Una riforma del capitalismo è veramente all'orizzonte? Il capitalismo sarà riformabile?
Da decenni si parla di correggere i limiti e le contraddizioni del modo di produzione capitalistico e della società da esso generata. Lo si fa puntualmente nei momenti di crisi quando le contraddizioni emergono con maggiore forza, quando cala il saggio di profitto, esplodono bolle speculative o aumentano i costi di produzione, in presenza di sovrapproduzione o stagflazione.
Se poi la conflittualità tra capitale e lavoro si accentua, le spinte del capitale verso ipotesi di riforma diventano la risposta obbligata per attenuare le contraddizioni e ricondurle nell'alveo delle riforme compatibili con la salvaguardia dell'attuale sistema da puntellare con qualche correttivo.
Questa premessa si rende necessaria per analizzare le ultime dichiarazioni di Stiglitz, premio Nobel dell'economia, pubblicate in un'intervista al quotidiano Il Sole 24 Ore nell'edizione della scorsa domenica.
Disuguaglianze crescenti, perdita del potere di acquisto, crescita ridotta sono diventate una realtà del capitalismo nella sua fase attuale, tanto da spingere Stiglitz a ritenere indispensabili dei cambiamenti radicali per la tenuta del sistema e al fine di evitarne la implosione. Resta innegabile che un'area di economisti e intellettuali Usa dopo l'insuccesso tesi sostenute nei paesi di origine vada a proporle al vecchio continente. Accade oggi al progressista premio Nobel come nel passato avveniva per altri su posizioni opposte.
Gli ultimi anni hanno solo acuito le contraddizioni; l'assalto a Capitiol Hill ha sconvolto i capitalisti liberal. Eppure sotto le ceneri neoliberiste, tra guerre e devastazioni economiche e sociali, covavano le contraddizioni di un sistema in crisi dopo anni di delocalizzazioni produttive e l'acuirsi dei contrasti sociali all'interno del paese capitalistico dominante.
La vittoria elettorale di Trump non è stata un incidente di percorso. Per quanto, almeno in termini di voti, i repubblicani siano stati superati dai democratici, il sistema elettorale statunitense ha premiato un candidato avverso a parti significative del potere economico e finanziario dominante.
Da qui a presentare Trump come candidato del popolo in antitesi alle oligarchie corre grande differenza (l'idiozia di certi ambienti “comunisti” che urlano contro la dittatura democratica si commenta da sola). Non sono certo imputabili ai soli repubblicani o ai soli democratici le contraddizioni sistemiche determinate da anni di politiche imperiali e di delocalizzazioni produttive che hanno impoverito ed emarginato buona parte della working class bianca. L'assalto a Capitol Hill andrebbe letto senza drammatizzare i fatti e magari svelando il fine di preservare un sistema politico logoro e traballante.
Stiglitz parla apertamente di capitalismo progressista, quindi la sovrastruttura ideologica resta funzionale alle ipotesi di riforma coincidenti con la salvaguardia del sistema stesso.
La nozione di progressismo e di populismo non aiutano a comprendere le contraddizioni reali; anzi sono utili ad addomesticale e a soddisfare la ricerca di egemonia delle varie fazioni divise tra di loro ma concordi sui fini.
In Europa i paesi sovranisti sono i principali fautori della Nato e delle politiche Usa, più vicini a Washington che a Berlino e a Parigi. Polonia e Ungheria sono governati da partiti ideologicamente vicini a Trump ma le ragioni della politica li spingono verso il sostegno a Biden.
Siano sufficienti questi elementi per confutare un arcaico luogo comune, quello di costruire una lettura parziale e semplificata e – perché no? – accomodante della realtà.
Ma torniamo alle dichiarazioni di Stiglitz per altro già ripetute nel corso degli anni e particolarmente adatte a leggere la svolta energetica verde e il progresso tecnologico quali strumenti funzionali alla salvaguardia e al rilancio del sistema di produzione capitalistico.
Non è casuale il richiamo al cambiamento climatico e all'idea di un capitalismo compatibile con la salvaguardia ambientale, magari esportando nei continenti meno sviluppati le produzioni nocive, così come l'attenzione riservata alle crescenti disuguaglianze che impongono agli Stati piani straordinari di intervento sociale e riforme del welfare dopo anni di saccheggio delle risorse pubbliche.
La lenta crescita economica, in anni pandemici e di guerra, non è un fenomeno passeggero. Il ricorso alla guerra diventa dirimente per affermare l'egemonia del dollaro sulle altre monete e per il sistematico controllo delle vie energetiche da parte dei paesi dominanti (e delle loro multinazionali).
Le disparità retributive, alla lunga, diventano un fattore sociale preoccupante se acuiscono le conflittualità nei luoghi di lavoro. Pensiamo che le contraddizioni imperialistiche rendano sempre più difficile l'esportazione di forza-lavoro qualificata, mentre nei paesi a capitalismo avanzato mancano figure professionali per la formazione delle quali occorrerebbero anni e magari un sistema universitario e scolastico diverso da quello attuale.
La stessa idea dell'ascensore sociale in continuo movimento ha fatto la fortuna ideologica del capitale ma, dopo anni di cultura del presunto merito, ci si accorge che al self made man è subentrata una sorta di oligarchia censocratica e anche le società democratiche tradizionali sono entrate in crisi con l'accentramento di crescenti poteri nelle mani di ristrette élite, se pensiamo, per esempio, al controllo del mondo dei social.
Le preoccupazioni di un sostenitore del capitalismo illuminato come Stiglitz riprendono tematiche che stanno a cuore anche al centro sinistra europeo o almeno alle parti più "avanzate" dello stesso.
Chiudiamo con alcuni suggerimenti del premio Nobel dell'economia all'Ue: si proceda quanto prima alla riforma del Patto di stabilità perché le attuali regole sono ostacolo alla crescita del vecchio continente e alimentano invece contraddizioni crescenti tra centro e periferia, tra paesi forti e quelli economicamente deboli.
La ricetta di Stiglitz è quella di una sorta di neokeynesismo temperato con la riscoperta del ruolo dello Stato e l'allargamento del suo intervento in campo economico. Le ricette neoliberiste e il modello Americano sono considerati errati e inutili per la salvaguardia del sistema capitalistico; meglio allora rilanciare il compromesso tra Stato e soggetti privati dentro ipotesi di riforma e di rilancio del capitalismo.
Qui subentrano i punti salienti dei principi riformatori: il ruolo dello Stato, il suo rapporto con l'economia, il sistema fiscale, il modello sociale da ricostruire, i conflitti da prevenire, i cambiamenti produttivi tra processi innovativi e riconversioni industriali. Argomenti salienti sui quali varrà la pena di avviare una riflessione collettiva per non cadere vittime, come accaduto nel passato, delle sirene ammaliatrici del nemico di classe.