Marx e la rivendicazione in funzione emancipatrice dei diritti umani

Quando la borghesia pressata dalla necessità di aumentare i profitti rinnega i diritti umani, le classi e i popoli oppressi possono richiamarvisi in funzione della loro lotta per l’emancipazione.


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Nonostante i diritti politici sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo non siano altro, secondo Marx, che un corollario ideale, una sanzione giuridica della differenza reale degli assetti proprietari, l’eguaglianza politica stride sempre di più con il progressivo incremento della disuguaglianza economica, tendenza strutturale del modo di produzione capitalistico. Inoltre la sovranità popolare mediante il suffragio universale ha in sé la potenzialità di uscire dall’iperuranio politico e realizzarsi progressivamente incidendo sulla sfera sociale, colmando almeno parzialmente la lacerazione propria della società borghese fra ambito politico ed economico. D’altra parte, come ha osservato a ragione Eustache Kouvélakis: “il dominio del liberalismo dei proprietari (ad eccezione del breve intermezzo della Repubblica giacobina) non equivale a una semplice ‘resistenza’ all’emancipazione politica, più o meno residuale o di retroguardia, ma allo scatenarsi di un formidabile movimento di ‘disemancipazione’ (cfr. D. Losurdo), con l’imposizione della ‘cittadinanza passiva’ ai non proprietari e alle donne, e con la sfrenata continuazione della barbarie colonialista e schiavista” [1].

Perciò, l’ideale vita comune nell’iperuranio alienato dello Stato si rovescia nella differenzareale della società civile in tutta una serie di esclusioni concrete che riproduce la separazione originaria della società civile. Il reale, tuttavia, ha necessariamente la meglio sull’ideale astratto, per cui non solo diverse categorie di individui, dalle donne, ai bambini, a servi e schiavi, a lavoratori manuali, a uomini extra-europei e immigrati non godono realmente dei diritti dell’uomo, ma sono esclusi anche naturalmente dal godimento dei diritti formali di cittadinanza. Tale contraddizione si manifesta nel modo più aperto nelle colonie dove tutta l’ipocrisia alla base della società civile borghese viene allo scoperto.

Del resto, i diritti umani sono per la borghesia funzionali al piano della circolazione, al piano del mercato, soprattutto della forza-lavoro, in cui è necessaria la libertà e l’eguaglianza e, a livello internazionale, anche una minima dose di fraternità per rendere fluidi gli scambi. Tale piano è essenziale anche per l’ideologia borghese e nasconde la reale ineguaglianza, la mancanza di libertà che, al contrario, caratterizza la sfera occultata della produzione e la completa negazione della fraternità necessaria alla politica imperialista. Ciò spiega anche perché tutti i governi che nel bene, in senso socialista, o nel male, in senso precapitalista, pongono argini al mercato o all’imperialismo siano accusati dall’ideologia dominante (occidentale) di non rispettare i diritti umani. Anzi l’ideologia dominante tende a utilizzare i diritti umani quale fondamento che renderebbe indiscutibile quello che definisce “diritto internazionale” e che, generalmente, è funzionale alla sanzione del diritto dei più forti [2]. Osserva a questo proposito Marx: “per non sapere apprezzare il glorioso trattato di Vienna e il ‘sistema’ europeo fondato su di esso, ‘The Tribune’ è imputato d’infedeltà alla causa dei diritti umani e delle libertà” [3].

D’altra parte i diritti umani, utilizzati in modo ideologico dalla borghesia, vengono apertamente da essa stessa calpestati quando sono di ostacolo, soprattutto nel mondo coloniale, alla massimizzazione dei profitti. Al punto che, sono le potenze imperialiste a violare anche i più elementari diritti naturali, al punto che spesso finiscono con l’essere rivendicati proprio da quei popoli, considerati inferiori dagli occidentali. Fra gli innumerevoli esempi, ci limitiamo a ricordare quelli particolarmente esemplari ricordati da Marx a proposito del colonialismo britannico e della Guerra dell’oppio: “secondo il suo oracolo di Printing-House Square, questi acciuffa le colonie solo per educarle ai princìpi della pubblica libertà; ma se vogliamo attenerci ai fatti, dovremo dire che le isole Ionie, come l’India e l’Irlanda, provano solo che, per essere libero in patria, John Bull [allegoria dell’Impero britannico] deve praticare la schiavitù all’estero. Così, proprio in questo momento, mentre sfoga la sua virtuosa indignazione contro il sistema poliziesco di Bonaparte a Parigi, egli stesso lo introduce a Dublino” [4].

In questo secondo esempio appare evidente come siano le “nazioni civili”, ovvero le potenze colonialiste e imperialiste europee a imporre, in nome del dio denaro, la negazione dei più basilari princìpi morali, al contrario rivendicati da “un popolo semibarbaro”, ovvero da un paese colonizzato: “mentre l’imperatore cinese, per evitare l’autodistruzione del suo popolo, proibiva sia l’importazione straniera di quel veleno sia il consumo da parte dei sudditi, la compagnia delle Indie orientali andava rapidamente facendo della coltivazione indiana dell’oppio parte integrante della propria economia. A un popolo semibarbaro che si schierava dalla parte dei princìpi morali, le nazioni civili rispondevano col linguaggio della moneta sonante” [5]. Dunque, lo stesso universalizzato godimento dei diritti umani è il prodotto di lunghe e sanguinose guerre civili e conflitti delle idee contro le esclusioni reali delle società liberali e i loro fondamenti teorici nei padri del liberalismo, come ha ampiamente mostrato con dovizie di particolari D. Losurdo.

Così, persino il giovane Marx, tanto radicale nella critica al formalismo dei diritti umani, a fronte delle concezioni giovani hegeliane tese a riaccreditare l’assolutismo illuminato in spregio delle masse, intende riabilitare il significato dato dai giacobini agli ideali sanciti nei diritti del cittadino, quali “manifestazioni della vita di un ‘popolo’ e solo proprietà del ‘popolo’” [6]. Del resto, sono proprio i limiti evidenti dell’emancipazione politica, la libertà e l’eguaglianza solo formali garantite dai diritti umani a indicare, in potenza, la necessità di un loro superamento nel senso dell’emancipazione sociale, dei diritti positivi. Il loro limitato fondamento giusnaturalistico è al contempo portatore del germe universalistico del compiuto riconoscimento d’ogni individuo, ha in sé il seme sovversivo della realizzazione d’una società effettivamente universale, emancipata da ogni privilegio storico e naturale [7]. È lo stesso affermarsi d’una società mondiale, al suo interno sempre più necessariamente diseguale – causa il crescente sistema monopolistico –, a far emergere la portata sovversiva del richiamo all’eguaglianza, sancito sia pur solo formalmente, giuridicamente, dalla Dichiarazione.

Il richiamo ad un diritto universale che permette di avvertire nel modo più profondo tutto il peso delle ingiustizie patite diviene strumento essenziale per la volontà di riscatto di tutti gli oppressi, tanto esclusi, quanto inclusi solo formalmente, dal pieno godimento dei diritti umani. La presa di coscienza tanto indispensabile ad ogni prassi rivoluzionaria, la sola che libera l’uomo dal condizionamento sociale, è indubbiamente favorita dalla presenza, per quanto alienata in un cittadino estraneo all’uomo reale, dell’ideale sovranità sancita dal diritto di cittadinanza. Del resto sul piano mondiale il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico e della sua sovrastruttura giuridica è condizione necessaria, anche se non sufficiente, al suo pieno e definitivo superamento.

Come osserva a questo proposito Marx: “quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese, dei mercati mondiali e dei moderni mezzi di produzione e li avrà assoggettati al controllo collettivo dei popoli più progrediti, soltanto allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orrendo idolo pagano che voleva bere il nettare soltanto dal cranio degli uccisi” [8].

Per quanto sorti sulla base della lacerazione fra stato e società civile, per quanto funzionali alla concorrenza e al libero mercato, tali diritti, nel momento in cui la borghesia – che li ha suscitati durante la sua lotta rivoluzionaria contro il feudalesimo – li ripudia, possono essere raccolti dal proletariato e divenire funzionali alla politica delle alleanze con la piccola borghesia in vista del superamento del sistema sociale in cui sono fondati. È, del resto, la relativa autonomia della prassi politica dalla riflessione teorica a rendere utile, nel concreto operare socio-politico, ciò che si è criticato per i suoi limiti concettuali.


Note:

[1] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, pp. Kouvélakis 67-68.
[2] A tal proposito scrive Marx: “mi sia lecito osservare en passant che la convenzione di Vienna, il solo riconosciuto codice di diritto internazionale che ci sia in Europa, costituisce una delle più mostruose fictiones juris publici che mai si siano viste negli annali dell’umanità. (…) Così questo testo sacro dello jus publicum europeo è stato stracciato foglio dopo foglio, e ad esso ci si appella solo quando fa comodo agli interessi degli uni o alla debolezza degli altri”. Karl Marx, “La questione delle isole Ionie”, in Id. - Engels, Opere complete, agosto 1858- febbraio 1860, tr. it. L. Formigari, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 132-33.
[3] Id., “Stranezze della politica” in “New-York Daily Tribune” del 10.7.1855, ora anche in op. cit., 1855-1856, tr. it. S. de Waal, vol. XIV, 1978, p. 283.
[4] Id., “La questione delle isole Ionie”, in op. cit.,p. 135.
[5] Id., “Storia del commercio dell’oppio”, in op. cit., p. 16. Ancora a proposito della sfacciata ipocrisia del governo cristiano inglese, aggiunge Marx: “non si può concludere senza sottolineare le flagranti contraddizioni di cui si macchia il governo inglese, col suo cristianesimo ipocrita, con le sue pretese di esportare la civiltà. In quanto governo imperiale, esso ostenta assoluta estraneità al contrabbando dell’oppio, stipula anzi trattati che lo proibiscono. Ma, in quanto governo dell’India, impone la coltivazione dell’oppio nel Bengala con grave detrimento delle risorse produttive del paese, costringe una parte dei contadini indiani a coltivare il papavero, altri ne induce a farlo con l’incentivo di anticipi in denaro; detiene il rigido monopolio della fabbricazione all’ingrosso di questa droga deleteria; ne sorveglia con un intenso esercito di spie la crescita, la consegna in determinati porti, l’estrazione e la preparazione secondo il gusto dei consumatori cinesi, la sua confezione nei modi che meglio si prestano alla necessità del contrabbando, a infine il suo trasporto a Calcutta, dove viene messo all’asta in luoghi di proprietà del governo e consegnato da funzionari governativi agli speculatori, per passare poi di lì nelle mani di contrabbandieri che lo sbarcano in Cina”. Ivi, p. 19. E ancora: “le finanze del governo inglese in India sono state di fatto ridotte a dipendere non solo dal commercio di oppio con la Cina, ma dal fatto che esso si svolga per le vie del contrabbando. Se il governo cinese legalizzasse il commercio dell’oppio tollerando in pari tempo la coltivazione del papavero sul suo territorio, l’erario anglo-indiano subirebbe una vera catastrofe. Mentre predica apertamente il libero commercio di veleno, ne difende segretamente il monopolio della manifattura. Quando si esamina da vicino la natura del libero commercio britannico, non c’è quasi volta che al fondo della sua ‘libertà’ non si scopra il monopolio” ivi, p. 20.
[6] K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 158.
[7] Cfr. lo studio, tuttora decisivo, di U. Cerroni (Marx e il diritto moderno, Ed. Riuniti, Roma 1972) sulla concezione marxiana del diritto; qui in particolare p. 237 e ssg.
[8] K. Marx, “I risultati della dominazione britannica in India”, in op. cit., marzo 1853 – febrbaio 1854, tr. it. F. Codino, vol. XII, 1978, pp. 228-29.

27/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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