L’elezione di Enrico Letta rappresenta il completo allineamento del Pd alla deriva positivista della sostituzione della direzione politica con una direzione tecnica. Proprio come Mario Draghi, si tratta di un tecnico rappresentante del grande capitale finanziario transnazionale, accolto come un messia e lodato da tutti gli esponenti politici e sindacali mainstream. Non a caso, dopo essersi felicitato con Sergio Mattarella per l’incarico a Draghi e dopo aver rilanciato la concertazione con Renato Brunetta, Maurizio Landini è stato fra i primi a rallegrarsi per la scelta di Letta a capo del Pd.
Come praticamente tutto l’arco parlamentare si è stretto intorno al tecnico Draghi, tutte le anime del Pd si sono precipitate a incoronare Letta. Un voto bulgaro, con tutti a favore e appena quattro astenuti, senza nemmeno un candidato alternativo, senza primarie o un voto aperto almeno agli iscritti al partito. Anche in questo caso, facendo sprofondare nell’oblio il curriculum del nuovo unto del Signore. Di Draghi si è taciuto il ruolo centrale nell’adozione del fiscal compact che dal 2012 pende come una spada di Damocle sulla testa del nostro paese, pronta ad abbatterlo se non si sottoporrà alle ricette economiche ordoliberiste dell’Unione europea. Si è occultato il ruolo di primo piano svolto insieme a Romano Prodi nella svendita ai privati dell’enorme patrimonio pubblico italiano. Per dirla con Marco Revelli, Draghi si è distinto come “grand commis di Stato come direttore del ministero del Tesoro sotto tutti i governi (da Andreotti ad Amato a Berlusconi) distinguendosi in perfetto stile neoliberista nel ruolo di grande privatizzatore di quasi tutto (Iri, Eni, Enel, Comit, Telecom)” [1]. Si è nascosto il ruolo apicale che Draghi ha svolto per una delle principali centrali del grande capitale finanziario transnazionale: la Goldman Sachs. Si è cercato di non ricordare la famigerata lettera scritta con Jean-Claude Trichet, che ha spalancato la strada al massacro sociale del governo Monti. Si è occultato il ruolo svolto da Draghi come direttore della Banca europea nell’imporre la più drastica austerità al popolo greco che aveva in massa combattuto e votato per una alternativa di sinistra alle politiche neoliberiste. In effetti, Draghi non si è fatto nessuno scrupolo a “spingere sott’acqua la Grecia di Alexis Tsipras togliendo la liquidità d’emergenza alla sue banche e, l’anno dopo, di ispirare il jobs act renziano” [2].
Per quanto riguarda il curriculum vitae di Letta possiamo lasciare la parola a Roberto Musacchio, non certo un estremista: “era a capo di un governo con Berlusconi, Verdini e lo zio Gianni con un programma neoliberista e antipopolare. Il dato sui tagli alla sanità di quel governo sono emblematici. Prima era stato sostenitore convinto del governo Monti: «Ho sentito frasi, anche nel mio partito, di chi si pente di avere fatto nascere il governo Monti. Non dobbiamo pentirci» [3] sino ad arrivare a sostenere: «il governo Monti è l’atto fondativo del Pd». Più in generale la sua linea è sempre stata quella della fedeltà alla governance neoliberista europea: riforme delle pensioni e del mercato del lavoro (precarizzazione), privatizzazioni. «Dobbiamo lavorare molto sul tema privatizzazioni. Il patrimonio pubblico è ancora enorme», disse. È uno dei protagonisti di quella linea che dagli anni ’90 ha sostituito alla Costituzione i trattati ordoliberisti europei: non a caso scrisse un libro dal titolo Morire per Maastricht nel 1997” [4]. Enrico Letta si è formato come collaboratore di Beniamino Andreatta, artefice della gestione privatistica della Banca d’Italia che, non comprando più i titoli del debito pubblico, ha fatto precipitare il paese nell’attuale perverso meccanismo del debito. In altri termini, separando “Banca d’Italia e Tesoro ha fatto esplodere il debito pubblico consegnandolo alla speculazione internazionale, prima imposizione del vincolo esterno per disciplinare la società e giustificare «riforme» neoliberiste” [5].
Del resto “Letta non viene dai social forum ma dalla Trilateral Commission e frequenta Bilderberg” [6]. Peraltro, non appena eletto, Letta ha immediatamente messo la pietra tombale sulla proposta di legge democratica proporzionale, rilanciando il maggioritario uninominale liberale (non a caso era nel gruppo dei Liberali al parlamento europeo), che consegnerà la maggioranza assoluta del prossimo governo a Lega, post fascisti e berlusconiani. In effetti, la vera novità introdotta da Letta “riguarda la legge elettorale ed è la messa in archivio del modello proporzionale rivendicato da Zingaretti fino all’altro ieri. E cristallizzato in un patto con i 5 Stelle sulla proposta di legge Brescia. Niente da fare, Letta è un campione di quell’impostazione che da Prodi a Veltroni continua a vedere nel maggioritario la soluzione dei problemi dell’Italia. E infatti ha detto che recupererebbe volentieri il Mattarellum, legge che premia le coalizioni come quella di centrodestra” [7]. Senza contare che Letta non ha nemmeno “citato le piccole modifiche compensative, che pure anche il Pd riteneva indispensabili a mitigare gli effetti distorsivi del taglio dei parlamentari sulla rappresentanza (con il Mattarellum potrebbero persino aumentare)” [8].
D’altra parte, la matrice ideologica originaria del Pci è stata “nascosta sotto il tappeto, e sostituita da uno esplicito desiderio di andare al governo. Per quel desiderio, la platea di elettori era da cambiare, e si attraversò il mar rosso del mondo del lavoro manuale per accamparsi sulla spiaggia del ceto medio «riflessivo», a cui stanno a cuore i diritti di tutti, dai disabili agli alcoolisti. Quanto ai problemi del lavoro si possono affrontare con il reddito di cittadinanza, una soluzione che rende possibile stringere alleanze con altre forze politiche. La prima alleanza è stata con quei democristiani usciti indenni dalla bufera di tangentopoli, ne è nato poi un partito, metà Pci, metà Dc col nome di Pd, dove accanto alla pietas per i diseredati della terra, ha fatto aggio l’esperienza democristiana su quale cultura di potere e di governo si fondano le mosse politiche per conquistare il governo” [9]. Come è stato a ragione fatto notare “scriveva un tempo Pintor «non moriremo democristiani». Dopo tanti anni i democristiani hanno fagocitato il Pd e ancora occupano molte cariche dello Stato. Democristiani sono il presidente della Repubblica, il segretario e i principali ministri e leader Pd” [10].
Del resto anche “le poche esperienze di governo del Pd sono ascrivibili quasi tutte al saper fare dei politici professionali di ascendenza democristiana. Quando, per pochi mesi, divenne presidente del consiglio un politico professionale di origine comunista colse l’opportunità per farsi legittimare dall’intero mondo, e all’epoca delle guerre balcaniche degli Usa di Clinton, ne diede prova con la sua acquiescenza per le bombe su Belgrado” [11]. Si trattò di una “aggressione devastante che venne definita «umanitaria» e voluta dall’allora Ulivo mondiale (Clinton, Blair, Schroeder, D’Alema)” [12]. L’occasione è stata prontamente sfruttata dai leader internazionali del centro-sinistra per rilanciare la Nato, che rischiava altrimenti di rimanere un residuato bellico della guerra fredda. In effetti, “la Nato, mentre bombardava la Jugoslavia senza avallo Onu, cambiava rocambolescamente i suoi statuti per adeguarli alla bisogna, facendo a pezzi il diritto internazionale e dimostrando al resto del mondo che lo stesso diritto internazionale poteva essere impunemente considerato «cosa nostra»” [13].
Così il primo, e unico, governo di un ex esponente del Pci ha rimarcato nel modo più netto la metamorfosi dei postcomunisti dall’essere stati per anni l’ala destra del movimento dei lavoratori, a rappresentare l’ala sinistra del blocco sociale dominante della grande borghesia. Tale riallineamento fu ulteriormente spostato a destra quando divenne presidente della Repubblica il primo e unico ex esponente del Pci.
L’ultima svolta a destra è stata segnata dal pieno appoggio al governo Draghi e dall’elezione per acclamazione di Letta. Così, “quando il Pd stava scivolando nel baratro elettorale del 14%, ecco arrivare dal cielo celeste ben due salvatori della patria, ambedue estranei a quel pezzo del partito, le cui lontanissime origini, più volte rinnegate, risalivano al dopoguerra. Ai due salvatori spetta di raddrizzare l’economia, la società, la politica. Le grandi aspettative createsi dipendono dal fatto che entrambi sono esponenti dell’élite e come tali sono promossi a priori, qualsiasi iniziativa intraprendono” [14].
Perciò, come è stato a ragione notato, “per quanto riguarda l’aspetto teorico esiste ormai una vasta letteratura di studi seri sulla completa organicità del Pd alla temperie culturale neo-liberale. L’esame attento della storia di trent’anni delle varie «cose» e poi del Pd, prova empiricamente come tale temperie si sia risolta con coerenza nella concretezza delle scelte di politica economica” [15]. Perciò, è del tutto inutile illudersi sulla possibilità che il Pd possa un giorno rioccupare quella prateria che si è aperta a sinistra, dopo il suo spostamento su posizioni ordoliberiste. Del resto, “l’identità profonda di un partito che, nelle varie denominazioni, ha trent’anni di storia è quella storia stessa. Sul tema dell’identità plasmata da tale storia sono possibili solo variazioni, che possono avere una qualche influenza sulla tattica relativa alle possibili coalizioni, ma nessuna sulla necessità strategica” [16].
Perciò con un governo di unità nazionale guidato da Draghi e con il principale partito del centro-sinistra capeggiato da Letta – con il pieno appoggio di tutte le componenti del Pd – non è difficile prevedere su quali gruppi sociali ricadranno i costi negativi della crisi in atto. In effetti, il governo è completamente proteso a mettere le mani sui fondi del Next Generation Ue. “Sono molti soldi, in parte sotto forma di trasferimenti, in parte sotto forma di prestiti. Tutti legati alle famose «condizionalità», ovvero alla necessità di mettere in campo una serie di riforme dai connotati neoliberali, e all’impegno, passata l’ubriacatura di spesa, a sistemare i conti di bilancio con una nuova dose di austerità legata all’aumento del debito pubblico. Un percorso tortuoso che, viste le premesse – il Pnrr predisposto dal governo Conte e le linee guida del governo Draghi – rischia di diventare «il danno e la beffa» per i bisogni della popolazione: il danno di centinaia di miliardi per rilanciare l’economia – questa economia – senza alcun cambio di paradigma (…), e la beffa di scaricarne gli effetti sulla popolazione con una riedizione dell’austerità” [17].
Note:
[1] Marco Revelli, Il martedì nero in cui cade Conte e arriva l’uomo forte, in “Il manifesto” del 05.02.2021.
[2] Ibidem.
[3] Roberto Musacchio, Moriremo democristiani (e per Maastricht)?, editoriale di “Transform!” del 17/3/2021.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Andrea Fabozzi, Le riforme di Letta, maggioritarie e anti casta, in “Il manifesto” del 16.03.2021.
[8] Ibidem.
[9] Rita di Leo, Mezzo secolo di storia finisce nel governo dell’élite, in “Il manifesto” del 23.03.2021.
[10] Roberto Musacchio, Moriremo democristiani (e per Maastricht)?, cit.
[11] Rita di Leo, Mezzo secolo…, cit.
[12] Gregorio Piccin, In serbo per la Nato tanti processi (anche all’Aja), in “Il manifesto” del 26.03.2021.
[13] Ibidem.
[14] Rita di Leo, Mezzo secolo…, cit.
[15] Paolo Favilli, Se la strategia si riduce a tattica per le elezioni, in “Il manifesto” del 24.03.2021.
[16] Ibidem.
[17] Marco Bersani, I soldi che verranno (Pnrr) e quelli che già ci sono (Cdp), in “Il manifesto” del 27.03.2021.