Si producono nella storia delle fratture, delle spaccature, su cui slittano masse di territori e di popoli e che sono destinate a marcare un’epoca: il Medio Oriente e l’Iraq in particolare sono tra queste.
L’omicidio del generale Qasem Soleimanida parte degli Stati Uniti è un episodio molto importante nel lungo scivolamento di questa faglia storica che si inquadra nella transizione energetica del modello di sviluppo capitalistico e nel declino dell’egemonia globale nordamericana.
L’avventurismo del gesto compiuto dall’amministrazione Trump diviene incomprensibile se non viene inquadrato in questa cornice. C’è chi tra i commentatori di non stretta osservanza a stelle e strisce, ma di tipo“volgare”, ha voluto offrire una chiave all’enigma, trovandola nelle difficoltà del magnate insediatosi alla Casa Bianca, derivanti dall’impeachment intentatogli dall’opposizione democratica nel corso della prossima campagna elettorale per le presidenziali. Ovviamente l’evento ha un suo peso, ma non può da solo dar conto della decisione di assassinare il comandante delle forze speciali di uno stato sovrano appena all’uscita dall’aeroporto principale di un terzo stato formalmente sovrano. Si tratta di un gesto in netta discontinuità, persino con la tradizione di aggressività imperialistica degli Usa.
La transizione energetica: il petrolio conta ancora
Nonostante le prediche dei media “mainstream” e perfino degli ammonimenti di Greta, il petrolio e in genere le risorse energetiche di origine fossile continuano ad essere strategiche per le economie dei paesi capitalistici (e anche formalmente non capitalistici) ai diversi gradi di sviluppo. Secondo i dati dell’Exxon Mobile Energy Outlook del 2014 il fabbisogno mondiale di energia nel 2010 era soddisfatto per l’82% da fonti fossili (carbone, petrolio e gas), il “Med&Italian Energy Report” del 2019 curato tra gli altri dal Dipartimento energia del Politecnico di Torino indica addirittura all’85,2% la quota di energia proveniente dalle tre fonti sopra indicate: petrolio, 34,2%, carbone 27,6%, gas 23,4%.
E dove sono localizzate le maggiori riserve di queste materie prime? Se per il carbone la risposta non è univoca (le riserve sono suddivise tra Europa e Asia), per il petrolio la zona di maggior produzione è quella del Medio Oriente (Iran, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Siria) dove si trovano il 60% delle riserve mondiali, mentre per il gas bisogna ricordare che può trovarsi negli stessi giacimenti petroliferi.
Il picco di Hubbert
Certo, il petrolio non è una risorsa infinita. Il ben noto geofisico statunitense Marion King Hubbert intorno alla metà degli anni ’50 già aveva prodotto una teoria sul picco di produzione dei diversi giacimenti, identificando i punti massimi di estrazione del greggio oltre i quali si andava verso l’esaurimento. Per gli Usa il picco sarebbe stato raggiunto negli anni ’70, mentre per l’area medio orientale si prevedeva il raggiungimento del traguardo entro quest’anno.
Ovviamente le nuove tecnologie estrattive come il “fracking” e le crisi economiche che si sono succedute nei decenni hanno rallentato il processo. Ma segnali della presa di coscienza del fenomeno vengono persino da parte saudita, visto che l’uomo forte del regno, il principe ereditario Mohammad Bin Salman sta cercando di rendere l’economia del suo paese meno dipendente dall’andamento del prezzo del petrolio.
Tuttavia, il picco di Hubbert non determina affatto una minore importanza dell’area del medio oriente nello scacchiere internazionale. Al contrario, chi controlla quest’area non solo ha in mano la “vena” che pompa per ora energia alle fabbriche del mondo (compresa la fabbrica per eccellenza rappresentata dalla Cina), quindi può gestire i flussi destinati agli eventuali concorrenti internazionali, ma possiede anche i capitali per guidare ove possibile la transizione verso tecnologie basate su nuove fonti energetiche.
L’Iraq terreno di confronto di tante sfide
In questo contesto l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein si è trovato al centro della sfida tra Usa e Iran. Gli Stati Uniti devono controllare questo paese, anche dal punto di vista militare, se vogliono mantenere un ruolo e una presenza significativa nell’area a difesa dei loro alleati: Israele e monarchie del Golfo. Ma anche come minaccia e contenimento delle spinte che vengono dalle potenze ostili rappresentate in primis dall’Iran e dietro le sue spalle dalla Russia e persino dalla Cina.
L’Iran ha pure una sua dinamica espansiva in parte dettata da caratteristiche sovrastrutturali storiche e ideologiche (la tradizione sciita e la vocazione “universalista” della rivoluzione del 1979), in parte dovute al vuoto politico iracheno che lo spingono al controllo di quel paese, quarto produttore mondiale di greggio, considerate anche le pesantissime sanzione economiche impostegli dagli Usa.
Nel mezzo appunto si trova l’Iraq un grande paese che permane tuttavia diviso in zone etniche: un nord curdo e filoamericano semi-indipendente; un’area sunnita fortemente colpita dalle politiche settarie di Baghdad e dalla guerra all’Isis e segnata da una nuova rinascita dei tagliagole dello Stato islamico; infine, un sud sciita che non sopporta più la corruzione e l’inettitudine della propria classe dirigente e le stesse influenze iraniane.
Basti pensare che la principale forza politica del paese (fortemente radicata nel sud) è la coalizione Saairun guidata dal leader religioso sciita Muqtada al-Sadr e composta anche dal Partito comunista iracheno. Un’alleanza che ha ottenuto 54 seggi nelle elezioni del 12 maggio del 2018.
I saadristi esprimono un orientamente fortemente nazionalista, anti-americano e ostile anche alla tutela iraniana sull’Iraq, in continuità con la diffidenza tradizionale del mondo sciita iracheno per la rivoluzione khomeinista. Non si dimentichi peraltro che proprio in Iraq vi sono alcuni dei principali luoghi santi dello sciismo come Kerbala e Najaf.
L’assassinio di matrice prettamente terroristica di Suleimani da parte statunitense ha per ora riunificato il mondo sciita nell’opposizione a Washington. Ma la faglia è in perenne sommovimento. Cresce in Medio Oriente e non solo, l’insoddisfazione di larghe masse popolari per le proprie condizioni di vita e per le politiche settarie che finora sono state praticate da varie formazioni politiche, di estrazione religiosa o etnica.
La risposta è nel reperimento di una bandiera davvero unificante nella lotta contro l’imperialismo e per un ordine mondiale più equo e fondato sulla volontà di pace dei popoli.