La differenza tra dialettica e metodo scientifico-naturale, su cui riporta l’attenzione il giovane György Lukács, risalta in modo evidente a proposito del concetto di contraddizione. Il metodo delle scienze naturali non conosce alcuna contraddizione nel proprio contenuto; la contraddizione può sorgere soltanto nel confronto tra le singole teorie ed “è soltanto un segno del grado ancora imperfetto finora raggiunto dalla conoscenza” [1]. All’opposto, il metodo dialettico riconosce le contraddizioni come appartenenti all’essenza stessa della società capitalistica: le contraddizioni non sono di natura esclusivamente logica, ma anche reale e sono la conferma di tendenze oggettive, volte al superamento di tali rapporti sociali.
Da ciò consegue che i due metodi si distinguono non solo per il loro oggetto, ma anche per le finalità che perseguono. Mentre il metodo scientifico-naturalistico è essenzialmente contemplativo, il metodo dialettico è essenzialmente critico ed è volto alla negazione rivoluzionaria dell’esistente. Per questo motivo il metodo scientifico-naturalistico, allorquando viene applicato al di fuori del mondo della natura, al mondo della storia, assume un carattere nettamente conservatore: “da questo punto di vista, la stessa contesa tra il metodo dialettico ed il metodo «critico» (o materialistico-volgare, machistico ecc.) è un problema sociale. L’ideale conoscitivo delle scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo della lotta ideologica della borghesia. Per essa è una questione di vita, da un lato, apprendere il proprio ordinamento produttivo come se la sua forma fosse determinata da categorie valide al di fuori del tempo, quindi destinate dalle leggi eterne della natura e della ragione ad una eterna permanenza, dall’altro valutare come meri fenomeni di superficie, anziché come inerenti all’essenza di questo ordinamento della produzione, le contraddizioni che inevitabilmente riemergono” [2].
Implicazione di scienza e ideologia, dunque, o meglio ideologia che si spaccia per scienza. Per Lukács, la scienza moderna nasce e si sviluppa contestualmente al generalizzarsi della forma-merce nel mondo moderno, accompagnando le trasformazioni interne al modo di produzione capitalistico, dalla fase manifatturiera alla grande industria. Il progressivo differenziarsi dei settori specialistici in seno alla società, il loro fissarsi in sistemi autoregolantesi rispetto alla totalità, determinano il modo del rapporto conoscitivo della natura, che, a sua volta, diventa il modello esplicativo per la conoscenza e insieme per la giustificazione del mondo storico-sociale così com’è.
A tale esito apologetico approda anche la filosofia borghese più avanzata e più avvertita all’interno della cultura tedesca, quando consapevolmente pone il problema della distinzione tra scienza della natura e scienza dello spirito. Sia Wilhelm Dilthey, per il quale il metodo della spiegazione appartiene ai fenomeni naturali e la comprensione al mondo storico, sia Wilhelm Windelband con la distinzione tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche non si sottraggono (al pari di Heinrich Rickert) all’atteggiamento contemplativo e restano prigionieri dell’immediatezza con la conseguente santificazione dell’esistente [3].
La non arbitrarietà del metodo dialettico, la sua giustezza dipende dall’oggettività del processo storico: esso ne è l’espressione a livello teorico, perché il suo fondamento è la raggiunta identità di soggetto e oggetto. In Storia e coscienza di classe è questo il principio chiave che Lukács, nell’intento di salvaguardare il carattere rivoluzionario della prassi, accentua in modo unilaterale, nel senso che considera come interamente acquisita tale identità con l’avvento del modo di produzione capitalistico. In questo modo Lukács finisce per inglobare nella soggettività sociale il lato della produzione materiale, negando l’autonomia della realtà naturale: “la natura è una categoria sociale. Ciò vale come natura ad un determinato grado dello sviluppo sociale, la struttura del rapporto tra uomo e natura ed il modo in cui l’uomo si misura con essa, quindi il senso che la natura deve avere in rapporto alla sua forma ed al suo contenuto, alla sua estensione (Umfang) ed alla sua oggettualità è sempre socialmente condizionato” [4].
Nelle società pre borghesi, dove la merce compare in modo marginale, gli uomini vivono in rapporti di dipendenza trasparenti e di tipo personale: il condizionamento esercitato dalla natura impone dei limiti tali da permettere loro di intrattenere rapporti non meramente strumentali o quantitativi con essa e di preservare la forma naturale del lavoro nella sua particolare concretezza: ma nel capitalismo l’inarrestabile generalizzazione della forma-merce, l’impersonale dominio dell’astratto sul concreto, determinano, secondo Lukács, la risoluzione della natura nei modi della sua appropriazione. Per esprimerci in termini marxiani, il processo lavorativo – condizione eterna del ricambio organico con la natura – scomparirebbe nel processo di valorizzazione o, detto altrimenti, il valore d’uso sarebbe del tutto fagocitato dal valore di scambio. La dipendenza dalla natura e la “passività” dell’uomo, più volte richiamate da Karl Marx, vengono cancellate col risultato che, nella società capitalistica, l’uomo bisognoso si converte nell’uomo capace di un dominio incondizionato sulla natura.
Nelle società preborghesi, dove la merce compare in modo marginale, gli uomini vivono in rapporti di dipendenza trasparenti e di tipo personale: il condizionamento esercitato dalla natura impone dei limiti tali da permettere loro di intrattenere rapporti non meramente strumentali o quantitativi con essa e di preservare la forma naturale del lavoro nella sua particolare concretezza. Ma nel capitalismo l’inarrestabile generalizzazione della forma-merce, l’impersonale dominio dell’astratto sul concreto, determinano, secondo Lukács, la risoluzione della natura nei modi della sua appropriazione. Per esprimerci in termini marxiani, il processo lavorativo – condizione eterna del ricambio organico con la natura – scomparirebbe nel processo di valorizzazione o, detto altrimenti, il valore d’uso sarebbe del tutto fagocitato dal valore di scambio. La dipendenza dalla natura e la “passività” dell’uomo, più volte richiamate da Marx, vengono cancellate col risultato che nella società capitalistica l’uomo bisognoso si converte nell’uomo capace di un dominio incondizionato sulla natura.
È questo uno degli aspetti più controversi di Storia e coscienza di classe di Lukács. L’accusa di idealismo e di soggettivismo mossagli da più parti, condivisa dallo stesso autore nella sua posteriore autocritica – che coinvolgerà, come vedremo, la teoria della reificazione ivi formulata – è ampiamente fondata. Mi sembra illegittimo, però, il proposito di invalidare su questa base l’intera opera o respingere singole affermazioni bollandole con una certa sufficienza come idealistiche. Allorquando, per esempio, Lukács fa osservare che Friedrich Engels ha identificato l’esperimento e l’industria con la prassi in senso dialettico-filosofico ed egli, al contrario, li fa rientrare nella posizione contemplativa, piuttosto che gridare allo scandalo, occorre tenere presente il significato di questo termine nell’economia complessiva dell’opera. Lo sperimentatore, infatti, nell’indagare i fenomeni onde poterli ridurre alla forma intelligibile della matematica, si comporta come puro soggetto teoretico nell’ambito della scissione soggetto-oggetto: il rapporto semplicemente gnoseologico, in questo senso, non può che essere contemplativo, giammai critico-pratico. A Lukács interessa marcare la differenza tra questo soggetto individuale e il soggetto sociale – la classe – che è agente; la dialettica soggetto-oggetto, essendo storica, non può essere ridotta al rapporto gnoseologico tradizionale, il quale si attesta sulla mera empiricità escludendo l’approccio alla totalità concreta.
Altrettanto dicasi a proposito dell’industria: qui è in gioco il punto di vista del capitalista singolo a cui, nell’operare ai fini del profitto, resta celato il fatto di essere una rotella dell’ingranaggio che lo trascende:
“da un punto di vista marxista [...] è dunque ovvio che «l’industria», cioè il capitalista come veicolo del progresso economico, tecnico, ecc., non agisce, ma subisce l’azione e che la sua «attività» si esaurisce nel calcolo e nell’osservazione corretta dell’operare oggettivo delle leggi naturali sociali” [5].
Detto questo, resta incontrovertibile l’intenzione lukacsiana di assorbire la natura – ovvero la sfera della produzione e del lavoro – senza residui nel soggetto sociale.
Se è vero, per Marx, in antitesi al materialismo feuerbachiano, che il rapporto con l’oggetto è sempre mediato dal rapporto sociale e non si dà una natura in sé non filtrata dall’attività degli uomini, è anche vero che la natura non è soltanto una categoria sociale, come la intende Lukács.
Il processo di produzione, pur nelle varie forme in cui si presenta storicamente il lavoro – da quello schiavistico a quello salariato – comporta sempre la trasformazione dell’oggetto naturale, il riferimento a un dato irriducibile che non dipende dall’uomo: nella produzione della ricchezza materiale entra anche la natura.
Questo lato antimaterialistico di Storia e coscienza di classe non sarà senza conseguenze per la teoria della reificazione.
Note:
[1] György Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], traduzione italiana di G. Piana, introduzione di M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, p. 14.
[2] Ivi, p. 15.
[3] Cfr. ivi, pp. 199-210.
[4] Ivi, p. 291.
[5] Ivi, p. 175.