A distanza di trent’anni, il Moby Prince brucia ancora.
Continua ad ardere nel fuoco dei silenzi assordanti, delle falsità riportate allora in fretta e furia dai media, dai vertici degli apparati militari statali che si sono succeduti e dalla Magistratura, e nelle nebbie che ancora avvolgono uno dei più grandi depistaggi giudiziari della Storia della Repubblica Italiana. Infatti, troppo pochi cittadini possono dirsi a conoscenza dell’istituzione di una Commissione Parlamentare di Inchiesta, - succedutasi alle due inconcludenti sentenze una di primo grado e l’altra di appello, datate rispettivamente 1998 e 1999, e ad un’inchiesta bis chiusa nel 2010 con un’assurda archiviazione – che, proprio mercoledì 6 ottobre, ha svolto l’audizione dei rappresentanti dell’Associazione 10 Aprile – Familiari Vittime Moby Prince Onlus e dell’Associazione 140 – Familiari Vittime Moby Prince. Nonostante siano ancora tante le audizioni che la Commissione Parlamentare d’Inchiesta dovrà sostenere, tantissime persone coinvolte da ascoltare e migliaia di pagine di documenti da vagliare e produrre ancora, l’udienza del 6 ottobre risulta pregnante per lo spazio riservato ai rappresentanti delle Associazioni dei familiari che, a distanza di trent’anni, incarnano il puntuale ed indispensabile sprone alle attività di inchiesta presieduta dai parlamentari, nonché continuo pungolo contro un oblio che deve essere evitato come e quanto l’ereditarietà della necessità di verità e giustizia perché, senza la prima, non sussiste nemmeno la seconda.
L’audizione parlamentare dei rappresentanti delle associazioni delle vittime
Nel corso dell’audizione, il primo a prendere la parola è stato Angelo Chessa, figlio di Maria Giulia Ghezzani, deceduta nella strage, e del comandante Ugo, colui il quale non abbandonò mai la nave durante quelle interminabili ore – e non nei millantati venti minuti di sopravvivenza dell’equipaggio e dei civili a bordo, secondo quanto frettolosamente riportato nelle veline trasmesse alla stampa quando ancora sarebbe stato possibile salvare ben centoquaranta vite umane. L’intervento di Chessa, pacato nei toni ed al vetriolo nei contenuti, ha evidenziato come, da ormai trent’anni a questa parte, si continui paradossalmente a far circolare le prime versioni sulle cause della strage che, come ampiamente appurato dal lavoro dell’ultima Commissione d’Inchiesta, sono tutte depistaggi effettuati, secondo le stesse parole di Chessa, “in maniera scientifica” e ripresi subito dalla stampa locale e nazionale: dalla nebbia peraltro invisibile ai testimoni, nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, alla partita di calcio che avrebbe distratto un personale altamente qualificato e dedito alla navigazione da una vita.
I depistamenti partirono dalla sommaria inchiesta della Capitaneria di Porto di Livorno che, mentre i parenti dovevano ancora riconoscere i poveri resti carbonizzati dei loro cari, spesso solo in base ai pochi effetti personali in parte erosi dal fuoco e stipati in misere buste plastiche, come da prassi medico-legale, in soli venti giorni chiuse il caso con una misera relazione nella quale si sosteneva che la collisione fosse avvenuta a causa della nebbia e che 140 persone fossero decedute in venti minuti. Le stesse rapidissime e colpevolmente inesatte conclusioni vennero poi riportate dai periti del pubblico ministero della Procura di Livorno, primo Tribunale a fare l’inchiesta sul Moby, presieduto da Germano Lamberti, condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari in merito ad una vicenda sugli illeciti edili nell’Isola d’Elba, nonché dai medici legali di Pisa i quali, aderendo pienamente alla versione della Commissione istituita dalla Capitaneria di Porto labronica, liquidarono le morti come avvenute nel giro di pochi minuti, contribuendo a farle passare come veloci e quasi indolori.
Insistere come si è fatto nell’attribuzione della responsabilità al solo personale di bordo, peraltro ormai incapace di difendersi esponendo la propria versione dei fatti, equivarrebbe al fare il gioco degli imprenditori-padroni consapevoli della loro colpevolezza che, per smarcarsene, accusano i lavoratori di non aver rispettato le norme di sicurezza sapendo bene, negli anni di lavoro fatti loro trascorrere, di non averli mai dotati di apparecchiature consone a preservarne l’incolumità e la salute. I depistaggi comportano l’annullamento dei fatti, che le parole di Angelo Chessa hanno reso in Commissione come fossero visibili agli occhi di tutti, come se tutti noi fossimo coinvolti esattamente accanto a loro, perché ogni storia sia anche la nostra: “c’erano dei fogli bianchi, e i periti dicevano che erano neri, lo scrivevano e nessuno poteva farci niente.
Questo per far capire come i familiari abbiano dovuto sopportare le falsità che ci venivano raccontate in assenza di qualsiasi contraddittorio. Noi siamo stati anche vittime di avvocati di parte civile, in quanto ci siamo accorti che molti, come i nostri all’inizio, facessero tutto fuorché i nostri interessi. Per esempio, abbiamo scoperto dopo 25 anni che i nostri periti di allora, assieme a quelli della Navarma, sapevano, già dopo 15 giorni, che la posizione della petroliera era in un punto di divieto d’ancoraggio e, nonostante questo, le carte non furono fascicolate e nemmeno i familiari furono avvisati”. Nella sua audizione-fiume Angelo Chessa, presidente onorario dell’Associazione 10 Aprile, ha sottolineato come “tutto si sia svolto in una situazione a dir poco paradossale: i periti nominati dall’allora capo Costanzo erano tutti ingegneri e, nell’ambiente marittimo del porto, si diceva che cercassero la frenata del Moby nelle acque antistanti alla rada di Livorno”, e questo la dice lunga sul livello di competenza e di impegno effettivamente profuso dai vertici e dagli esecutori delle primissime, doverose indagini. Perciò, ha continuato Chessa, “abbiamo dovuto creare una nostra indagine parallela per capire cosa stesse realmente succedendo, chiedendo informazioni ai magistrati mediante istanze portate dai nostri avvocati che sono cambiati nel corso degli anni, durante un processo farsa con imputati relativamente non importanti e dei motivi non reali alla base della strage”.
Seguendo lo stringente filo logico e temporale tracciato da Angelo Chessa, sarebbe infatti bastato ascoltare i nastri audio dell’allora canale 16, registrato per la prima volta in via sperimentale proprio nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, in cui il comandante dell’Agip Abruzzo Renato Superina diceva parole significativamente definite “candide” dallo stesso Chessa: “Non lo so [se c'è nebbia, nda], e noi abbiamo la prua a Sud”. E invece, a processo, si partì con l’ossimorica certezza della nebbia che avvolgeva la rada e della prua della petroliera collocata a Nord, contrariamente a quanto sostenuto dallo stesso Superina durante le sue chiamate ai soccorsi: queste ultime furono accolte, mentre quelle registrate tra la nave passeggeri Moby Prince e la Capitaneria di Porto di Livorno furono fatte cadere nel vuoto, nonostante il May Day prontamente lanciato dall’ufficiale radiotelegrafista Giovanni Battista Campus.
Il livello di sopportazione dei familiari, specialmente dopo la sentenza di primo grado che evidenziò come il fatto non sussistesse, sarebbe dovuto ancora passare attraverso le forche caudine del processo d’appello di Firenze, sempre basato sull’inesistente fatto che il terzo ufficiale di guardia della petroliera Agip Abruzzo non avesse segnalato la nebbia mediante i convenzionali segnali e che, nonostante si fosse dimostrato estremamente critico nei confronti della Procura di Livorno e dei periti dei quali si avvalse, si concluse anch’esso con un nulla di fatto se non per la sola formale condanna di Valentino Rolla, non eseguita in quanto il reato risultò prescritto.
Mai nessuno indagò né processò l’ammiraglio Sergio Albanese, comandante della Capitaneria di Porto di Livorno che, nel corso della sua audizione in Commissione d’Inchiesta del Senato, sostenne come la città gli dovesse essere grata “per aver salvato la stagione turistica” né, tanto meno, l’armatore della Navarma (oggi Moby S.p.A.) Achille Onorato, né il comandante dell’Agip Abruzzo Renato Superina, la cui posizione fu archiviata prima del processo e che, nel 2011, è deceduto.
Nonostante il fisiologico scoramento, i parenti delle vittime si rivolsero tenacemente all’allora Commissione Stragi, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, portando le risultanze ottenute dai periti parte di un pool internazionale di indagini, giunti a conclusioni inaspettate ed insperate per i tempi nei quali, tanto vicini ma tanto lontani, al di fuori dell’ambito militare nemmeno esisteva internet come fondamentale strumento di ricerca ed indagine.
Nel 2006 fu dunque presentata un’istanza di riapertura delle indagini tramite l’ex magistrato antimafia ed avvocato Carlo Palermo, basata sulla presenza in rada di numerose navi militarizzate statunitensi di ritorno dal Golfo Persico dove era finita la guerra e, secondo molti testimoni, teatro di un ampio traffico di armi e munizioni, potenzialmente intercettabili dalla rotta del traghetto e, dunque, possibili concause della collisione.
Come evidenziato dal rappresentante dell’Associazione 10 Aprile Angelo Chessa, “questo fu un modo per cercare di riaprire le indagini sulla base di un fatto mai accertato prima, giacché le prime indagini giudiziarie condotte dal pubblico ministero Luigi De Franco non guardarono mai alla natura del carico delle navi militari presenti la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 nella rada labronica”. Ma, nonostante l’indefesso impegno profuso, le indagini si chiusero nel 2010 con una relazione conclusiva che, in pratica, insultava i familiari delle vittime, rei di insistere su un caso da prescrivere perché causato dall’imperizia di un comandante e Capitano superiore di lungo corso, Ugo Chessa, che avrebbe commesso errori da principiante nonostante lo stesso armatore coinvolto, Achille Onorato, l’abbia recentemente definito “il miglior comandante con cui ho navigato” [1].
“Io e Luchino”, ha continuato Angelo Chessa ripercorrendo per l’ennesima volta una strage senza spiegazioni ufficiali, “giurammo di andare avanti fintanto che qualcuno non avesse fatto luce sulla verità. In questa vicenda non bisogna essere dei geni, ma bisogna essere onesti ed avere la schiena dritta”, perché sono ancora tantissime le cose da scoprire.
Tra queste, nel preciso elenco di Chessa, rientrano “le registrazioni satellitari mai avute, i tracciati radar militari italiani, francesi e statunitensi, la ricerca della cause dell’esplosione, se c’è stata o meno prima delle collisione, sapere perché l’armatore dell’allora Navarma stipulò un’apposita assicurazione per i rischi di guerra solo per il traghetto Moby Prince” ed una pista, tracciata con estrema pragmaticità da Chessa, propria di ogni caso giudiziario che si rispetti: “andiamo a cercare i soldi, e troveremo la verità su questa strage. Perché, come ha scritto la Commissione precedente, i passeggeri e l’equipaggio del Moby non hanno mai avuto i soccorsi. E per noi questo è un fatto doloso perché, a trenta minuti dalla collisione, tutti al porto di Livorno sapevano che la nave passeggeri Moby fosse coinvolta e che i civili, passeggeri e lavoratori, si potessero ancora salvare”.
Il successivo intervento di Luchino Chessa, figlio di Ugo e Maria, nonché presidente dell’Associazione 10 Aprile, si è riallacciato all’impeccabile excursus tracciato dal fratello Angelo, sottolineando come i giorni siano spesso scanditi dalla revisione di fascicoli di documenti, istanze, richieste e perizie, e come “viverlo sulla propria pelle vi assicuro che faccia capire come sia quasi impossibile essere arrivati a tal punto, perché sembra veramente una storia di fantascienza, allucinante e non vera. Noi non abbiamo la verità in tasca, non la possiamo certo avere, possiamo avere ipotesi e modi di pensare e vedere, ma ci rendiamo conto di come le cose stiano cambiando, a partire dal lavoro della precedente Commissione che ha ribaltato le verità processuali devastanti” per i familiari ma anche insultanti per la logica umana, che dovrebbe portare ad indagare sui fatti a partire da dati oggettivi non discutibili. Insultanti come le conclusioni dei giudici dell’ex inchiesta bis che, nella relazione di archiviazione, scrissero nero su bianco come “i figli del Comandante Chessa abbiano distratto risorse allo Stato ed alla Giustizia”, rivolte a persone che lavorano sodo per cercare una verità ed una giustizia la quale – ammette amaramente Luchino Chessa –, “sono sicuro non avremo mai perché, purtroppo, gli anni passano e le persone muoiono. Ma, nonostante il passare del tempo, la verità storica vogliamo averla ed è giusto che la si abbia per noi e per tutto il Paese. Infatti, non è democrazia quella che non ricorda vicende del passato e non le ricostruisce per giungere alla verità di quello che è successo in questa strage, così come in tante altre”.
Parole devastanti, chirurgiche nell’analisi della perpetrazione di una politica di depistaggi ed indifferenza che trita le vittime e grazia mandanti ed esecutori di azioni impossibili da far passare come mere furberie da trafficanti di armi, petrolio o rifiuti tossici coperti da interessi strategico-militari in una rada troppo affollata perché, proprio questi crimini, hanno determinato, determinano e continueranno purtroppo a determinare stragi incrudelite dall’assenza di volontà di evitarle senza motivazioni ufficiali che, lungi dal non emergere in decenni di amara attesa ed insultanti risultanze, sono decine e tutte incatenate tra loro.
Ciò che emerge dalle audizioni è la speranza, mai sopita, che la Commissione possa svolgere il lavoro in maniera costruttiva, a partire dai punti focali che i familiari delle vittime hanno dovuto scoprire avvalendosi delle loro sola iniziativa, delle forze e del tempo profuso con periti e pool di esperti da loro creati da zero, e non da uno Stato che si è dimostrato tiranno come in troppi casi precedenti e successivi, beffando le vittime fino a costringerle ad un’estenuante ricerca di verità tenuta sempre ben scissa da una giustizia mai eseguita dagli apparati burocratici e giurisdizionali: non solo, dunque, il caso della Moby Prince, ma anche quello della scuola Salvemini, di Ustica, del Cermis e le stragi del periodo terrorista nero.
Dal puzzle di una strage di trent’anni fa mancano i tasselli che riguardano la dinamica dei fatti prima, durante e dopo la collisione, i prodromi dei traffici di guerra in una rada troppo trafficata anche da navi fantasma, apparentemente mai esistite con nomi univoci e mai transitate ma in continua spola tra Stati falliti in guerra ed altri centrali nell’asse Nato, i moventi delle azioni di armatori che, notoriamente spinti da pieno spirito imprenditoriale, non andrebbero mai in perdita senza salvaguardare interessi economici troppo spesso spinti verso il losco, le vittime collaterali che indagavano su fatti più o meno concatenati, come il peschereccio della cooperazione italo-somala in rada quella notte, finito poi nelle inchieste di Ilaria Alpi e costata la vita a lei ed al cameraman Miran Hrovatin, le navi a perdere sulle quali indagava il colonnello Natale De Grazia, ed i pezzi riguardanti i successivi, incessanti depistaggi che, col senno di poi sul dispiegamento di forze atte ad occultare la verità storica in favore di una fittizia processuale, pesano sulle vite dei parenti delle vittime molto più di quanto sarebbe costata la vera giustizia contro nebbie mai esistite, se non come alibi di troppi corrotti e corruttori.
L’audizione dei familiari in Commissione Parlamentare d’Inchiesta ha visto il successivo intervento di Nicola Rossetti, vicepresidente dell’Associazione 140 – Familiari Vittime Moby Prince, che ha esordito nell’unica maniera possibile per rendere giustizia, insegnandola a chi ancora non vuole concederla, lasciando che il tempo si occupi dei suoi protagonisti come in una sorta di crudele prescrizione senza alcun termine di legge; ossia, menzionando Loris Rispoli, un grande uomo che, con l’impegno proprio di un fratello, combatte da trent’anni al fianco degli altri sopravvissuti al dolore, nella speranza che possa tornare presto a lottare contro tutto e tutti in una battaglia più difficile del previsto, sulle strade, nelle piazze reale e virtuali, dentro e fuori dalle aule giudiziarie. “Perché – ha domandato pubblicamente Rossetti – quelle centoquaranta persone sono state lasciate morire, uccise senza che nessuno provasse a dare un aiuto? Perché quelle persone sono state lasciate lì, al loro destino? Ci dicevano che fossero decedute in venti minuti ma noi, fin dal primo giorno, sapevamo che non fossero morti in un tempo così breve e, grazie all’ultima Commissione d’Inchiesta, si è scritto che tutte quelle persone sono sopravvissute per ore, alcuni addirittura fino al giorno dopo”.
È strano come la memoria collettiva sia anche selettiva: d’altronde, come scriveva Gramsci, “la Storia insegna, ma ha pessimi scolari”. Eppure, il materiale audiovisivo dovrebbe essere sufficiente per imprimere nella memoria ricordi vividi e, soprattutto, dati oggettivi perché immediatamente verificabili. Sono proprio questi i casi del dipendente della Navarma, il barista Francesco Esposito, annegato in un mare di nafta con l’orologio ancora al polso fermo alle 06:20, meno di quattro ore prima del ritrovamento, e dell’ultimo uomo sopravvissuto a bordo di una Moby esternamente ridotta ormai ad una carcassa di lamiere fumanti, ripreso nei filmati girati dai Carabinieri nella prima mattinata dell’11 aprile 1991. Sarebbe bastata la crudele morte del cameriere Antonio Rodi, avvenuta alle prime luci dell’alba quando, da superstite, cercava ancora un aiuto prima di accasciarsi sul ponte, per fornire una prova basilare dalla quale partire per porsi le giuste domande sullo stato del traghetto, sulle possibilità di sopravvivenza a bordo e su quello dei soccorsi mai fatti giungere.
Se fosse realmente valido l’assunto di Antonio Tabucchi nel romanzo Sostiene Pereira, “noi non scriviamo la cronaca, ma facciamo la storia”, sorge quanto meno spontaneo chiedersi perché, nel grande puzzle delle responsabilità citato da Luchino Chessa, le tessere risultino sparigliate anche a causa dell’incompetenza di una certa parte della magistratura e dei mass media piegatisi alle esigenze di una narrazione depistata e mancanti di un fisiologico spirito in indagine tale da consentire loro di porsi ovvi quesiti sulle discrepanze tra le prime testimonianze e l’inazione della Capitaneria di Porto [2], sull’affollamento e sui traffici tra il porto civile di Livorno e l’adiacente base militare americana di Camp Darby, sugli strani comportamenti dei protagonisti della vita marittima tra cui gli armatori delle compagnie coinvolte Navarma, Snam, Eni ed Agip che, a soli due mesi dalla più grande tragedia della marineria civile italiana e del lavoro in tempo di pace, siglarono un accordo riservato finalizzato alla non attribuzione reciproca delle responsabilità.
Gli interventi dei familiari delle vittime graffiano sulle coscienze riallacciandosi ai propri cari, come Rossetti fa con “la figura di mio padre, che non è morto in venti minuti. Voglio che proviate a sentirvi uno di noi, un familiare delle vittime del Moby Prince. Portare avanti questa battaglia è faticoso, a volte qualcuno non ce la fa, come parecchi familiari che non sono più con noi e sono andati via da questa Terra senza sapere perché sia morta la figlia, e questo incomincia a pesare. Allora, perché tutto questo? Cosa c’è sotto? Noi ci siamo fatti un’idea sin dal primo giorno, ma non ce la facciamo da soli. Angelo ha detto cose giuste, precise, ma io faccio un appello a tutti: dateci una mano a chiudere questa vicenda. Non possiamo aspettare ancora altri anni. Qualunque sia la verità”, ha continuato Rossetti, “vogliamo mettere la parola fine. È da tempo che lo dico, quando partecipo alle iniziative in memoria del Moby Prince: noi abbiamo dei figli, ormai anche ventenni, ed io non voglio lasciare questa battaglia a loro che pagano già un prezzo altissimo, come il non aver conosciuto i propri nonni. E noi che, da trent’anni, siamo concentrati su questo, meritiamo riposo perché a volte il fisico cede, come quello del nostro presidente Loris Rispoli. Per favore, mettiamo tutti insieme la parola fine. È una vittoria non per Nicola, Luchino ed Angelo, ma per la Repubblica e la democrazia”.
Gli interessi convergenti ed i depistaggi
L’accertamento della realtà dei fatti verte attorno ad una delle domande ribadite in audizione, la più ricorrente e significativa, riguardante il perché non solo dell’accaduto, ma anche degli innumerevoli depistaggi: la risposta risiede principalmente negli “interessi convergenti”, inquietanti nel loro tempismo prima e dopo la strage, ed incentrati sulla reciproca copertura delle responsabilità penali.
Angelo Chessa, entrando nel merito di questi particolari profitti, ha sottolineato come la loro scoperta sarebbe dovuta essere “compito della magistratura già trent’anni fa, quando questi erano evidenti a tutti. Se siamo qua, è ovvio dire che non siano stati cercati in nessun modo. Desumendo da quanto ci è stato raccontato dalla Commissione d’Inchiesta del Senato, siamo d’accordo sul fatto che questi riguardino il potere delle tre parti coinvolte nella vicenda, ossia la Snam, l’Eni, all’epoca statale, e dello Stato in quanto capitaneria di Porto e Marina Militare. Gli interessi convergenti riguardano però anche i traffici di idrocarburi non grezzi, ma raffinati” dei quali la Capitaneria di Porto di Livorno non poteva non sapere giacché, come emerso dalle attività della Commissione d’Inchiesta, l’allora comandante Albanese, non pago di aver fattivamente impedito i soccorsi al traghetto Moby Prince, dirottandoli verso l’altra nave coinvolta nella collisione, successivamente impedì ai periti di salire sulla petroliera Agip Abruzzo e di analizzarne l’effettivo carico.
Come sostenuto da Angelo Chessa, per capire fino in fondo l’accaduto è necessario “rendersi conto di cosa fosse la rada di Livorno quella sera, con gli americani che facevano quello che volevano, ed enormi interessi divenuti convergenti con un incidente non voluto, ma che ha visto tutti avere paura di esserne concausa”.
Riagganciandosi a quanto sostenuto dal fratello, Luchino Chessa ha evidenziato come “l’incidente non voluto ha acceso una luce sul porto di Livorno”: porto civile, quotidianamente trafficato da centinaia di persone pronte ad imbarcarsi sulle navi passeggeri dirette verso numerose destinazioni selezionabili, “ma pieno di navi militari e militarizzate, con traffici di prodotti più o meno regolari”.
“La situazione – ha continuato Chessa – era abbastanza imbarazzante, e non avrebbe certo giovato a chi si sarebbe dovuto occupare della sicurezza del porto di Livorno. La cosa più agghiacciante è come i dipendenti della Navarma sapessero da subito, già dieci o venti minuti dopo la collisione, che quest’ultima riguardasse proprio il Moby Prince”. E, pur sapendolo e facendo sì che le voci giungessero a tutti gli operatori presenti nella Capitaneria di Porto labronica, hanno lasciato le persone sole a morire con dolosa lentezza ed infima crudeltà, come testimoniato anche dal Comandante del Tito Neri VII il quale, chiamando l’ufficio rimorchiatori di Livorno, si sentì intimare di restare sulla petroliera, abbandonando per sempre la Moby Prince in fiamme con 65 membri dell’equipaggio e 76 passeggeri ancora da salvare. “Altra cosa allucinante – ha dichiarato Chessa – è legata al soccorso del naufrago ed unico sopravvissuto Alessio Bertrand”: il giovane mozzo disse infatti, secondo quanto poi riferito dai primi testimoni, che ci fossero ancora persone da salvare, a bordo. Ma, nonostante le sue prime dichiarazioni, Luchino Chessa ricorda “i quindici minuti di silenzio assoluto sul canale 16, dopo il quale gli ormeggiatori riferirono come il naufrago avesse detto che a bordo fossero tutti morti bruciati. Questo fa capire il dolo: come si fosse deciso, da quel momento in poi, di lasciarli andare verso il loro destino, verso la morte”.
L’anomalia del mancato, parziale o doloso controllo del porto da parte della Capitaneria di Livorno, che vedeva a capo delle operazioni l’ammiraglio Sergio Albanese, chiuso in un silenzio rotto solamente dal profluvio di dichiarazioni rilasciate già all’indomani della strage ai giornalisti sopraggiunti in rada, è stata sottolineata anche da Nicola Rossetti: infatti, Albanese “non poteva non sapere chi entrasse e chi uscisse dalla rada di Livorno, né non sapere che fosse il Moby ad uscire dal quel porto. Peraltro non si tratta di un porto piccolo, bensì grande quanto la città, commerciale, civile e militare. È difficile capire come faccia un Comandante a non sapere quali navi entrino ed escano dal porto. Ci sono varie comunicazioni intercorse tra la CP e la sala operativa, nelle quali si chiedeva cosa dovessero fare. La risposta consistette solo in lunghi minuti di silenzio, durante il quale nessuno dava gli ordini da eseguire ai militari nella Capitaneria”.
Riguardo i mancati soccorsi ed il ruolo dei vertici militari in rada nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991, Angelo Chessa ha ricordato un’importante testimonianza: infatti, “a mezzanotte e diciassette, l’allora comandante dell’Aeronautica scrisse in un foglio che fossero già pronti da tempo per partire con elicotteri e mezzi aerei, ma la Marina Militare scrisse loro di avere il comando delle operazioni, e di sapere che a bordo fossero tutti morti bruciati”.
Angelo Chessa cita anche l’allora Comandante dei Vigili del Fuoco di Livorno, il quale diede ordine ai suoi sottoposti di non salire a bordo della Moby – per il doveroso soccorso, fosse anche assurdamente stato destinato a pochi superstiti – perché sosteneva fosse pericoloso, “nonostante un marinaio del rimorchiatore fosse appena salito a bordo della nave passeggeri per agganciare un cavo di traino, senza alcuna tuta ignifuga”.
Avendo modo di seguire il corso dell’audizione parlamentare, dovrebbe sorgere spontanea la necessità di domandarsi quanto sia rilevante sapere che l’incidente non sia stato voluto e che non ci sia stata premeditazione se, nella ricostruzione dei fatti, si evincono una serie di elementi inevitabilmente convergenti verso una potenziale tragedia divenuta tale a causa di comportamenti penalmente rilevanti, come la palese omissione di soccorso, ed aggravati da personaggi anche pubblici coi loro comportamenti pavidi, ignavi e collusi. Infatti, mentre 140 persone, uomini, donne e bambini – come le piccole Ilenia e Sara Canu, di appena 1 e 5 anni, o il giovanissimo lavoratore 15enne Maurizio Parrella, Piccolo di camera –, attendevano invano i soccorsi e, da ormai trent’anni, una giustizia che stenta ad arrivare, la macchina dei depistaggi e del fango si mise immediatamente in moto tanto da coprire gli accordi di poco successivi alla strage tra quelle che, per deduzione, sarebbero invece dovute essere le controparti, e finalizzati all’ottenimento di un bottino assicurativo paragonabile alla spartizione di un pasto tra avvoltoi.
Il grande interrogativo sollevato da Chessa sul fatto che “tutti, a Livorno, hanno guadagnato da questo”, ruota attorno al “perché gli interessi sono giunti al tavolo due mesi dopo la tragedia, ancora freschissima, facendo sì che tutte le parti guadagnassero, in particolare la Snam in accordo con la Navarma di Onorato, che ha preso un risarcimento pari a tre volte il valore della nave e con lo Stato che gli affittava le navi adibite a trasporto pubblico?”.
Nell’oscuro coacervo di interessi convergenti e sviamenti messi in atto immediatamente dopo la collisione e, dunque, persino prima della vera e propria strage, “la magistratura, almeno a quel tempo, ebbe poca volontà di opporsi”, ha continuato a spiegare Chessa. “Ad esempio, il 12 aprile 1991, la scientifica mandò una relazione al magistrato De Franco [della Procura di Livorno, nda] rilevando come, a prua della nave, ci fossero i segni di una grossa esplosione. Perché, mentre i familiari erano tenuti all’oscuro delle prime verità emerse, il magistrato impiegò sette mesi per conferire l’incarico all’esperto di esplosivistica?”. Il presidente onorario dell’Associazione 10 Aprile Angelo Chessa ha anche ricordato come “in quei sette mesi, a bordo, hanno fatto di tutto: è piovuto, ci hanno messo i palloni da calcio, hanno rubato strumenti dalla sala macchine, hanno portato via l’unica cosa importante della nave, ossia il registratore di rotta, hanno chiuso le prese a mare per simulare che l’antincendio non funzionasse, continuando a far credere che le persone a bordo fossero morte per un suo malfunzionamento.
Si è trattato di un continuo depistaggio al quale la magistratura non si è opposta, e dobbiamo dare una risposta anche a questo perché. Ed al perché non siano stati subito sequestrati i tracciati radar militari italiani, come quello di Poggio Ballone, quelli francesi di Capo Corso ed i satelliti statunitensi [della base militare di Camp Darby, a breve distanza da Livorno, nda] mai concessi”.
Le storture di questa vicenda hanno inevitabilmente creato tragedie correlate, analiticamente citate nel corso dell’audizione parlamentare da Angelo Chessa: tra queste si annovera la scoperta “dopo quattro anni, di un aereo Alitalia il cui pilota, avendo sorvolato il luogo della collisione, riferì al magistrato che dall’Elba vedesse l’incendio a mare – alla faccia della nebbia – essendo passato sulla verticale della petroliera in fiamme”. “Passati quattro anni”, ha continuato Chessa, “col pilota che vide e riferì tutto alla Pisa Torre [di controllo, nda], i nastri sparirono dopo l’arrivo dei Ros: e, stranamente, neanche lì fu compiuta alcuna indagine, mentre il capo archivista si sparò nei bagni dell’aeroporto. Scrissero che fosse depresso, e non fu avviata nessuna indagine” né, tanto meno, fu avviata una revisione del processo a seguito della condanna definitiva per corruzione a carico di Germano Lamberti, ex capo dei Gip di Livorno.
I danni e le beffe
Le situazioni di irregolarità, paradosso ed estrema tensione vissute dai parenti delle vittime nel corso dei trent’anni di battaglie legali nelle aule di Tribunale sono state ripercorse da Luchino Chessa, presidente dell’Associazione 10 Aprile – Familiari Vittime Moby Prince Onlus. Infatti, come da lui ricordato, “anche durante il processo, si verificarono situazioni allucinanti: testimoni come l’avvisatore marittimo, sbeffeggiato quasi fino al pianto nonostante avesse visto tutto dalla sua sala di controllo, all’interno della quale aveva segnato gli angoli goniometrici delle rotte delle navi, ma fatto oggetto di sberleffo per le scuole frequentate che non gli avrebbero consentito di compiere azioni quali la semplice spiegazione della rotta del traghetto”, evidentemente disturbante per gli imputati ed alcune parti in causa, sulla base della sua puntuale testimonianza visiva in presa diretta nella notte della strage. “Eppure”, ha continuato Luchino Chessa, “è stato rovinato durante il processo, ma questo è solo uno dei tanti casi e noi, purtroppo, non abbiamo potuto far nulla”. Il vicepresidente dell’Associazione 140 Nicola Rossetti, in relazione ai depistaggi ampiamente avallati dall’operato di magistrature che appare persino riduttivo definire fallace, ha altresì sostenuto come “sia stata ben studiata anche la storia dei processi, veloci e sbrigativi. Penso che si fossero messi a tavolino per darci un’altra coltellata. Non potevamo credere all’accaduto essendo ancora sotto shock ma, col tempo, penso che fosse una situazione già accordata verso la beffa”. A cominciare proprio dalle esperienze personali ricordate pubblicamente da Angelo Chessa, tra cui quella legata “ai nostri avvocati dell’epoca i quali quindici giorni dopo sapevano dal fax del perito, così come sapeva la Navarma, che la petroliera Agip Abruzzo, contro la quale la Moby è entrata in collisione, fosse in posizione di divieto di ancoraggio. Noi, però, l’abbiamo saputo venticinque anni dopo. E, per quanto riguarda la causa civile sull’omesso soccorso ai lavoratori ed ai passeggeri, il giudice Massimo Donnarumma [del Tribunale di Firenze, nda] concluse il dibattimento depositando gli atti della sua sentenza il 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti. E non dico altro”.
Ciò che resta di questa strage piena di concorsi di colpa senza colpevoli mai processati né condannati in via definitiva non è solo la memoria statica da museo, ma l’incessante attività di inchiesta e le concrete iniziative legali e sociali messe continuamente in atto dai familiari delle vittime. Queste ultime cercano di neutralizzare l’azione – e l’inazione – di uno Stato non definibile tale se manca ai suoi doveri verso tutti i cittadini, non badando solo alla perpetrazione del silenzio e del vantaggio verso pochi prediletti perché, come ribadito nella chiosa dal vicepresidente dell’Associazione 140 Nicola Rossetti, “noi, alla fine, non chiediamo chissà che, ma due cose che dovrebbero essere normali nel nostro Stato: la verità e la giustizia”.
Dopo trent’anni immersi nel sardonico silenzio di chi pensa di averla fatta eternamente franca, la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle cause del disastro del traghetto Moby Prince è chiamata a dare risposte sapendo, come ribadito da Rossetti, che “noi ci siamo sempre, come ci siamo sempre stati, e ci saremo anche nei momenti difficili che la Commissione dovrà affrontare, come li abbiamo affrontati noi. Con il noi, si vincono le battaglie”.
Note:
[1] La citazione è tratta dall’intervista rilasciata dall’armatore Vincenzo Onorato ad Alessandro Pirina Moby Prince, l’armatore Onorato: Fu una bomba a causare la strage, tratta dal quotidiano La Nuova Sardegna del 23 aprile 2021.
[2] L’inazione della Capitaneria di Porto di Livorno nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 è pienamente incarnata dalle parole confuse ed incitanti rimaste impresse sulle registrazioni dello sperimentale canale 16. Tra le tante, è doveroso ricordare quelle provenienti dalla petroliera Agip Napoli, con il suo eloquente “Che fai Livorno, dormi?” e, soprattutto, la traccia audio con l’interrogativo caduto nel vuoto “Moby Prince da Livorno, mi ricevi?”, di poco successiva al May Day lanciato dalla nave passeggeri.