisti”.

D: Spiegaci meglio come sei arrivato, nel corso della tua carriera accademica, a Lukàcs e quanta parte dei tuoi studi gli hai dedicato?

R: Era difficile non arrivare a Lukàcs, il suo appartamento era a cinque minuti da casa mia…scherzi a parte, la motivazione principale è che nel corso della mia attività universitaria, negli anni ’60, quando ero docente di filosofia all’Università di Budapest, usare Lukàcs era una maniera di risvegliare l’interesse dei giovani verso la filosofia come tale ed ai temi attuali, alla situazione del mondo di allora. Nella mia generazione molti hanno condiviso questa esperienza. Io però non facevo parte del cosiddetto “kinder garten” (giardino, nda) di Lukàcs, cioè un circolo di allievi e assidui frequentatori che venivano definiti i suoi “nipoti”, ma avevo rapporti amichevoli con molti degli appartenenti a questo circolo ristretto. Lukàcs non insegnava ufficialmente, ma il suo appartamento era molto frequentato, era una specie di “università volante”, ma non clandestina, la cosa era perfettamente tollerata dal regime. Nel ‘63 ci fu poi una svolta nella politica del regime, alcuni discepoli di Lukàcs vennero espulsi dal partito e dall’insegnameto. Alcuni addirittura scapparono all’estero, ad esempio Agnes Heller, che insegnò negli Stati Uniti, ed è tuttora attiva. Io ho quindi insegnato filosofia sui fondamenti del pensiero di Lukàcs, in particolare partendo dall’estetica, anche perchè i primi capitoli dell’Estetica si possono utilizzare per un’introduzione generale per una teoria delle forme della coscienza, e che ancor oggi sarebbe di grande attualità. La mia formazione precedente non era basata su Lukàcs, ma mi avvicinai al suo pensiero durante i miei studi di linguistica, quindi i miei studi lukacsiani si sono sovrapposti alla mia formazione precedente. Io ritengo che Lukàcs sia ancora di straordinaria attualità, merita di essere letto e studiato oggi per comprendere la realtà odierna.

D: L’attualità di Lukàcs e la sua opera: in quali aspetti ha sviluppato il pensiero di Marx attualizzandolo nel ‘900?

R: Secondo la mia opinione, Lukàcs è da considerarsi il più importante filosofo marxista del ‘900 dopo Antonio Gramsci, per il grande respiro culturale che c’è nella sua opera. Ancora oggi avvince la sua visione generale di un anticapitalismo non profetico, non escatologico, ma che si inserisce nella storia della cultura. E’ stata una figura veramente straordinaria.

In Storia e Coscienza di Classe, apparso in lingua ungherese alla fine degli anni ’60, Lukàcs ancora in vita, scrisse una postfazione in cui lui rinnegava l’opera, nonostante questa rimane un acquisito del pensiero marxista. Nel testo, che è del 1926 e poi scritto negli anni successivi, si può individuare, secondo me, un “kantismo” marxiano, c’è una rielaborazione straordinaria della critica della ragione, la ragione borghese ovviamente. Non è un autore di facile lettura, la sua analisi è più profonda e universale, ma questo livello di pensiero è necessario. Lui rinnegò queste sue basi kantiane, ma sicuramente, nella sua formazione giovanile, rimase molto influenzato dalla filosofia neokantiana che nei primi due decenni del XX secolo era molto diffusa. Questo libro ha fatto storia due volte; negli anni ‘20 tutti, senza eccezione, nella sinistra occidentale, divennero marxisti attraverso questo libro. C’è un aspetto da non trascurare: quello della ricezione. Quindi, negli anni ‘60 il testo venne riscoperto in tutto il mondo, ebbe una sua seconda vita, influenzando molto anche la generazione dei sessantottini, che erano alla ricerca di nuovi maestri, anche se Lukàcs arrivò a loro attraverso una mediazione (nota bene, mediazione era un termine molto caro allo stesso Lukàcs).

D: Quali sono, a tuo parere, i concetti teorici più originali che caratterizzano il contributo di Lukàcs allo sviluppo del pensiero marxista?

R: Direi, ad esempio, il tema della vita quotidiana, una vera e propria teoria della vita quotidiana, di cui il polo opposto è l’essere generico. La sfera quotidiana è la sfera della riproduzione, è anche il medium della nostra vita, ma bisogna anche collegarsi all’essere generico. Quindi l’arte, la scienza, sono una forma di mediazione tra noi, la nostra quotidianità, e l’essere generico, che danno senso alla nostra vita, perché siano animati da questa tensione. C’è quindi una funzione escatologica, ma ciò non è in contraddizione con il materialismo dialettico. Lukàcs cerca, in realtà, attraverso questi concetti, di formulare una teoria ontologica e questa è una grande novità per il pensiero marxista. Questa ricerca di una teoria ontologica ha caratterizzato in particolare l’ultima fase del pensiero di Lukàcs, ma egli non riuscì a portare a compimento questa ricerca. Nell’Estetica possiamo individuare delle anticipazioni di questa elaborazione, si capisce che c’è l’intenzione di elaborare un’ontologia dell’essere sociale, ma la teorizzazione rimane incompleta.

In questa elaborazione lukacsiana è centrale, poi, la categoria del lavoro, come attività umana, e della riproduzione sociale. A tal proposito, ti racconto un piccolo aneddoto: partecipando a conferenze in giro per il mondo, conobbi un semiologo italiano, Ferruccio Rossi Lardi, che insegnava all’Università di Trieste, e scrisse il volume La lingua come mercato e lavoro, che sviluppa concetti lukacsiani, pur non conoscendo il pensiero di Lukàcs. Quindici anni dopo incontrai Hillary Putnam, un filosofo americano, uno degli idoli della filosofia analitica, che mi espose la sua teoria della divisione, partecipando ad una sua conferenza, e condusse un’analisi della teoria di Ferruccio Rossi Lardi. Tutto questo conferma quello che affermava lo stesso Marx, cioè ci sono, nelle scienze umanistiche, dei concetti che si possono scoprire e riscoprire, perché emergono, in un certo senso, “spontaneamente” dalla cultura di quel tempo.

D: Come interpreti la problematica sul realismo in Lukàcs che tanto ha animato un certo dibattito tra gli studiosi?

R: Rileggendo i suoi scritti letterari lui era un teoretico del realismo senza aggettivi, perché il realismo con aggettivi non ha senso…questa ovviamente è la mia opinione, ma lo leggo nel pensiero di Lukàcs. Il realismo critico è stato creato un po’ artificiosamente per salvaguardare alcuni autori borghesi, come ad esempio Balzac (molto letto anche dallo stesso Marx), Stendhal e altri autori, soprattutto quelli del grande romanzo dell’800. Lukàcs, se non è stato lui stesso ad inventarlo, lo utilizzò ampiamente con l’obiettivo pratico di recuperare, in ambito marxista, l’interesse per quegli autori non classificabili come socialisti. La sua visione però è quella del realismo nel senso generale e senza limitazioni artificiose. E’ comunque una questione filosofica complessa: possiamo riassumere affermando che il realismo critico sarebbe nelle mani di Lukàcs il romanzo dell’800 e, in secondo luogo, quei grandi autori del’ 900 che, pur non essendo comunisti, vanno inseriti nell’ambito del realismo, quali ad esempio Thomas Mann, autore da lui molto amato.

D: Come valuti oggi l’ interesse per Lukàcs a livello internazionale?

R: Siamo ad un punto morto, ma la mia previsione è che la figura e il pensiero di Lukàcs andranno riscoperti. Io tendo a fare questo parallelismo: il declino della figura di Lukàcs è da collegarsi con l’emergenza continua di Heidegger, il cui pensiero filosofico viene costantemente recuperato. Il comunista Lukàcs non è riabilitabile, mentre lo è il nazista Heidegger. Questo accade soprattutto in Europa, mentre in America Latina, ma anche negli Stati Uniti, c’è una maggiore attenzione e considerazione di Lukàcs, basti pensare ad Agnes Heller, la sua ex-allieva più nota, che oggi insegna a New York ed è una personalità di grande prestigio.

D: Una piccola digressione: la cosiddetta rivoluzione dell’ottobre 1956. Oggi che sono trascorsi ormai quasi sessant’anni, sarebbe possibile darne una chiave di lettura marxista, ed in termini più sereni?

R: Ma in realtà quegli uomini, soprattutto i membri della classe dirigente, che furono protagonisti di quegli eventi non possono definirsi degli autentici marxisti, né da una parte né dall’altra. Imre Nagy era, per formazione politica, uno stalinista, ma non era un ideologo, un intellettuale. Era sicuramente un grande politico, che ad un certo punto capì che la situazione dell’Ungheria era irrisolvibile con i metodi adottati durante la fase staliniana. Aveva il senso della politica. D’altronde anche Kadàr era un politico ma non un teorico. Lukàcs faceva parte di quella classe dirigente, ma si collocava ad un livello diverso. Un personaggio molto influente e meno conosciuto era Jòzsef Revaj, che è l’unico che si possa definire un marxista, ortodosso. Gli altri non si possono considerare dei marxisti, erano dei comunisti, formatisi come quadri di partito, ma non avevano una formazione intellettuale solida dal punto di vista del pensiero marxista. Rakoczi era intellettualmente più formato, ma non era un teorico. La cosiddetta trojka, Rakoczi, Revaj e Farkas, erano i tre personaggi che di fatto dominavano le scelte politiche. Ma le categorie del marxismo non possono essere utilizzate per interpretare una fase storica determinata esclusivamente da fattori prettamente politici.

D: Il socialismo reale ha messo le radici e quanto la società ungherese è cambiata in questi 25 anni?

R: Bisogna distinguere tra processi sociali e processi mentali. In questi giorni è di moda affermare che Orban sta restaurando un regime di socialismo reale. Ma questa analogia è solo apparente. La società ungherese è profondamente trasformata da allora, si è sviluppata in una struttura fortemente di classe, bada bene quando dico classe e non strati. La società di allora non era paragonabile a quella odierna, la trasformazione in senso capitalista si è completata ormai. D’altra parte, sul piano economico si assiste ad una forte tendenza alla centralizzazione delle strutture produttive e di quelle politico-istituzionali. Si potrebbe tracciare una sorta di analogia tra l’Italia fascista degli anni ’20, quella fase precedente l’affermazione del regime totalitario propriamente inteso. L’Ungheria attraversa quindi un processo di fascistizzazione della società e dell’economia. Non è un’analogia astorica, ma pienamente storica, quindi con le differenze di contesto e di fase.

D: Ci sono gli anticorpi nella società ungherese che possano far pensare che questo processo si possa arrestare?

R: Purtroppo, questa è ovviamente la mia sensazione, non si intravedono questi sintomi. Esistono delle forme di resistenza, ma sono fatti isolati, movimenti e gruppi incapaci di organizzarsi, che emergono a livello di società civile ma non sanno esprimersi a livello politico. C’è una sorta di resa da parte di quelle forze politiche che avrebbero potuto contrastare questa fascistizzazione della società e dello Stato.

D: Quanto ti rimane della tua esperienza italiana, in particolare del periodo in cui eri direttore dell’Accademia Ungheria a Roma, quali elementi della cultura italiana hanno influenzato la tua attività?

R: La mia passione per la cultura italiana nasce da quando ero ragazzo, studente liceale, e trovai nella libreria di mio padre alcuni volumi di letteratura italiana, Manzoni, Leopardi, Pirandello. C’era anche un Dizionario Italiano-Ungherese, ma lui non sapeva una parola di italiano. Non gli ho mai chiesto di questa presenza di testi italiani, non l’ho mai saputo. Io, all’età di 16 anni, quasi per gioco, decisi di leggere Il Fu Mattia Pascal, aiutandomi con il dizionario e trascrivendo la traduzione delle singole parole sul testo italiano. In qualche modo compresi il significato del romanzo, o almeno questo è ciò che credetti allora. Questo è un aneddoto, ma è anche grazie a quell’esperienza che decisi di studiare italiano all’università, e da lì è cominciata la mia carriera di linguista e di italianista, che, accanto ai miei studi di filosofia, divenne una sorta di attività accademica parallela, coltivata per pura passione. Mi interessai molto a Croce, poi ho fatto degli studi su Vico e anche su Gentile. Questo non faceva parte del mio mestiere di direttore dell’Accademia d’Ungheria, ma ciononostante, in quel periodo, organizzai nel 1992 un convegno su Croce, con la partecipazione di grandi studiosi da varie parti del mondo. Conobbi anche Umberto Eco, che da poco ci ha lasciati, ed al quale vorrei rendere omaggio attraverso un personale ricordo: lo intervistai nei primi anni ’70 per la TV ungherese in occasione di una sua visita a Budapest e anni dopo lui mi riconobbe per strada a Roma. Aveva una grande memoria, segno di una mente straordinaria e di una cultura veramente profonda e coltivata.

25/03/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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Ferdinando Gueli

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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