Nel libro gli autori affrontano con un’analisi accurata il problema dell’inutilità delle carceri. Ne parla al Csa “Astra” il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei diritti umani. La proposta riguarda l’abolizione delle carceri, perché il sistema è irriformabile e depriva della dignità il carcerato, trasgredendo il principio dell’habeas corpus e l’articolo 27 della Costituzione: L’Acad a Bruxelles per la difesa dei diritti umani e per il reato di tortura.
di Alba Vastano
“Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi
in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso
da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?”
(Gustavo Zagrebelsky)
Di carcere si muore. Suicidi e morti naturali (?) in costante aumento. Quando non fisicamente, si muore socialmente. Scontata la pena, l’ex detenuto è un reietto, non ha chance. Non potrà aspirare, com’è diritto di ogni persona, al reintegro nel tessuto sociale, né ad alcuna inclusione nel mondo del lavoro. Spesso è emarginato anche dalla famiglia. Il marchio del criminale, del carcerato, gli resta affibbiato a vita, fino al termine, quando muore per la seconda volta, togliendo il disturbo definitivamente. Di disturbo ne ha dato e lo ha scontato duramente, perdendo per sempre la dignità.
Da quella sorta di limbo infernale che è il carcere, in cui è finito quell’uomo, reo di colpe non sempre pienamente accertate ma spesso vissute in trasgressione del principio dell’habeas corpus, non ne uscirà quasi mai redento. Perché non si riconoscerà più come persona portatrice di “bene”. Per lui la dignità della persona è finita, consumata in quella cella malsana di pochi metri quadri, stipata fino all’inverosimile di altrettanti presunti reclusi, spesso non ancora condannati, perchè in attesa di giudizio. E il suo destino è inesorabile, si macchierà di nuovo di reati più o meno efferati e tornerà in cella. Per questo il carcere sarebbe da abolire. Perché non funziona come struttura per lo sconto della pena e perché toglie a vita la dignità. Il carcere è inumano e non serve che a creare zombie sociali.
Nel libro Abolire il carcere scritto a otto mani dal senatore Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, gli autori affrontano con un’analisi accurata il problema dell’inutilità delle carceri italiane. “Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”, nell’occhiello del titolo del libro. La proposta è, appunto, l’abolizione delle strutture fatiscenti che ospitano gli istituti di pena, sostituendole con “misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (una piccola quota dei detenuti), quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al temine della pena, oggi sistematicamente disatteso”.
Della disfunzionalità del sistema carcerario ne parla con convinzione uno dei quattro autori del libro, il senatore Luigi Manconi, durante la presentazione del testo al Csa Astra (Roma) che è anche la sede di Acad (Associazione Contro gli Abusi in Divisa). Sono a cura di Manconi il primo e l’ottavo capitolo del saggio, quest’ultima parte con la collaborazione di Stefano Anastasia. Nel libro, al paragrafo dal titolo esplicativo “Paradossalmente è meglio la pena capitale”, Manconi pone l’accento sull’inutilità e l’aberrazione dei luoghi di pena: “Il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si trovano reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”.
E sui pericoli di ulteriore degrado morale in cui incorre un detenuto evidenzia che “…il carcere si conferma come luogo di aggregazione e di integrazione tra diverse figure criminali, una sede ideale per rafforzare alleanze tra singoli e gruppi illegali”. A motivare l’idea paradossale della pena di morte, il senatore fa riferimento al concetto dell’habeas corpus: “ il cuore di una possibile moralità risiede proprio in quello che consideriamo come il più rigoroso e radicale habeas corpus, ovvero l’incondizionata tutela dell’integrità e della incolumità del corpo e della personalità del condannato. In caso contrario non c’è dubbio che è la violenza istituzionale, fino all’esecuzione capitale, la forma di sanzione più equa. Nel caso estremo, solo la pena di morte rappresenta effettivamente la retribuzione più “proporzionata”. A dimostrare quanto le sofferenze di un condannato equivalgano alla pena di morte con la ulteriore pena di un’esecuzione esecuzione prolungata a vita”.
Alla luce di queste considerazioni si rende necessario ed è urgente porre rimedio, per ribaltare il sistema carcerario. Anche nel rispetto della Costituzione che, sulle pene carcerarie, all’articolo 27 recita “ le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Accade il contrario nelle carceri; il detenuto è totalmente deprivato non solo della libertà fisica ma anche del diritto di esprimere la sua personalità e i suoi bisogni intellettuali. Perde quindi anche i diritti umani, oltre a quelli sociali. La pena che dovrà scontare in uno spazio minimo e fatiscente, costretto a espletare i suoi bisogni fisiologici in promiscuità, è contraria al senso di umanità espressamente citato nella carta costituzionale, ove, peraltro, la parola carcere non appare mai.
“Siamo dunque autorizzati ad osare” conclude il capitolo Manconi, alludendo alla proposta di abolire l’attuale sistema carcerario italiano.
La storicità della pena detentiva
Il carcere è un sistema punitivo relativamente recente. Si deve quindi sfatare la credenza che sia un sistema naturale per lo sconto delle pene. Nasce con il diritto romano e da allora non si sono ancora superati i diktat di quanto decretarono i senatori di 2000 anni fa. Sebbene all’epoca il carcere fosse considerato solo in termini di custodia cautelare, con l’esclusione della punizione. In attesa di un giudizio o dell’esecuzione della sentenza l’imputato restava in un recinto, “carcer”, identificato sotto il Campidoglio come il carcere Mamertino.
“Nel primo medioevo non esisteva molto spazio per un sistema punitivo di Stato” [1]. In quel periodo storico, quindi, la pena non si scontava in carcere. Spesso prevaleva la faida, ricorrendo ad un sistema punitivo regolato fra privati, risolvibile spesso in termini pecuniari. Nascono nell’era moderna, in Inghilterra prima e in Olanda poi, le prime case di detenzione punitive, che ben presto si trasformarono in case di lavoro per la rieducazione e la reinclusione sociale del detenuto, occupato durante lo sconto della pena a tessere e a filare.
Nasce dagli “illuminati dell’Iluminismo” l’idea di un penitenziario perfetto, ove si potesse scontare sì la pena, ma si potesse anche “forgiare” nel contempo il condannato ad essere produttivo, per una rieducazione sociale. Nel pieno rispetto dell’habeas corpus, sebbene la società di allora tendesse evidentemente a sfruttare la forza lavoro dei detenuti. Fu Cesare Beccaria, nel 1764, a trattare nel suo rinomato Dei delitti e delle pene l’abolizione della pena di morte, in riferimento ai principi dell’utilitarismo e dell’umanitarismo. Nasce dal trattato di Beccaria la concezione liberale e garantista della modernità della pena.
Nel 1949, per arrivare ai nostri giorni, ci pensarono i politici della prima repubblica che avevano saggiato in prima persona gli orrori del carcere a denunciarne l’incostituzionalità istituendo la prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri nell’Italia repubblicana. Fu Altiero Spinelli che in una lettera a Calamandrei scrisse “più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. La proposta alternativa al carcere la espresse così: “Un confino per un periodo di tempo definito, in un luogo dove si possa condurre una vita normale, controllata da regolari magistrati, con la possibilità di lavorare e guadagnare, sposarsi, aver casa, vivere civilmente”.
Le condizioni e il trattamento dei detenuti nelle carceri italiane
Le leggi ci sono e sono ottime, ma la realtà è tutt’altra cosa. Una differenza abissale. Le norme della legge 354 del 26 luglio 1975 definiscono nel dettaglio i diritti dei detenuti e le caratteristiche fisiche degli istituti di pena. Ne stabiliscono anche l’organizzazione della vita e le misure alternative. Le norme ci sono, i fatti no. Contraddicono totalmente la legge. Nelle carceri non esiste la suddivisione degli spazi giorno/notte. Nelle celle i detenuti possono usufruire solo di acqua fredda. Non si rispetta la suddivisione fra le varie categorie di detenuti a seconda del reato, né l’età anagrafica degli stessi. Vuol dire che giovani detenuti sono ammucchiati nelle celle con gli anziani, entrambi non potendosi, così, avvalere della possibilità di aggregazione generazionale.
Da ricordare l’interesse mediatico che suscitò il caso Torreggiani che denunciò il degrado delle celle carcerarie. Il detenuto, insieme ad altri sei compagni di cella presentò un ricorso nel quale si evidenziavano le condizioni pessime in cui visse in carcere. A seguito l’Italia fu condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani, per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La corte Edu , a seguito della denunzia, stabilì che nelle carceri italiane esiste un malfunzionamento cronico e sistemico. C’è stato un adeguamento, qualcosa è cambiato, dopo la scossa della Corte. Il governo ha agito su più fronti: sull’edilizia e con la legge 146 “svuota carceri”.
Resta inapplicato, perché non è ancora legge, il reato di tortura. Una nota dolente che ha visto molte vittime negli ultimi anni . Detenuti percossi, torturati, a volte a morte. Soprusi inspiegabili se non con la malvagità e la follia che l’essere umano da sempre perpetra sul più debole. Un aspetto terrificante e anche incontrollabile per l’omertà che lega gli esecutori di queste barbarie.
È il caso, fra i tanti, del povero Stefano Cucchi che venne torturato a morte e di carcere morì. Ilaria Cucchi, relatrice della presentazione del libro, racconta ed esprime la sua amarezza: “Non mi vergogno a dirlo. Fino a sei anni fa appartenevo a quella categoria di persone che di carcere si disinteressava, non gliene importava nulla. Le cosiddette persone normali si sentono immuni a queste realtà. Nel momento in cui mio fratello è stato inghiottito dal carcere pensai che gli sarebbe servita da lezione. Avrei dovuto crederci un po’ di meno e buttare giù quella porta per avere sue notizie. Lo avrei rimproverato per poi abbracciarlo e dirgli che anche questa volta ce l’avremmo fatta. Quando il carcere, dopo sei giorni, mi ha restituito mio fratello ho visto qualcosa che non assomigliava neanche lontanamente a quel fratello che avevo visto solo pochi giorni prima. Mio fratello è morto perché ha subito, in stato di detenzione, un violentissimo pestaggio. Stefano ha incontrato ben 140 persone in quei pochi giorni, tutti rappresentanti delle istituzioni. Mi riferisco ad agenti, carabinieri e medici. Ciascuna di queste persone è responsabile della morte di quel detenuto, mio fratello, perché hanno visto la fine di Stefano e non hanno saputo andare oltre il pregiudizio. Non hanno visto nel detenuto un essere umano. Era solo un tossicodipendente e pure rompiscatole. Non hanno saputo fare un gesto semplicissimo, che è poi il dovere di un pubblico ufficiale, quello di denunciare cosa avevano davanti agli occhi. Invece hanno deciso di prendere le distanze, perché ognuno deve restare al suo posto. Questa è la cultura della nostra realtà carceraria”.
Si muove Acad e andrà a Bruxelles, rappresentato da tanti volontari, paladini della giustizia per perorare la causa della legge sul reato di tortura, ancora assente nel nostro codice penale, e delle incostituzionalità delle carceri italiane. Presso il Csa Astra è nata anche la sede territoriale di Acad, contro gli abusi in divisa. Luca Blasi ne è il promotore e sta conducendo fieramente una battaglia, affinché nessuno debba più morire sotto tortura o semplicemente dimenticato in una cella e privato della dignità, affinché la fine di Stefano, di Federico, di Giuseppe, delle vittime di Genova non sia stata vana.
Del sistema carcerario attuale, sia pur in via di miglioramento per quanto riguarda spazi e organizzazione del tempo, se ne può affermare l’irriformabilità, perché la detenzione, così come è vissuta negli istituti di pena, compromette per sempre il principio della dignità nella vita di un carcerato. Anche quando riacquista la libertà non sarà più lo stesso uomo, poiché la cella “ha reciso la sua esistenza dalla vita e il dopo gli apparirà come un salto nel vuoto, perfino un momento temuto e non desiderato” (Gustavo Zagrebelsky). Per questo motivo è il tempo di osare e di abolire il carcere. Siamo autorizzati a farlo.
Note
[1] “Pena e struttura sociale” – G. Rusche O.Kirchheimer ed. Il Mulino