Al contrario dell’Ue di Maastricht, la Cee si poggiava sul compromesso Keynesiano, utilizzando il piano Marshall in funzione anticomunista per scongiurare l’ingresso del Partito comunista italiano e francese al Governo. A tal fine si procedeva con importanti interventi comunitari di natura pubblica.
Il compromesso keynesiano non fu comunque sufficiente ai sindacati di ispirazione comunista e al Pci per accettare o votare favorevolmente al trattato europeo; scenari diametralmente opposti a quelli di venti anni dopo con la supina accettazione dei dettami di Maastricht da parte delle cosiddette sinistre politiche e sindacali.
Il Trattato Cee è figlio del compromesso neokeynesiano e seppe connotare la comunità europea anche in senso sociale. Non mancarono atti di pianificazione economica, e politiche di sostegno della domanda. Si pensava alla piena occupazione per favorire la stabilità dei prezzi; si eliminarono dazi e dogane per salvaguardare le esportazioni ma al contempo si favorirono le produzioni locali e il consumo interno dei prodotti anche quando erano economicamente meno vantaggiosi. E nell’Europa degli anni sessanta e settanta non trovava spazio il classico contratto dell’idraulico polacco da esportare in paesi dove il costo del lavoro era decisamente più alto e le tutele individuali e collettive maggiori.
Partiamo da questa breve e sommaria ricognizione storica per ricordare il punto di rottura\svolta sancito dal trattato di Maastricht alla cui realizzazione contribuirono anche gli attuali esponenti del Pd e i loro alleati della Cgil.
Da quel momento in poi il pareggio di Bilancio, le regole dell’austerità, fino alla attuale Sostenibilità Finanziaria, sarebbero stati i fari guida delle politiche europee almeno fino all’arrivo della Pandemia e oggi con il Recovery Fund, la cui merce di scambio presuppone controriforme in materia di Pubblica Amministrazione, ammortizzatori sociali, welfare e politiche “attive”del lavoro.
Nei giorni scorsi abbiamo appreso del piano fiscale di 1900 miliardi di dollari deciso dall’Amministrazione Biden che dopo mesi di caos pandemico e di migliaia di morti ha intrapreso vaccinazioni di massa della popolazione beneficiando di quantità industriali di vaccini gentilmente concesse dalle multinazionali del farmaco, le stesse che hanno lesinato dosi al vecchio continente.
Sempre in questi giorni registriamo la previsione, al rialzo, del Pil Usa da parte dell’Ocse, Pil che passa dal 3,2 al 6,5% solo nell’anno corrente mentre i dati del l’Eurozona prevedono, nel migliore dei casi un 3,9 per cento.
La pandemia rischia di allargare i divari tra le economie europee e Usa perché, tanto con Trump quanto con Biden, gli aiuti statali all’economia nazionale sono stati assai maggiori di quelli della Ue anche in virtù della sovranità monetaria ed economica del colosso americano.
Politica monetaria e di bilancio si intrecciano influenzandosi vicendevolmente. Se batti moneta hai un indubbio vantaggio sul vecchio continente nel sostegno di domanda e salari. Oggi l’Ue prova a dettare le linee di una politica fiscale unica per i paesi membri quando fino a oggi gli interventi fiscali e di Bilancio non rientravano nelle competenze dell’Unione e venivano demandate invece ai singoli stati. Mentre gli Usa attuano politiche di sostegno alla domanda e di rafforzamento dei salari e del potere di acquisto cosa intende fare il vecchio Continente? Politiche fiscali e di bilancio in prospettiva saranno sempre più soggette a regole uniche proprio a partire dalle condizioni imposte per usufruire del Ricovery Fund, resta il fatto che i ritardi europei potrebbero essere ben presto accentuati rispetto alla locomotiva Usa, soprattutto se la Nato continuerà a esigere maggiore partecipazione dei singoli paesi alle spese dell’Alleanza che ormai viaggiano sopra il 2 % del Pil di ciascuna nazione.
Il sostegno economico Usa all’economia negli ultimi due anni supera l’11% del Pil, un sostegno di gran lunga maggiore di quello accordato dall’Ue ai paesi membri che al contempo devono anche superare i ritardi accumulati nel passato tra delocalizzazioni, disinvestimenti pubblici, privatizzazioni nei settori strategici che hanno accresciuto il gap rispetto ai paesi capitalisticamente avanzati. Nel migliore dei casi, con tutti i piani di sostegno previsto, gli aiuti europei ai paesi membri saranno attorno al 6% del Pil, ossia la metà di quelli Usa.
Al contrario di quanto accaduto nel biennio 2007-8, gli Usa rafforzeranno le misure fiscali a sostegno dell’economia, attueranno politiche monetarie finalizzate a tale scopo, non guarderanno all’inflazione e all’indebitamento, anzi proveranno a far pagare il debito a Cina e Ue.
Che poi le misure del presidente Biden di sostegno alla domanda e ai salari Usa abbiano ricadute positive anche sulla Ue è tutto da dimostrare. Gli aiuti statali americani andranno a redditi fino agli 80 mila dollari riguardando soprattutto la middle class che aveva, in passato, voltato le spalle ai democratici.
Da Il Sole 24 Ore del 21 Marzo 2021 leggiamo testualmente: “l’assegno è di 1.400 dollari fino a 75mila dollari di reddito per una sola persona e 150mila per una coppia sposata e viene progressivamente ridotto fino ad azzerarsi entro la soglia degli 80mila dollari (160mila per una coppia sposata)”.
Ma gli aiuti Biden non si fermano qui e riguarderanno anche il welfare, le giovani generazioni, gli assegni familiari. Interverranno decisamente sui prestiti, fino a oggi onerosi, accordati per frequentare l’università e laurearsi, prestiti che gravano per un trentennio sui futuri salari una volta che i laureati saranno entrati nel mercato del lavoro. L’americano medio è sempre più indebitato per i prestiti d’onore e sicuramente il sistema subirà alcuni correttivi.
Gli Usa scelgono di sostenere la domanda e i consumi mentre in Italia si pensa invece a politiche di accomodamento con le regole di austerità attuando, per mezzo del compromesso concertativo, i processi di ristrutturazione imposti dal Recovery come la riforma della Pa che avverrà secondo i desiderata confindustriali.
Il Bel paese spera di poter accrescere le esportazioni negli Usa anche in virtù della ripresa della domanda di quel paese; tuttavia siamo veramente certi che i prodotti italiani non dovranno subire la concorrenza spietata di altri paesi decisamente più avanti sul fronte della tecnologia e dell’innovazione? Può reggere una economia basata da anni sul contenimento della dinamica salariale, sul timido sostegno alla domanda e sulle delocalizzazioni? Sono domande alle quali presto arriveranno risposte.