L’anno appena trascorso potrà essere ricordato dai lavoratori americani soprattutto per il successo di alcune importanti vertenze, prima fra tutte quella dei lavoratori della scuola in alcuni stati governati dal partito repubblicano, ma anche quelle di lavoratori in grandi gruppi come Chrysler, Verizon, e il fondo pensioni Teamster, in tutti i casi con un ruolo determinante svolto dai sindacati. È stato inoltre l’anno che ha sancito uno storico successo elettorale per diversi candidati che si definiscono apertamente socialisti ed intendono portare al Congresso un nuovo impegno per riportare al centro dell’azione legislativa gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici americane. I lettori de La Città Futura attenti alle questioni di politica estera hanno già potuto leggere diversi articoli su questi temi.
Il nuovo anno sembra iniziare sulla stessa falsariga del precedente. Di grande rilevanza è stato, ad esempio, il provvedimento adottato dal governo dello Stato di New York, capeggiato dal democratico centrista Cuomo, che ha innalzato il salario minimo a 15 dollari all’ora per numerose categorie di lavoratori e per il momento esteso solo alla grande mela. Un obiettivo che era stato oggetto di lotte durate anni, una campagna nota come “Fight for 15$”.
Intanto il tema dell’immigrazione rimane sempre al centro del dibattito politico, e proprio durante il periodo festivo si è verificato un inasprimento della tensione tra il Presidente Trump ed il Congresso, con il primo che è tornato alla carica per il progetto di realizzazione del muro anti-immigrati da costruire lungo i confini con il Messico, chiedendo l’autorizzazione di un budget specifico, e rifiutandosi di ratificare la legge di bilancio necessaria per il funzionamento della macchina burocratica federale che viene quindi ad essere in parte paralizzata (definita nel dibattito di questi giorni “shutdown” cioè “spegnimento”).
Il braccio di ferro, che ha tenuto banco durante tutto il periodo delle festività di fine anno, è soprattutto verso la componente democratica che, dalle ultime elezioni di mid-term, detiene adesso la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ed ha subito opposto un netto rifiuto alle pretese di Trump. A pagare il prezzo di questo scontro al momento sono i lavoratori di diverse amministrazioni federali, un quarto dei quali vedono per il momento i loro stipendi “congelati” da ormai quasi un mese e rischiano addirittura il licenziamento. Inoltre, danno aggiuntivo, il progetto di legge di bilancio aveva comunque già sacrificato il previsto aumento salariale dell’1,9%. Oltre ai lavoratori federali, le conseguenze di questa situazione le stanno pagando naturalmente anche tutti i cittadini americani, privati di alcuni servizi pubblici, tra cui la FEMA, agenzia per la gestione delle emergenze (una sorta di protezione civile) e l’EPA, agenzia per la protezione dell’ambiente.
In questo contesto appare incoraggiante che nelle ultime settimane diversi giornali di riferimento di movimenti e partiti comunisti e socialisti di orientamento marxista, abbiano tutti voluto enfatizzare come obiettivo strategico fondamentale per imprimere una reale svolta nell’azione politica sia l’unità nelle lotte tra lavoratori immigrati e lavoratori di cittadinanza statunitense.
Tutti sono consapevoli dell’importanza di sviluppare al tempo stesso una narrativa ed un’azione di lotta unitaria di classe, quale elemento decisivo per contrastare il radicamento del populismo delle destre reazionarie e nazionaliste su alcuni settori dei lavoratori americani, soprattutto bianchi e nelle aree industrialmente più depresse del paese, dove si è determinato il successo elettorale di Trump, sebbene, come abbiamo già argomentato a suo tempo su queste pagine, non vada neanche troppo esagerato il peso della componente operaia nell’elettorato del miliardario newyorkese, essendone pur sempre una minoranza.
Il People’s World ad esempio non soltanto ricorda che la divisione che la destra populista cerca di portare avanti tra lavoratori americani e lavoratori immigrati danneggia l’intera classe lavoratrice, ma evidenzia soprattutto che l’opposizione progressista, con tutti i movimenti che sono sorti in questi ultimi anni per contrastare queste tendenze, ha posto fin qui l’accento soltanto sull’aspetto umanitario e dei diritti civili, tralasciando invece l’elemento più importante, quello dell’approccio di classe e fondato sull’aspetto economico, denunciando che la lotta a favore degli immigrati deve essere vista come una lotta per spostare i rapporti di forza a beneficio di tutti i lavoratori nel loro insieme.
La necessità di una prospettiva di lotta di classe viene richiamata anche dal Socialist Worker che non manca di criticare aspramente non soltanto la componente progressista (“liberal”) del partito democratico, ma anche una gran parte dei movimenti di sinistra che si battono per i diritti degli immigrati e che però nel corso degli ultimi decenni hanno finito con lo sposare una strategia orientata al compromesso, strategia che risale ai tempi dell’amministrazione Reagan e che è puntualmente proseguita poi, con perfetta regolarità “bipartisan”, con le amministrazioni successive fino ad Obama. Anzi, proprio durante la presidenza Obama si è definitivamente consolidato il compromesso tra le esigenze di sicurezza ai confini, per evitare l’ingresso di immigrati sprovvisti di documenti, e quelle di tutela degli immigrati regolari. In sostanza, questa politica, che mirava ad ottenere il consenso di una parte della classe media, ma anche di lavoratori, sobillati da decenni di allarmismo mediatico nei confronti del fenomeno migratorio, ha avallato la divisione tra gli stessi lavoratori immigrati.
Tutte le organizzazioni a loro difesa hanno infatti sempre accettato la definizione di “quote” cercando di far stare dentro gli immigrati regolari per evitarne la discriminazione, e spingendo però di fatto il resto degli immigrati, quelli senza documenti regolari, in condizioni ancora peggiori di sfruttamento incontrollato, facilitato dalla minaccia di leggi sempre più repressive. Tutto questo ha invece enormemente avvantaggiato, come giustamente sottolinea il Socialist Worker, le classi dominanti, le grandi imprese che hanno potuto disporre di una componente di manodopera a basso costo che, a sua volta, ha rappresentato il solito “esercito industriale di riserva” che da marxisti sappiamo bene quale ruolo fondamentale gioca nel conflitto di classe e nel rafforzamento del dominio del capitale sul lavoro.
Un esercito industriale di riserva che, come ricordano sia People’s World che Socialist Worker, è il prodotto dello stesso imperialismo USA, cioè dell’interventismo politico, economico e militare che costantemente gli USA esercitano nei confronti di gran parte dei paesi latinoamericani, in particolare nel Centro America. È noto, infatti, che spesso gli esodi migratori originano da colpi di stato dittatoriali, appoggiati da Washington, oppure dalla (propagandata) guerra alla droga, che produce come solo effetto quello di far fuggire masse di contadini e diseredati dai loro territori. Per non parlare dell’effetto che hanno prodotto i trattati del NAFTA (oggi USMCA) con il Messico, imponendo a quest’ultimo l’importazione di prodotti agricoli americani, sussidiati dal governo, in sostituzione di molti prodotti locali, e provocando quindi l’espulsione di manodopera contadina dall’agricoltura e diretta verso gli USA, laddove non sempre la delocalizzazione industriale delle produzioni statunitensi in Messico è stata in grado di riassorbirla, tenendo conto anche del progresso dell’automazione industriale e della concorrenza esercitata da altre aree emergenti del pianeta (Asia in primis).
La piena partecipazione di tutti i lavoratori immigrati darebbe una spinta propulsiva fondamentale alle lotte ed alle organizzazioni sindacali come ricorda People’s World. L'AFL-CIO, principale confederazione sindacale negli USA, dopo una fase di titubanza, segue adesso una linea pienamente convinta di sostegno ai diritti dei lavoratori immigrati. La storia americana insegna infatti che, fin dai primi giorni del movimento operaio USA, i lavoratori immigrati hanno sempre svolto un ruolo centrale nelle lotte. Gli immigrati erano, di gran lunga, e sono tuttora, il settore più pro-sindacale della classe operaia americana, e sono quelli che sceglierebbero in modo schiacciante di aderire ai sindacati se ne avessero l'opportunità. Se ben organizzati gli immigrati possono diventare la componente più forte e più militante, aiutando tutti gli altri lavoratori.
Lo sviluppo tecnologico di matrice capitalista ha inoltre prodotto, come fa osservare Workers World, un cambiamento nella composizione della classe lavoratrice, un cambiamento che non è soltanto caratterizzato dall’elemento etnico o razziale ma che ha visto soprattutto un aumento delle componenti di manodopera meno qualificata e specializzata a detrimento di quelle mansioni che un tempo erano la base portante dell’economia fordista e che oggi sono state in gran parte eliminate dalla spinta congiunta dell’automazione e della delocalizzazione globalista.
Questi cambiamenti hanno portato negli ultimi anni alla nascita di diverse lotte e di movimenti che hanno cercato di dirigerle ed organizzarle, ma sempre in un’ottica parziale e fortemente legata alla componente etnica o alle specifiche cause scatenanti il disagio sociale. Se è vero che queste lotte hanno contribuito a dinamizzare la vita politica ed a mobilitare importanti settori delle classi popolari, il Workers World ribadisce con forza che soltanto nel momento in cui tutti questi movimenti, pur senza dover necessariamente perdere la loro identità, si faranno parti costituenti di un’azione unitaria e di classe, allora si potrà realmente avere uno sviluppo delle lotte in senso autenticamente anticapitalista e socialista.
Un ultimo fondamentale contributo di riflessione viene infine dal The Jacobin che ci ricorda come il vero sviluppo delle lotte può avvenire soltanto in una prospettiva che non rimanga meramente movimentista o elettoralista. In un sistema capitalista, il terreno centrale delle lotte deve essere sempre il luogo di lavoro, poiché, come insegnano le più recenti esperienze prima citate, è su quel terreno che emerge con maggiore chiarezza il conflitto di classe agli occhi dei lavoratori, è su quel terreno che matura la coscienza di classe, è in quelle lotte che si rafforzano meglio i legami di solidarietà di classe, è su quel terreno che si realizza una mobilitazione veramente attiva e partecipata da parte dei lavoratori, una mobilitazione che invece nelle campagne elettorali, anche quelle condotte con le modalità più democratiche possibili, rimane per sua stessa natura sempre sostanzialmente passiva e orientata alla delega.
Lo sviluppo che sta prendendo il dibattito in seno alle componenti anticapitaliste e marxiste nella sinistra americana è estremamente interessante anche in un’ottica europea e italiana, e mostra come ormai i tempi sono maturi per un ulteriore salto di qualità nelle lotte. È tempo, quindi, negli USA così come a livello internazionale, di cominciare a superare l’approccio particolaristico e frammentario dei movimenti e delle lotte, e questo può essere fatto soltanto in una prospettiva di classe senza compromessi o cedimenti né alle suggestioni etniche e razziali né a quelle dell’umanitarismo generico.
E, travalicando l’orizzonte puramente nazionale americano, il rilancio di un fronte internazionale delle lotte dei lavoratori appare un ulteriore ed indispensabile elemento per contrastare efficacemente l’imperialismo, in tutte le sue forme, che favorisce lo strapotere delle imprese multinazionali e determina l’attuale situazione di squilibrio a livello globale nei rapporti di forza tra le classi dominanti e le classi subalterne.