È passato in sordina l’annuncio del ministro Salvini al forum Ambrosetti di Cernobbio in cui il segretario della Lega, - non si sa più se del nord o della nazione - si impegna, dinanzi agli imprenditori, a privatizzare la gestione dei beni confiscati alla mafia.
Si tratta di una misura finalizzata ad incrementare l’efficienza della gestione di tale patrimonio che risulta, secondo l’analisi del ministro dell’interno, troppo vasto e complesso per poter essere gestito dalla macchina pubblica. In tal senso egli sottolinea come l’Agenzia nazionale deputata all’amministrazione di questi beni sia sottodimensionata (240 lavoratori) per poter gestire un carico che ad oggi risulta in circa 3.000 imprese e 18.000 immobili. Tale inefficienza, a detta del ministro leghista, produrrebbe in seno alla popolazione un sentimento contraddittorio di rancore verso il pubblico e di generalizzata empatia verso le organizzazioni mafiose, alle quali sarebbe accordata, al cospetto dell’inefficienza statale, una maggiore capacità risolutiva in termini occupazionali: “almeno con la mafia si lavorava...”. L’annuncio del ministro è stato accolto naturalmente con grande favore da parte di Federmanager.
Si tratta di una prospettiva pericolosa rispetto alla quale i comunisti ma anche gli onesti democratici dovrebbero vigilare e protestare.
Vi sono almeno due errori nel ragionamento di Salvini. Il primo, e più semplice, è che se l’agenzia statale per la gestione dei beni confiscati è sottodimensionata allora non si capisce come mai questo dato non dimostrerebbe semplicemente la necessità di un piano di nuove assunzioni. Ma al netto di questa banalità, neanche considerata, vi è una seconda e più complessa questione: cosa è la mafia e qual è il rapporto che sussiste tra essa e la sfera dell’imprenditoria?
Dobbiamo necessariamente porci questa domanda per capire in che modo e se sia possibile che, privatizzando i beni confiscati, questi ultimi, per vie traverse, rientrino nuovamente nelle disponibilità delle organizzazioni criminali.
In alcuni articoli pubblicati su questo giornale abbiamo trattato dei lineamenti storici alla base dello sviluppo della mafia. Abbiamo elaborato le nostri riflessioni seguendo una linea di classe e inquadrando secondo un punto di vista marxista il divenire di queste forme occulte di potere. Le organizzazioni mafiose oggi si presentano non solo e non più con il berretto e la lupara ma come un potere piuttosto oscuro e militarmente organizzato che, contemplando sia le forme illegali che quelle legali dell’agire nel mondo economico - con più o meno enfasi dell’una o dell’altra forma a seconda del contesto storico geografico - in ultima analisi, contribuisce allo sviluppo della lotta di classe dall’alto ossia in favore delle classi dominanti contro le classi subalterne.
A tale conclusione si può giungere considerando che le organizzazioni mafiose sviluppano da sempre il lavoro nero e lo sfruttamento schiavistico, corrono in aiuto alle imprese che non riescono a mantenere alti i livelli di profitto all’interno del rispetto dei diritti civili (si vedano i casi di smaltimento illegale di rifiuti tossici), si arricchiscono con il mercato della droga e della prostituzione, accumulano capitale grazie all’estorsione. Infine assicurano e organizzano lo sfruttamento dell’immigrazione, ossia di manodopera a bassissimo costo che spinge al ribasso il costo del lavoro dell’intera classe lavoratrice italiana.
Non un giornale comunista ma uno studio di Confcommercio del 2016 [1] riporta, citando un rapporto della Direzione Investigativa Antimafia, quanto segue:
...se con le operazioni finanziarie le cosche mirano a smaterializzare il capitale illecito nei circuiti monetari, sul piano economico l’obiettivo è quello di creare imprese capaci di mimetizzarsi nell’economia legale, evitando ogni forma di violenta imposizione. La capacità di autofinanziare i propri investimenti, di offrire beni e servizi a costi assolutamente competitivi, di immettere liquidità in aziende in crisi rilevandone le quote, ha prodotto un vasto ed articolato sistema societario, del tutto asservito e nella disponibilità delle organizzazioni, ma assai difficile da individuare ed aggredire. Sono così nate imprese qualificate ed affermate nei contesti sociali ed apprezzate dai mercati. È grazie a queste imprese che le organizzazioni criminali continueranno ad interloquire con i pubblici amministratori, con i rappresentanti della finanza e persino con gli investitori internazionali. Per l’operato di tali strutture societarie appare prospetticamente ancora fruttuoso l’utilizzo delle così dette “cartiere”, funzionali a produrre il supporto documentale per spregiudicate operazioni di riciclaggio o più semplicemente per mascherare i reali profitti delle aziende “pulite”, non solo per eludere il fisco ma anche per l’accantonamento di liquidità in nero. In sintesi, si assiste oggi ad una evoluzione delle tradizionali attività criminali in direzione di una imprenditoria mafiosa moderna, caratterizzata da modalità operative agili e funzionali a penetrare la realtà socio-economica, anche attraverso sistemi corruttivi e collusivi.
Leggendo questo rapporto più di qualche dubbio si prospetta sul rischio che in un eventuale ritorno in mano privata della gestione dei suddetti beni possano infiltrarsi nuovamente quelle componenti organizzate della malavita.
Non v’è dubbio che anche la gestione statale, essendo lo Stato la forma con cui la borghesia esercita il proprio dominio economico e politico, non è ipso facto garante di una amministrazione trasparente e al servizio del cittadino: tale garanzia, infatti, sarebbe possibile solamente attraverso un meccanismo basato sul controllo diretto e popolare.
Se, infatti, l’appropriazione indebita di tale e tanta ricchezza operata dai lorsignori – sia in maniera “legale” attraverso tasse insostenibili, salari e pensioni da fame, smantellamento del welfare e dei diritti, che in maniera illegale attraverso i nebulosi tentacoli della mafia che si allungano in ogni business e in ogni ambito – avviene, nell’uno e nell’altro caso, esclusivamente sulle spalle dei lavoratori o dei miserabili costretti a migrare e/o prostituirsi per le strade e via dicendo, ebbene, nessuno all’infuori di queste stesse vittime può fungere da garante dei loro interessi. Per questo motivo l’unico, reale, modo di preservare le ricchezze che Salvini rischia di far rientrare nelle mani della mafia dalla finestra dopo averle cacciate dalla porta, è quello di affidarle e chi lavora, a chi produce tali ricchezze, ai lavoratori.
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