Breve storia della mafia – parte IV

Controstoria della mafia: dalle guerre di mafia al suo riadattamento alla restaurazione liberista.


Breve storia della mafia – parte IV Credits: https://www.95047.it/domani-giornata-della-legalita-programma/

Segue da parte I, da parte II e da parte III

Le contraddizioni interne alla classe dirigente e alla mafia

Le logiche proprie delle contraddizioni interne alla classe dominante si ripercuotono non solo nei rapporti altrettanto contraddittori fra di essa e la mafia, ma all’interno della stessa malavita organizzata. Così la logica dei fratelli-coltelli – che porta i capitalisti a collaborare per mantenere in posizione subordinata i lavoratori e massimizzare lo sfruttamento della forza lavoro, ma altresì a scontrarsi anche violentemente nella spartizione di un bottino, che tende a restringersi nei periodi sempre più estesi di crisi – si riproduce non solo a livello dei rapporti fra Stato e mafia, ma anche all’interno di quest’ultima. Certo, la collaudata organizzazione, la logica verticistica al proprio interno, l’eticità tradizionalista su cui si fonda, hanno portato la mafia a evitare la logica fratricida che ha indebolito la camorra, rendendola impopolare e turbando la coesistenza pacifica con la classe dominante. Ciò non toglie che la stessa logica di complessa coabitazione all’interno della classe dominante fra settori maggiormente eversivi – legati all’ala militare e repressiva – e settori più moderati, legati all’ ala politica – che mirano a mantenere il potere soprattutto con l’egemonia – si riproducono anche all’interno della mafia. Tali contraddizioni – a lungo sopite per non attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e di conseguenza degli apparati repressivi dello Stato – tendono a divenire esplosive nei momenti di passaggio da una fase storica a un’altra. In tali passaggi critici, generalmente, si accentuano altresì le naturali contraddizioni fra la vecchia guardia al potere e la nuova leva che preme per sostituirsi a essa.

La prima guerra di mafia

Così quando, grazie alla guerra fredda, la mafia aveva preso il controllo degli appalti e di parte considerevole dei finanziamenti della Cassa del mezzogiorno, aveva spostato il proprio baricentro dalle campagne – in cui aveva le proprie origini – verso le città. In tal modo i mafiosi tradizionali, ancora al servizio della vecchia classe “aristocratica” dei gattopardi, sono spazzati via, nel corso della prima guerra di mafia, dagli uomini nuovi, dalle “iene” e dagli “sciacalli”, maggiormente legati alla emergente classe borghese.

Il sacco di Palermo

Urbanizzatasi, la cupola della mafia aveva stabilito – grazie alla lotta comune contro il fantasma del comunismo – un rodato rapporto di coesistenza pacifica con la classe dirigente locale, legata principalmente ad alcune correnti della D.C. che si erano affermate in Sicilia, in primo luogo, quando era divenuto sindaco di Palermo Salvo Lima. Quest’ultimo si era poi affiliato a una delle correnti più potenti a livello nazionale, quella che faceva capo a Giulio Andreotti, stabilizzando e rafforzando questo blocco di potere. Con il supporto dell’assessore all’urbanistica Vito Ciancimino – definito da Falcone il più politico dei mafiosi e il più mafioso dei politici – la giunta guidata da Lima realizzata una spregiudicatissima speculazione edilizia, nota come il sacco di Palermo. Edifici di grande rilievo storico vengono in pochissimo tempo sostituiti, grazie all’intervento della mafia che fa saltare con attentati dinamitardi edifici che non si sarebbe potuto abbattere legalmente, con squallidi casermoni a elevatissima densità abitativa. Una delle città più belle del mondo viene deturpata per sempre, il che costituisce un crimine contro l’umanità.

Le cause della seconda guerra di mafia

Alla fine degli anni settanta, quando i conflitti sociali tendono a risolversi sul piano della violenza – ma proprio ciò indica la progressiva ripresa del controllo da parte delle classi dominanti – anche all’interno della mafia si riaccendono i contrasti fra la mafia urbanizzata e la mafia rurale. La mafia cittadina aveva iniziato a indebolirsi e a perdere la propria compattezza nel momento in cui la democratizzazione di una parte della magistratura e delle stesse forze dell’ordine – in corrispondenza all’ascesa dei movimenti sociali – aveva portato il potere costituito a dover sacrificare sempre più spesso a un’opinione pubblica – divenuta più sensibile alle attività della mafia, anche grazie al sorgere di un giornalismo d’inchiesta – gli elementi operativi dell’ala militare.

Il complesso processo di riadattamento della mafia alla restaurazione liberista

Negli anni ottanta, con la storica battuta d’arresto dell’offensiva portata avanti negli anni precedenti dalle forze comuniste e dai “sinceri democratici”, i settori meno conservatori delle classi dominanti si erano convinti della necessità di un rinnovamento, per quanto gattopardesco, della classe dirigente. Tanto più che gli ingenti investimenti nella strategia della tensione e più in generale in apparati repressivi formalmente autonomi dallo Stato, tendevano ad apparire dei faux freas, ovvero dei costi improduttivi. Così non solo la destra eversiva, ma la violenza illegale mafiosa apparivano meno utili alla gestione del potere, che sempre più si reggeva sulla rinnovata egemonia delle classi dominanti, anche grazie alla ripresa economica degli anni ottanta. Per la prima alla guida del governo si impone un socialista – Bettino Craxi, che aveva ormai portato a compimento la cesura del Psi con il marxismo – e diviene possibile sottrarre i ministeri chiave, dalla giustizia agli interni, a quelli che in gergo mafioso erano definiti gli amici degli amici. Così, dopo la sostanziale sconfitta del movimento rivoluzionario, i referenti politici della mafia, si vedono costretti, per non essere spazzati via come vecchi attrezzi della guerra fredda, ad accentuare le pressioni sull’ala “politica” della mafia affinché rompa con l’ala militare e la abbandoni al proprio destino – ossia la sacrifichi.

La guerra preventiva dell’ala militare

Quest’ultima, però, non era più la vecchia “mafia con la scoppola”, essenzialmente radicata nelle campagne, ma aveva assunto sempre maggiore peso, in quanto aveva dovuto reggere lo scontro con i settori dello Stato e della società civile che avevano mirato a democratizzare il paese. In questo modo si era rafforzata e progressivamente autonomizzata da un’ala politica sempre più imbelle e corrotta. Perciò, nel momento in cui comprende che rischia di essere scaricata, afferma il proprio potere con la violenza. Così, in pochissimo tempo, a partire dal 23 aprile 1981 sono eliminati i vecchi storici boss palermitani, a partire da Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo e Gaetano Badalamenti. Sono le prime vittime di una sanguinosa guerra che lascerà sul terreno migliaia di persone.

I cento giorni a Palermo

Dinanzi a questa escalation di violenza, che non risparmia nemmeno pezzi grossi delle istituzioni come il presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, lo Stato non può non reagire, tanto più che la giustificazione di dover affrontare prima il “pericolo rosso” sta ormai venendo meno. Si decide allora di mettere a capo della guerra alla mafia il generale Alberto Dalla Chiesa che aveva schiacciato con il pugno di ferro il “terrorismo rosso”. Da una parte abbiamo così una militarizzazione della magistratura inquirente, che aggrava il clima da Stato di eccezione che si è ormai imposto nel paese, dall’altra Dalla Chiesa dovrà presto fare la tragica esperienza di essere stato abbandonato al proprio tragico destino. Non solo i pieni poteri che gli sono stati promessi e che, anzi, sono stati sbandierati ai quattro venti – per dare a intendere che lo Stato si fosse finalmente deciso a combattere seriamente la mafia – si dimostrano del tutto illusori, ma il generale non dispone neanche di una minima parte delle ingenti forze e dei poteri speciali che gli avevano permesso di colpire con il pugno di ferro le Brigate rosse. Come cerca disperatamente di denunciare, attraverso una drammatica intervista con uno dei massimi giornalisti del tempo, Giorgio Bocca, è stato spinto a dichiarare una guerra e che poi è stato lasciato da solo a combatterla. Poco dopo, il 3 settembre del 1982, il generale viene trucidato con la giovane moglie e la scorta.

Il regolamento dei conti con il Partito comunista italiano

Le gravissime responsabilità della classe dirigente vengono denunciate con forza dal Pci, che nel corso dello scontro con le forze sovversive della sinistra extra-parlamentare aveva finito con il sostenere sempre più apertamente lo Stato. In particolare il Pci rilancia con forza il suo piano per un contrasto serio e generale alla mafia, al cui centro vi sono le proposte di legge del principale dirigente siciliano del partito, Pio La Torre, che miravano a colpire al cuore il potere mafioso mettendo in pericolo il suo ingente patrimonio economico, prevedendone il sequestro e la confisca e consentendo di incriminare, grazie al reato di associazione di tipo mafioso, i membri dell’organizzazione. Mentre il governo tergiversa e prende tempo, la mafia colpisce nuovamente uccidendo il deputato La Torre con il suo autista.

Cosa si cela dietro i cadaveri eccellenti

La regola non scritte della mafia, che imporrebbero di evitare a ogni costo cadaveri eccellenti, per non compromettere la coesistenza pacifica con lo Stato, sembrano completamente saltate dinanzi al nuovo scenario che si è aperto con la controffensiva liberista che chiude ormai il “lungo sessantotto” italiano. Il nuovo scenario ha portato a far saltare alcuni dei più significativi sistemi di cooperazione fra la mafia e i settori conservatori della classe dominante e dirigente. La stessa Loggia massonica P2 è stata dichiarata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta Anselmi, una democristiana ex partigiana, un’ “organizzazione criminale” e anche il principale punto di riferimento della mafia nel mondo economico-finanziario, lo spregiudicato banchiere e speculatore Michele Sindona, ha subito una pesante condanna.

La reazione dei settori modernizzatori della classe dirigente

Dinanzi a tale sempre più esplicita messa in discussione dello stesso monopolio della violenza dello Stato da parte della “nuova mafia”, i settori modernizzatori della borghesia reagiscono sfruttando le contraddizioni insorte con la vecchia guardia, anche perché la violenta escalation impedisce di nascondere all’opinione pubblica il fenomeno mafioso. Tanto più che cominciano a venir meno anche gli appoggi d’oltre oceano, visto che gli stessi amici americani disapprovano e criticano la logica sempre più militaresca dei corleonesi.

Il pool antimafia

Così gli apparati dello Stato, che intendevano arginare il sempre più costante sconfinamento della mafia nelle proprie prerogative, reagiscono istituendo nel 1983 il pool antimafia di Palermo nel quale spiccano i magistrati Falcone e Borsellino. Uno dei più importanti risultati raggiunti dal pool è stata la comprensione d’insieme della struttura dell’organizzazione mafiosa e delle sue strategie, che consente di reprimere in modo collettivo la criminalità organizzata nel suo complesso. La mafia reagisce immediatamente sul piano militare assassinandone il presidente: Rocco Chinnici nel 1983. Tuttavia il pool, sorto proprio per condividere le indagini, in modo tale che l’uccisione di un suo membro anche di spicco non ne comprometta i risultati, riesce a reagire sotto la direzione di Antonino Caponetto. Sfruttando il “pentitismo” di esponenti di spicco della vecchia guardia sconfitta, a partire da Tommaso Buscetta – estradato dal Brasile nel 1984 – coraggiosi magistrati come Falcone e Borsellino, non legati alla vecchia Dc, lanciano un’importante offensiva che riesce a far divenir cosciente l’opinione pubblica della reale potenza e, dunque, del pericolo costituito dalla malavita organizzata.

Il principale risultato del pool, è l’istituzione del maxi-processo di Palermo contro la mafia iniziato nel 1986 che porta per la prima volta a condanne molto pesanti contro moltissimi mafiosi fra cui anche esponenti del gruppo dirigente e della componente malavitosa pienamente integrata nel mondo economico-politico dominante. Decisive sono le rivelazioni di Buscetta ritenute credibili a differenza di quelle del primo “pentito” Leonardo Vitale, che era finito in manicomio criminale per aver iniziato a parlare dei rapporti della mafia con la classe dominante. Al contrario Buscetta, che non intende fare la fine di Pisciotta e poi di Sindona assassinati in carcere, si guarda bene da fare significative rivelazione sui rapporti della mafia con il mondo economico e politico. Gli stessi “nuovi” vertici dei corleonesi, che hanno scalato i vertici della mafia, sono condannati solo in contumacia.

Continua sul prossimo numero

24/06/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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