Si è recentemente celebrato in tutto il mondo occidentale il settantesimo anniversario dello Stato di Israele, con grandi cerimonie e prese di posizione di presidenti e autorità politico-culturali. Mentre si è, generalmente e volutamente, occultato che il 1948 è al contempo l’anno della Nakba, ovvero della catastrofe di cui ancora vive le pesantissime conseguenze l’intero popolo palestinese.
Ancora più spesso si è nascosto il legame profondo e indissolubile fra i due eventi, ossia come la creazione dello Stato ebraico sia stato realizzato per mezzo di una vera e propria pulizia etnica del popolo palestinese, tanto che il grande storico israeliano prof. Ilan Pappe ha intitolato il suo decisivo studio che ha ampiamente documentato, utilizzando fonti esclusivamente israeliane, tali tragici eventi: La pulizia etnica della Palestina.
Certo tale memoria selettiva è indubbiamente conseguenza del senso di colpa, che dovrebbe essere particolarmente forte in un paese come il nostro legato da un Patto d’acciaio con la Germania hitleriana, per la Shoah. In tal modo però si rischia di non imparare nulla dalla propria tragica storia, si rischia di perpetuare il silenzio complice verso un’altra vicenda storica di “sopraffazione, di oppressione, ma che poi è diventata una politica genocidaria”, come ha giustamente fatto notare il grande storico italiano prof. A. D’orsi. Della tragedia del popolo palestinese quando ancora se ne parla in occidente, se ne parla come se si trattasse, ha osservato ancora D’Orsi “di una tragedia naturale”. In realtà si tratta di una tragedia fin troppo umana, che ha le sue origini nella politica colonialista e imperialista propria della nostra Europa – a proposito della quale decisamente più flebile è il senso di colpa che ci portiamo addosso.
Il tentativo da parte delle potenze coloniali europee di sfruttare la religione ebraica per i propri piani di dominio imperiale sul Medio Oriente risalgono almeno alla fine del diciottesimo secolo, quando, Napoleone Bonaparte, per piegare l’Impero britannico, cerca invano di conquistare la Palestina e così spezzare la via commerciale principale che, attraverso il Mar Rosso, univa il Regno Unito alle sue ricche colonie nella penisola indiana. Nonostante la potente cassa di risonanza nei mezzi di comunicazione dell’Impero francese, l’appello di Napoleone agli ebrei del 1799, affinché prendessero il possesso di quella “Terra promessa” che Dio stesso gli avrebbe riservato, sembrò cadere nel vuoto, anche perché lo stesso generale vi rinunciò ben presto, richiamato in Francia dalla sua sete di potere.
L’idea sarà ripresa, paradossalmente, a quarant’anni di distanza proprio dall’Impero britannico, per contrastare il tentativo di Mohammed Alì di liberare il mondo arabo dal secolare dominio, riunificandolo a partire dall’unione fra Siria ed Egitto. Nel 1840 il temibilissimo ministro degli esteri inglesi, Lord Palmerston – i cui intrighi pre-imperialisti furono così spesso e animosamente denunciati dal giornalista Karl Marx – invitò l’ambasciatore inglese in Turchia a fare pressioni sul sultano affinché aprisse la Palestina all’immigrazione degli Ebrei. In tal modo si sarebbe potuta rafforzare la presenza in Palestina di una minoranza di religione ebraica, allora ridotta ad appena tremila persone, per impedire l’unificazione del mondo arabo in nome dell’antico e sempre valido principio del divide et impera. Tale piano trovò l’entusiastica adesione del barone Edmond de Rothschild, uno dei più ricchi esponenti della comunità ebraica europea, che investì ben 14 milioni di franchi per fondare trenta nuovi insediamenti ebraici in Palestina, nei quali fu ideata la futura bandiera dello Stato sionista.
Il termine “sionismo” fu coniato nel 1885 dallo scrittore austriaco N. Birnbaum – deriva da Zion, una collina di Gerusalemme – e indica l’intento di alcuni appartenenti alla religione ebraica di costruire un proprio Stato in Palestina. Si tratta di un movimento colonialista e nazionalista, sorto non a caso nell’età dell’imperialismo in Europa, che portò ebrei – soprattutto europei – a stabilirsi in Palestina.
Tale movimento è sorto e si è sviluppato del tutto indipendentemente dalla piccola comunità ebraica residente da secoli in Palestina, i cui membri si erano generalmente ben integrati con gli altri palestinesi, anche perché la dominante religione islamica è stata quasi sempre più tollerante della cristiana nei riguardi delle altre religioni. Tanto che, ancora oggi, i discendenti di quella comunità tendono a essere considerati, dai sionisti, ebrei di second’ordine, in quanto avrebbero vissuto per secoli mescolati con gli altri palestinesi. Al punto che appartengono generalmente ancora alle classi sociali subalterne.
Nel 1896 il giornalista tedesco Theodor Herzl pubblica il suo libro Lo Stato ebraico, in lingua tedesca. Tuttavia, al tempo, la grande maggioranza degli ebrei poveri e/o perseguitati dell’Europa, soprattutto orientale, miravano a integrarsi, superando la secolare discriminazione da parte dei cristiani, o a emigrare in America. Tanto che M. Nordau, braccio destro di Herzl – dopo aver inviato due rabbini in avanscoperta in Palestina, ricevendo da essi un rapporto telegrafico: “La sposa è bellissima, ma è già sposata con un altro uomo”, ovvero il popolo palestinese – si rese conto che lo slogan di Herzl: “una terra senza popolo per un popolo senza terra” era del tutto infondato. Tanto che si mise alla ricerca di soluzioni alternative più praticabili, come ad esempio l’occupazione e colonizzazione di un territorio africano. Così l’opzione palestinese e quella africana rimasero a lungo in ballo, dal momento che lo scopo essenziale del movimento era quello di creare una nazione ebraica in un paese da colonizzare. A tale scopo Herzl, per preparare il terreno, cercò il supporto delle principali potenze, giocando sulle loro rivalità.
Il più interessato, a una forte presenza coloniale straniera, nella zona in cui il Mediterraneo lambiva il Mar Rosso, era naturalmente l’Impero britannico, intenzionato a salvaguardare i suoi traffici con le Indie. Il primo ministro inglese H. Campbell-Bannerman sostenne la necessità di collocare nei pressi del decisivo Canale di Suez una popolazione straniera europea ostile ai popoli arabi della zona e favorevole agli interessi coloniali britannici. I coloni sionisti sarebbero stati dipendenti, per la loro sopravvivenza, dall’Impero britannico e avrebbero necessariamente contribuito a garantire i suoi interessi strategici sull’area, indebolendo i paesi arabi circostanti.
Nel 1907 il chimico inglese, futuro capo dell’Organizzazione Mondiale Sionista, C. Weizman si recò in Palestina per fondare a Jaffa una compagnia che, con il supporto di Rothschild, acquistò sistematicamente terre palestinesi. Tre anni dopo il Fondo Nazionale ebraico comprò oltre ventimila ettari nel nord della Palestina da proprietari libanesi residenti in Europa. L’accordo prevedeva lo sfratto di circa 60.000 contadini palestinesi che abitavano e lavoravano quelle terre.
Dunque, l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre, iniziò ben prima del 1948. Si trattava, inoltre, di una forma di colonialismo d’insediamento, più drastico di quello imperialista, in quanto non si limitava a sfruttare la popolazione locale, ma agiva in funzione di una vera e propria pulizia etnica. Anche perché i sionisti, come ricordato dallo storico israeliano Pappe, divennero ben presto consapevoli che l’unico modo per fondare uno Stato ebraico era espellere i palestinesi dalle loro terre. Tanto che, quando non si disponeva di sufficienti immigrati dall’est Europa, per sostituire i contadini palestinesi si utilizzò mano d’opera importata dallo Yemen. Si trattava, quindi, di un movimento razzista che cercava capitali per colonizzare la Palestina sfruttando il mito religioso della “Terra promessa” da Dio al suo popolo.
I sionisti compresero che, per portare a termine il loro piano, avevano bisogno di una forza armata adeguata e così diedero vita a un esercito ebraico: Hashomer. Al contrario i palestinesi, che provarono a denunciare i rischi di uno Stato ebraico in mezzo al mondo arabo, furono perseguitati dagli Ottomani, che dominavano anch’essi sulla base del principio: divide et impera. Durante la Prima guerra mondiale gli inglesi, che controllavano l’Egitto, videro nei sionisti un valido partner per un nuovo ordine coloniale strategico, incentrato sul controllo del Canale di Suez. Nel 1915 un memorandum segreto dal titolo “Il futuro della Palestina” fu presentato al consiglio dei ministri dal primo ministro apertamente sionista del governo inglese: Herbert Samuel. Considerato che non era ancora possibile creare uno Stato, dopo la guerra la Palestina doveva passare sotto il controllo britannico, che avrebbe favorito l’acquisto di terre e la fondazione di colonie di ebrei europei. Il piano mirava a collocare, in mezzo al mondo arabo, tre o quattro milioni di ebrei europei.
Tali suggerimenti furono seguiti dall’accordo segreto fra Francia e Inghilterra noto come Sykes-Picot, dal nome dei suoi ideatori, che aprì la strada alla fondazione dello Stato ebraico. Il politico inglese M. Sykes era uno stretto amico di Weizmann e sostenne con il diplomatico francese F. G. Picot la causa sionista. L’anno successivo, 1917, il consiglio dei ministri britannico guidato da A. Lloyd George si impegnò a istituire un territorio per gli ebrei in Palestina. L’impegno fu presentato in forma di lettera dal ministro degli esteri Balfour al leader sionista Lord Rothschild.
Come ha osservato l’esimio storico israeliano prof. Avi Shlaim “L’Inghilterra non aveva diritto legale, politico o morale di promettere ad altri la terra che apparteneva agli arabi. Per cui la dichiarazione di Balfour era al contempo illegale e immorale”. A poco più di un mese dall’impegno sottoscritto da Balfour, l’esercito inglese guidato da Allenby occupò Gerusalemme insieme a un’unità militare sionista, costituita dagli inglesi, in cui militavano i futuri padri della patria israeliana: D. Ben-Gurion e Z. Jabotinsky. Un mese dopo il generale Allenby riceveva il suo amico Weizmann. Nel frattempo il numero degli ebrei in Palestina era salito a cinquantamila, mentre gli arabi erano cinquecentomila. Nonostante gli sforzi congiunti di sionisti e colonialisti inglesi gli ebrei erano ancora meno del 10% della popolazione del paese.
Alla fine della guerra il presidente degli Usa Wilson inviò in Palestina un comitato per esplorare la situazione in Palestina in vista degli accordi di pace di Parigi. Il comitato riferì che, sulla base del principio di autodeterminazione delle nazioni, cui dichiarava di volersi ispirare Wilson, il 90% della popolazione costituita da arabi era assolutamente contraria al progetto dei sionisti e altrettanto contrari erano gli arabi residenti nei paesi limitrofi. Perciò, per iniziare il piano sionista ci sarebbe stato bisogno di un esercito di almeno cinquantamila uomini. Il che era la migliore dimostrazione di come tale piano fosse ingiusto e contrario al diritto dei popoli all’autodeterminazione. Alla conferenza di pace di Parigi la Gran Bretagna fu rappresentata da Lloyd George e Balfour, i sionisti da Weizmann che mostrò una mappa del progetto di Stato sionista comprendente non solo la Palestina, ma la riva orientale del Giordano, il sud del Libano e la zona occidentale della Siria.
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