Trump vs Biden

Quali effetti avrà l’attentato a Trump sulle elezioni presidenziali americane? È meglio Biden o Trump? La politica interna di Biden è sicuramente migliore di quella di Trump, ma la politica estera di quest’ultimo prevede realmente un cambio di passo rispetto a quella attuale? Si prova a rispondere a questi interrogativi.


Trump vs Biden

Il 13 luglio Donald Trump, durante un comizio elettorale a Butler in Pennsylvania, è stato ferito all’orecchio da un attentatore, Thomas Mattew Crooks, che ha sparato, con un fucile semiautomatico Ar-556, diversi colpi prima di venir ucciso dalle forze di sicurezza. Un sostenitore di Trump ha perso la vita nell’attentato, eseguito dal tetto di un edificio posto a circa 130 metri di distanza dal palco del comizio, ovvero fuori dalla giurisdizione di sicurezza prevista per gli eventi elettorali. Per la legge federale, Crooks poteva liberamente girare con il fucile Ar-15 nel posto in cui si trovava, mentre all’interno dell’area del comizio vigeva il divieto di avere con sé anche solo delle palline da tennis, ovvero oggetti atti a offendere l’incolumità del candidato presidente.  Il fucile utilizzato l’Ar-556 è un derivato del noto fucile Ar-15, che ha registrato oltre 40 milioni di modelli venduti negli Stati Uniti. Il costo del fucile Ar-556 è dell’ordine di 1000 dollari, ridotto a qualche centinaio di dollari per le imitazioni. L’Ar-15, con tutti i suoi derivati “Ar-15 style” come l’Ar-556, è il fucile simbolo delle associazioni e gruppi politici che si oppongono alla limitazione della vendita delle armi ai cittadini americani. Questo fucile è a tutti gli effetti un’arma da guerra, la versione “civile” dell’M-16 in dotazione all’esercito americano, e permette di avere in canna 100 colpi e di poterne sparare 60 al minuto. Non a caso, è uno dei fucili più utilizzati negli attentati negli Stati Uniti e ne fu bloccata la vendita ai privati sotto Bill Clinton. Vendita che poi è ripresa nel 2004, non essendo stata prorogata la moratoria voluta da Clinton, registrando da allora un’impennata di vendite. Trump non è il primo candidato presidente ad essere stato soggetto ad un attentato negli Stati Uniti, Paese dove ben quattro presidenti sono stati uccisi in attentati. Nel 1968 il candidato democratico Bob Kennedy, fratello del presidente John Fitzgerald Kennedy, fu ucciso in modo non del tutto chiaro a Los Angeles mentre festeggiava la vittoria alle primarie della California. Nel 1981 George Corley Wallace, candidato indipendente, non avendo ottenuto l’investitura del Partito Demiocratico di cui faceva parte, subì un tentativo di assassinio, durante la campagna elettorale in Maryland, che lo costrinse alla sedia a rotelle. Più fortunato fu Theodore Roosevelt nel 1912 in un comizio elettorale a Milwaukee, grazie alle 50 pagine del suo discorso elettorale, che attuarono il colpo del proiettile che lo colpì al petto. Finì il suo discorso a favore del primo terzo partito, quello Progressista, per essere rieletto per un secondo mandato presidenziale, ma non fu eletto.  L’attentato a Trump da questo punto di vista non rappresenta una novità, considerata la lunga scia di sangue che ha contraddistinto i presidenti e candidati presidenti americani, spesso con lacune nella versione ufficiale che hanno suscitato teorie cosiddette “cospirazioniste” sulla realizzazione e sulla motivazione degli attentati. Senza entrare nel merito dell’attendibilità della versione ufficiale e di quelle alternative, quello che sembra significativo rimarcare è che l’attentato ha avuto come obiettivo proprio il candidato del partito sostenitore per eccellenza della lobby della armi – quello Repubblicano -, colpito con un fucile simbolo di coloro che si oppongono alla restrizione nel porto delle armi da fuoco. Trump è vittima delle leggi volute dal suo partito, con cui si trova in completa sintonia su questa questione, essendo sostanzialmente un sostenitore dell’interpretazione estensiva del secondo emendamento costituzionale statunitense. Questa evidente contraddizione non permette a Trump di sfruttare a pieno l’effetto attentato per vincere la competizione elettorale. È chiaro che i democratici potranno sfruttare il dibattito relativo al porto d’armi a proprio vantaggio, essendo i repubblicani i sostenitori della libertà di possedere le armi da parte dei privati cittadini, armi come quelle d’assalto responsabili di numerose stragi. Da qui alle elezioni di novembre è assai probabile che una nuova strage possa fare da volano per la campagna elettorale dei democratici. Certo non è escluso che Trump, con l’ambiguità che lo contraddistingue, possa modificare nuovamente la sua posizione sul diritto a possedere e circolare con armi da fuoco, come già fatto nel 2016Dall’altra parte è evidente che ci sono state delle falle alla sicurezza, la cui responsabilità ricade sulle agenzie di sicurezza e sull’attuale governo democratico. Il fatto che da un edificio prossimo al comizio si possa aver attentato alla vita di un candidato pone seri interrogativi sulla sicurezza e mette in cattiva luce i democratici, supportando le dietrologie che li vedono come mandanti morali o facilitatori dell’attentato. Alcuni repubblicani, tra cui il nominato futuro vicepresidente J.D Vance, attaccano politicamente già i democratici sostenendo che la loro campagna di odio nei confronti di Trump sia responsabile moralmente di quanto accaduto, nonostante il clima da pacificazione nazionale lanciato dal discorso di Biden, effettuato subito dopo l’attentato all’avversario. Il clima di pace nazionale, sebbene nell’immediato abbia abbassato i toni dello scontro, toglie ai democratici una delle loro più forti argomentazioni contro Trump, ovvero quella che sia una minaccia per la democrazia e il principale responsabile dell’odio politico. Le dinamiche dell’attentato a Trump pongono, invece, ombre sulla gestione della sicurezza, tanto che la responsabile dei servizi segreti Kimberly Cheatle, nominata da Biden, è posta sulla graticola mediatica. Numerose sono state sia le falle nella prevenzione sia le inefficienze nella gestione di quanto avvenuto. Significativo è lo scaricabarile tra polizia locale e servizi segreti sul controllo del tetto. Per i servizi segreti era compito della polizia della Pennsylvania garantire la sicurezza di quel tetto, individuato come luogo da cui potenzialmente attentare alla vita di Trump, effettuando le opportune verifiche e poi presidiandolo con tiratori scelti. Per le autorità locali, invece, era compito dei servizi segreti, che sono più in alto nella linea gerarchica, garantirne la sicurezza. Entrambi gli organi, amministrati dai democratici, portano però alla responsabilità politica democratica, fatto che sarà senz’altro sfruttato nella campagna elettorale di Trump, che non ha mai esitato ad accusare le agenzie federali di fare politica contro di lui. È, quindi, assai probabile che negli ambienti “all-right” pro-Trump si organizzi una campagna di teorie “cospirazioniste” che vedono nei democratici i mandanti e facilitatori dell’attentato per eliminare Trump, candidato favorito a vincere le elezioni. Insomma, nonostante la pace nazionale invocata da Biden, sottotraccia è assai probabile che si  diffonda un clima di odio politico e di diffamazione dell’avversario al fine di garantire la vittoria del candidato repubblicano. Teorie la cui portata sarà amplificata dai sondaggi che vedono Trump attualmente in vantaggio negli stati cosiddetti in bilico, in cui generalmente si decide la vittoria alle presidenziali americane. In un sistema come quello americano, dove contano il numero di grandi elettori conquistati, sono proprio questi stati a determinare l’esito della competizione e non il numero totale di voti presi, tanto che può vincere il candidato che ha preso meno voti. Così è stato per Trump nel 2016 contro Hillary Clinton, così è stato per George W. Bush nel 2000 contro Al Gore. I sondaggi di giugno, vedono Trump in vantaggio in tutti gli stati decisivi con i seguenti punti percentuali: Nevada 5,4%, Arizona 4,0%, Georgia 4,8%, Carolina del Nord 4,8%, Pennsylvania 2,3%, Michigan 0,5% e Wisconsin 0,1%. I sondaggi di luglio confermano il vantaggio di Trump in questi stati, sui quali si sta concentrando la campagna elettorale. Non ha caso Trump subito dopo l’attentato al comizio in Pennsylvania è volato in Wisconsin alla convention repubblicana a Milwaukee, dove è stato definitivamente incoronato come candidato prossimo presidente degli Stati Uniti, e in quell’occasione ha nominato il suo futuro vice. Trump, oltre ad essere in vantaggio nei sondaggi, ha sfruttato molto bene mediaticamente l’attentato ricevuto facendosi ritrarre, appena ferito, in una iconica foto con il pugno alzato mentre gli sanguinava l’orecchio. In quell’occasione ha esclamato “Fight! Fight! Fight!”, slogan ripreso dai suoi sostenitori alla convention repubblicana. La foto con il pugno alzato è stata già stampata nelle magliette e nei gadget della campagna elettorale. Foto che evidenzia un candidato forte in contrapposizione alla debolezza di Biden. L’anzianità e gli evidenti segni di perdita della memoria e confusione, mostrati da Biden, possono precluderne l’elezione, tanto che all’interno dei democratici si è aperto un dibattito sulla possibile sostituzione del presidente. Nonostante sia stata smentita la notizia che Biden soffra del morbo di Parkison, i segni di demenza senile ci sono tutti: si pensi al fatto che ha chiamato Zelensky durante il vertice Nato Putin, oppure a quando ha appellato la sua vice Kamala Harris con il nome di Trump. L’attentato a Trump ha congelato per ora questo dibattito; tuttavia più i democratici ritarderanno la sostituzione di Biden, minori possibilità di vittoria avrà il candidato alternativo. Tra tutti i possibili vice Biden ha, inoltre, rinominato Kamala Harris, che secondo i sondaggi non era tra quelli possibili la scelta preferita dagli elettori. Il bilancio della presidenza non è del tutto favorevole per Biden, che non è riuscito a mantenere tutte le promesse fatte nella scorsa campagna elettorale, facendo addirittura dietrofront su alcune di esse. Ad esempio non ha mantenuto l’innalzamento del salario minimo federale a 15 dollari, lasciandolo a 7,5 dollari l’ora, oppure il blocco della costruzione del muro al confine con il Messico. Su alcune promesse disattese hanno pesato le divisioni politiche nel Congresso, nel quale il partito del presidente, dopo le elezioni di midterm, si trova in lieve minoranza alla Camera dei Rappresentati e in lieve maggioranza al Senato. Dal punto di vista del quadro economico Biden consegna una nazione che ha avuto una crescita del PIL nel 2023 del 2,5%, ben oltre le aspettative grazie anche ai forti incentivi donati alle imprese e alla sanzioni imposte alla Russia che hanno rilanciata l’economia americana a spese di quella europea; inoltre per il 2024 il FMI e la Commissione europea prevedono per gli USA una crescita del 2,1%. L’inflazione negli Stati Uniti è stata contenuta molto meglio che in Europa attestandosi al 3%, con la possibilità, grazie anche all’innalzamento dei tassi di interesse operato dalla FED, di raggiungere l’obiettivo prefissato del 2%. L’aumento dei salari dopo la pandemia, ha rilanciato i consumi interni e, quindi, l’economia, e Biden si è schierato apertamente a favore dei lavoratori in quelle vertenze come l’automotive dove si sono ottenuti aumenti a due cifre, molto al di sopra dell’inflazione. Biden non è però riuscito ad aumentare le tasse ai ricchi e a rafforzare il welfare come aveva promesso nella precedente campagna elettorale. In politica estera Biden ha pienamente raggiunto l’obiettivo di rinsaldare le proprie alleanze nel contesto europeo, con il rilancio della Nato, e in quello asiatico, stringendo i rapporti con gli alleati storici e con nuove nazioni, come le Filippine, in funzione anticinese. Dal punto di vista delle guerre, Biden aveva promesso di chiuderle. È riuscito, sebbene con una ritirata ingloriosa, a chiudere il conflitto ventennale in Afghanistan, che si è dimostrato un pozzo senza fondo per le casse americane con una spesa complessiva di quasi 1000 miliardi di dollari. Si sono, però, aperti nuovi fronti di guerra, in Ucraina e in Medioriente, con il conflitto a Gaza, che hanno presentato pesanti spese per gli Stati Uniti. Il conflitto in Ucraina ha determinato per gli Stati Uniti, al 31 dicembre 2023, una spesa equivalente a quasi 70 miliardi di euro tra aiuti militari, finanziari e umanitari, sebbene questi ultimi molto contenuti rispetto agli altri due. La guerra israeliana a Gaza, oltre a presentare un conto economico per gli Stati Uniti presenterà sicuramente elevati costi politici, essendo l’elettorato democratico quello che si è mobilitato contro il massacro dei palestinesi. L’amministrazione americana ha negato il genocidio e ha represso le mobilitazioni negli atenei americani, che sono, invece, state sostenute dai candidati indipendenti, che assai probabilmente sottrarranno voti a Biden nel confronto con Trump. Biden non è riuscito a rimettere in piedi l’accordo sul nucleare con l’Iran, sempre più alleato stretto della Russia. Di fatto ha inoltre rilanciato la guerra mondiale contro la Russia, con il conflitto in Ucraina, e la Cina, con il protezionismo e il sostegno a Taiwan. Nel contesto italiano è auspicabile una vittoria di Biden o di Trump? Sul piano delle politiche interne una vittoria democratica è sicuramente auspicabile, in quanto favorirebbe il conflitto di classe negli Stati Uniti e, quindi, a livello globale. Si pensi solo al fatto che i sindacati americani hanno provato a collegare la loro vertenza nell’industria automobilistica con quelle degli altri paesi che presentavano stabilimenti delle multinazionali con cui erano in conflitto. Dal punto di vista politico un affermarsi di Trump darebbe forza ai partiti di estrema destra, che sono già in crescita di consensi in Europa.  Inoltre, un’elezione di Trump rappresenta davvero un argine al rilancio della guerra su scala mondiale? Nella scorso mandato presidenziale, Trump, oltre a non aver chiuso nessuno dei fronti di guerra in cui erano coinvolti gli Stati Uniti, ha rischiato, con le sue azioni spegiudicate come l’assassinio del generale iraniano Soleimani, di aprirne nuovi. E’ vero che il candidato repubblicano ha sostenuto di poter chiudere il conflitto in Ucraina in 24 ore e che il suo elettorato tra i vari slogan ha chiesto la fine del conflitto in quel Paese; tuttavia se sia realmente in grado di chiudere quel conflitto lascia abbastanza perplessi, in quanto la politica internazionale americana non è generalmente mutata radicalmente dai vari candidati, anche se democratici e repubblicani esprimono sfumature diverse. Attualmente la guerra e il protezionismo sembrano essere le due priorità indifferenti ai due schieramenti per evitare la perdita dell’egemonia mondiale americana, che passa anche tramite il signoraggio del dollaro, e Trump si è posto come obiettivo “Make America Great Again”, ovvero di “Rendere gli Stati Uniti di Nuovo Grandi” sulla scena internazionale. Un articolo recente del “The Wall Street Journal”, il giornale economico-finanziario americano, ha messo in dubbio che Trump possa realmente chiudere il conflitto in Ucraina, ricordando quanto fatto durante il suo primo mandato presidenziale. Per cui il giornale americano ritiene che "c'è motivo di credere che la retorica di Trump sull'Ucraina sia più una vanteria politica che un piano d'azione" e, quindi, gli Stati Uniti "non saranno in grado di fare i conti con una sconfitta umiliante: la perdita del primo grande confronto militare in Europa dal 1945"; pertanto sotto Trump “la situazione di stallo potrebbe semplicemente continuare come prima oppure gli Stati Uniti potrebbero essere molto più coinvolti”. La stessa Russia sembra avere seri dubbi sulle reali intenzioni di Trump di arrivare a una pace in Ucraina. Se alcuni politici russi ritengono che con Trump si possa trattare e chiudere il conflitto in Ucraina, altri pongono dubbi sulle dichiarazioni di Trump. Riprendendo quanto scritto dal “The Wall Street Journal”, Elena Panina, ex-deputata della Duma russa, ritiene che Trump, essendo legato al complesso militare-industriale che ha investito nella sua candidatura, non possa agire contro gli interessi dei suoi finanziatori. Anzi, sotto un eventuale secondo mandato di Trump, c’è da aspettarsi che gli stati membri della Nato dovranno aumentare al 3% le spese militari, escludendo da esse gli aiuti militari all’Ucraina. Inoltre Trump, come dimostrato in passato con azioni spregiudicate e irresponsabili, è assai più irrazionale di Biden e, quindi, meno prevedibile. Non ha caso la politica russa chiude le proprie considerazioni con la seguente frase: “Ripeto ancora una volta: quando il presidente russo Vladimir Putin ha detto che Biden «è una persona più esperta, prevedibile, è un politico di vecchia formazione», non stava scherzando”. Ciò lascia intendere che Putin preferisca aver a che fare con Biden piuttosto che con Trump, in quanto più razionale nelle proprie scelte. Come si comporteranno gli Stati Uniti nei confronti dell’Unione europea e della Cina in caso di elezione di Trump o di Biden? È assai probabile che i due candidati avranno approcci molto differenti nei confronti dell’Ue. I democratici storicamente sembrano preferire una Ue forte rispetto ai singoli stati, dominata dalla burocrazia liberista di Bruxelles; mentre i repubblicani sembrano auspicare una maggiore indipendenza degli stati membri sotto governi di estrema destra, che possa condurre a una futura implosione della stessa Ue. Nonostante le sfumature di posizioni, per entrambi gli schieramenti si prevede sempre la subalternità dell'imperialismo europeo a quello americano. Per quanto riguarda la Cina, Trump, con le sue mosse sconsiderate e imprevedibili, potrebbe condurre rapidamente a un conflitto aperto su Taiwan o in ambito economico-commerciale, anche se l’amministrazione Biden ha continuato ad aumentare le tensioni ereditate dalla precedente amministrazione Trump. Per tutte queste motivazioni sostenere una preferenza per Trump sulla base di una sua presunta politica estera meno guerrafondaia lascia assai perplessi.

20/07/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Marco Beccari

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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