La crisi del settore aeroportuale

La crisi del settore aeroportuale mette a rischio migliaia di posti di lavoro. Nella seconda ondata pandemica il crollo del traffico aereo è proseguito e dalla crisi non si uscirà prima del 2023. Gli enormi profitti accumulati e la svendita delle azioni pubbliche di tanti scali hanno allontanato ogni serio controllo del settore. All’ombra degli affari dilaga la precarietà.


La crisi del settore aeroportuale

La liberalizzazione del settore aereo ha permesso a società e compagnie enormi profitti all’ombra dei quali dilaga la precarietà occupazionale e retributiva nel settore degli appalti. Prendiamo per esempio gli scali toscani, Firenze e Pisa, dove operano un migliaio di dipendenti delle società Toscana aeroporti e Toscana aeroporti Handling (quest’ultima in vendita) e alcune centinaia negli appalti alle dipendenze di cooperative che applicano il contratto multiservizi e ricorrono per lo più a contratti individuali part-time.

A fine ottobre scadranno le proroghe degli attuali appalti e dal 1° Novembre, con il ripristino dei licenziamenti collettivi potrebbero arrivare nuovi bandi di appalto con inevitabili tagli degli orari e occupazionali, considerando anche il crollo di oltre l’8% del numero di voli rispetto al 2019.

I sindacati presenti negli appalti aeroportuali toscani, Cgil. Cisl e Cub, chiedono da tempo la proroga degli attuali appalti fino all’estate 2022 quando presumibilmente il traffico aereo tornerà ai livelli prepandemici.

La liberalizzazione del settore aeroportuale è stata imposta dalle normative europee per favorire la corsa al ribasso dei costi, soprattutto nel settore handling, consentendo alle compagnie low cost di applicare contratti di lavoro sfavorevoli. Poi ci sono compagnie che rifiutano perfino di applicare le normative del lavoro nazionali e fanno il bello e il cattivo tempo anche in epoca pandemica investendo in alcuni scali a discapito di altri.

La liberalizzazione ha di fatto creato un’elevata competizione tra gli aeroporti perlopiù ormai nelle mani di multinazionali e società quotate in borsa che non vogliono sentire ragioni davanti alle richieste di salvaguardia occupazionale.

Una compagnia può decidere la morte o il declino di un aeroporto spostando voli da una parte all’altra imponendo costi sempre più bassi. Ce lo dice l’Europa e il dio mercato, con conseguenze solo negative per la forza lavoro.

“L’impresa gestrice degli aeroporti tende ad estrarre una rendita monopolistica, a detrimento degli utilizzatori dell’aeroporto e, in ultima istanza, dei consumatori”, lo troviamo scritto in molte relazioni che hanno costruito le basi delle liberalizzazioni giustificando, in nome del mercato e del presunto interesse dell’utenza, una suprema giustificazione per favorire la presenza di tante aziende nel settore aeroportuali, aziende che si fanno la concorrenza abbassando il costo del lavoro ai minimi termini e favorendo la crescita esponenziale dei profitti di pochi.

Le modalità delle liberalizzazioni non hanno prodotto normative eque e gli effetti della concorrenza sono stati opposti a quelli sperati dai fautori delle liberalizzazioni.

Per comprendere meglio le ragioni della liberalizzazione occorre guardare ai ricavi diretti e a quelli derivanti dallo sfruttamento delle operazioni aeroportuali a beneficio della società di gestione (dal rifornimento carburante al catering, dall’affitto a costi elevati degli spazi destinati a negozi). Gli aeroporti generano non solo enormi ricavi sufficienti a coprire i costi operativi diretti e indiretti, ma consentono anche il finanziamento di nuove infrastrutture o l’espansione di quelle esistenti. Le società non solo ottengono prestiti dai mercati capitali a costi bassi ma garantiscono un ritorno economico di utili per gli azionisti. 

La logica di mercato ha creato un altro monopolio ben più forte del precedente, quello di società private che impongono agli Enti locali i loro piani di sviluppo anche attraverso il ricatto occupazionale. E per garantirsi ulteriori margini di profitto abbassano il costo del lavoro ricorrendo agli appalti, dove si applicano contratti sfavorevoli con una forza lavoro prevalentemente part-time. E a ogni rinnovo di appalto arrivano nuovi carichi di lavoro e nel nome della autonomia di impresa sopraggiungono ulteriori tagli ai salari e al monte ore.

Solo in apparenza il settore è governato da un sistema di leggi rigide. Per esempio i proventi aeroportuali sono disciplinati da decreti ministeriali che regolano i diritti di approdo e di partenza, i diritti di sosta e di ricovero, le tasse per l’imbarco di merci e passeggeri. Ma in sostanza le società che gestiscono gli aeroporti hanno piena libertà di azione e lo dimostra il dumping salariale e contrattuale esistente tra lavoratori delle società e lavoratori degli appalti. Anche in presenza del medesimo contratto di lavoro può succedere che un dipendente aeroportuale di una città guadagni il 15/20% in meno del collega che opera in altra sede.

Perfino i fautori delle liberalizzazioni hanno dovuto ammettere come i diritti aeronautici per passeggeri e vettori continuino a essere regolati da norme differenti e gestiti con discrezionalità, applicando tariffe eterogenee da scalo a scalo.

Sempre gli stessi fautori giudicano ancora troppo rigida la normativa e propongono una ulteriore liberalizzazione.

A turbare i sonni del grande business è arrivata la pandemia con il crollo dei voli e dei passeggeri.

Le società hanno beneficiato non solo degli ammortizzatori sociali ma di aiuti da parte di Stato e Enti locali destinati alla salvaguardia occupazionale. In alcuni casi, come in Toscana, i soldi pubblici hanno escluso il mondo degli appalti che rappresenta una parte significativa della forza lavoro, anzi una volta incassati gli aiuti la società Toscana aeroporti ha deciso di vendere Società Aeroporti Handling. 

E ancora prima della pandemia numerosi voli sono stati spostati da Pisa a Firenze come strumento di pressione per ottenere dal Comune e dalla Regione Toscana il via libera per la costruzione della nuova Pista di Peretola (Firenze) fortemente osteggiata dai cittadini della Piana che contestano l’elevato impatto ambientale dell’operazione

La vendita delle quote pubbliche negli aeroporti è stata parte integrante delle liberalizzazioni e i risultati sono lo strapotere delle compagnie aeree e delle società che rispondono delle loro scelte solo agli azionisti e mai alla comunità locale o allo Stato.

Nel 1993 avvenne una riforma che assegnava alle società gestrici degli aeroporti una sorta di monopolio, quel monopolio poi è stato distrutto dalle liberalizzazioni e dalla cosiddetta libera concorrenza e così gli aeroporti sono stati acquistati da grandi società quotate in borsa che hanno messo fuori gioco le vecchie società. Le Spa a capitale pubblico sono diventate Spa a capitale privato, dal monopolio pubblico a quello privato. Da qui nasce il dumping salariale e contrattuale, i profitti cresciuti in termini esponenziali e le quotazioni in borsa, gli appalti al ribasso, lo strapotere delle compagnie low cost, le richieste sempre più esigenti agli Enti locali per avere le infrastrutture “necessarie” per lo sviluppo del settore.

Il sistema delle liberalizzazioni in epoca pandemica ha palesato tutte le contraddizioni da pochi denunciate in anni lontani e dovrebbe indurre a rivedere l’intero sistema di gestione degli aeroporti, soprattutto se è lo Stato a sostenere i costi degli ammortizzatori sociali in tempi di crisi.

Prendiamo per esempio quanto sta accadendo oggi con la principale compagnia di bandiera italiana, Alitalia, sommersa da debiti e destinata a scomparire.

Gli addetti al settore sanno bene che non si può ridurre ai minimi termini il personale, per questo ITa, la nuova micro compagnia di bandiera, ha poche speranze di sopravvivere sul mercato delle compagnie che contano.

Prendiamo per esempio i vettori low cost che in Italia hanno avuto maggiore peso di quello registrato negli altri paesi Ue. Il low cost ha costruito la sua fortuna potendo abbattere i costi delle tariffe pagando meno il proprio personale e risparmiando su molte voci. Le compagnie low cost non hanno preso il posto delle tradizionali compagnie. Alcune compagnie tradizionali si sono attrezzate per altre tratte traendone vantaggi economici, altre invece hanno pensato di tagliare i costi delle manutenzioni e del personale e presto sono state travolte.

La fortuna del low cost è legata ad alcuni fattori. Per esempio hanno acquistato un solo modello aereo sul quale è stata costruita la loro fortuna; poi hanno abbattuto i costi di personale, i costi di manutenzione e quelli di esercizio attraverso il minor consumo; infine, trattandosi di grandi compagnie, hanno ottenuto condizioni di miglior favore sia nell’acquisto dei velivoli presso le grandi multinazionali costruttrici sia imponendo trattamenti vantaggiosi alle società aeroportuali. La domanda sorge spontanea: perché L’Italia non ha puntato su una sua compagnia low cost? E perché invece di acquistare mezzi di proprietà si è scelto il leasing, con costi costi più elevati? E si persevera nell’errore perché pare che ITa non abbia intenzioni di acquistare dei mezzi nuovi, a minor consumo di carburante e abbattendo i prezzi con l’acquisto di più velivoli.

Tenete conto poi che tutte le grandi e tradizionali compagnie, quelle che ancora dominano sui mercati per capirci, hanno costruito un loro vettore low cost, da Lufthansa al British e Iberia, ma non Alitalia nonostante avesse un grande hub, per quanto costoso, a Fiumicino.

Dall’inizio delle liberalizzazioni in poi Alitalia ha scelto una strada diametralmente opposta a quella delle altre grandi compagnie di bandiera che invece di ridimensionarsi hanno allargato il loro raggio di azione ammodernando hub e acquistando nuovi aerei. Il classico nanismo italiano, piccolo è bello, nel settore del trasporto aereo si è dimostrato più fallimentare che in altri settori. Poi ci sono anche altre ragioni alla base del crollo della compagnia italiana.

Ugo Arrigo ha analizzato i costi della pandemia per alcune grandi compagnie aeree e possiamo scoprire, per esempio, che il settore cargo non ha pagato la crisi pandemica. E il nostro paese ha investito assai meno di altri concorrenti in questo settore.

Un altro discorso andrebbe fatto sui soldi per salvare Alitalia. La soluzione proposta da Arrigo è antitetica a quella seguita dai governi Italiani. Egli ha proposto una “partecipazione di rilievo in un grande vettore europeo al fine di integrare nel medesimo quel che resta di Alitalia e di affidargli da azionisti il rilancio e la crescita dimensionale del vettore nazionale, quello che avremmo dovuto fare noi nel corso del tempo, ma che non abbiamo neppure provato dopo la metà degli anni ’90”.

I nostri aeroporti per anni hanno costruito le politiche industriali sulla presenza dei vettori stranieri a basso costo come appunto Ryanair. Ora alcuni aeroporti, come quello di Olbia, puntano su Volotea e EasyJet, mentre una compagnia ungherese si è guadagnata le tratte verso la Sardegna considerate anche dal punto di vista turistico tra le più favorevoli.

L’Italia è da tempo terreno di conquista delle grandi multinazionali del settore aereo. Gli scali che hanno preferito il low cost tradizionale hanno pagato costi elevati con la pandemia perché le compagnie a ciò orientate hanno preferito non volare a seguito della forte contrazione di passeggeri causata dalle norme antipandemiche. 

Comprendiamo bene come la crisi del trasporto aereo sia non solo figlia della pandemia ma di scelte strategiche errate compiute non solo dalla nostra compagnia di bandiera ma anche dalle società che gestiscono alcuni aeroporti. Le stesse che oggi fanno a gara per attirare le compagnie a costi sempre più bassi. La politica liberista e delle liberalizzazioni, le scelte errate di gestione, la mancanza di strategie, l’invadenza dei partiti di governo sono alla base della crisi che oggi investe l’Italia in termini decisamente maggiori di quanto avvenga in altri paesi europei.

02/04/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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