Continua il racconto di Silvia A., volontaria del centro Amal Al Mustaqbal, di Aida Camp, sulle difficili condizioni di vita dei palestinesi nei territori occupati. Il contesto di marginalità e di costante repressione in cui vive la popolazione araba a Gerusalemme e in Cisgiordania, le discriminazioni e le violenze che subiscono quotidianamente da parte delle autorità israeliane.
di Silvia A.
“Dove vai?”
“Vado a Gerusalemme”
Mentre lo dico risuona come una condanna, un enorme privilegio: io posso andare a Gerusalemme, loro no. Gli israeliani hanno costruito un muro altissimo, lunghissimo e controllato dai soldati appostati alle torrette; ancora adesso mi chiedo cosa debbano controllare!
È il 20 settembre ma in Palestina fa ancora caldo.
Esco dal campo, svolto a sinistra verso il benzinaio, inizio a sudare sotto la maglia a maniche lunghe, guardo i disegni di Bansky, svolto verso l’ultimo pezzo di strada in cui risuonano i clacson dei taxi e poi il check point. Mi incammino verso i tornelli passando per quei lunghi corridoi, stretti e chiusi, affollatissimi la mattina presto dai lavoratori palestinesi con il permesso di lavoro a Gerusalemme, vuoti quando ci sono io. Arrivo ai controlli ma il passaporto è ancora in borsa, fino all’ultimo, non voglio si veda che sono italiana, che grazie al colore bordeaux, sono privilegiata. Il visto in ultima pagina bloccato da una molletta per capelli mi rende una privilegiata, niente impronte, niente domande scomode per me. Devo solo mostrare il visto e passare il tornello, nulla di più. Al check point 300, quello che collega Betlemme a Gerusalemme, funziona così.
Fuori tutto è diverso, le ringhiere si colorano di bianco e blu, il muro è grigio, senza colori, il muaddhen si sente in lontananza ed è sovrastato dal suono meccanico e metallico dei tornelli e il mio guardo si volge sempre verso la campagna, verso casa di B. che ora, da quando gli hanno tolto il permesso il dicembre scorso, lui non vede più. In Palestina funziona così, la vita cambia rapidamente in base alle scelte dell’occupazione sionista.
"Salam Aleikum". Salgo sul bus, pago 5 shekel e mezzo e mi siedo.
Saluto le mie vicine di bus, scendo, volgo lo sguardo oltre le palme, guardo la cupola, sorrido e mi incammino verso la Porta di Damasco, Bab al Amud. Mi siedo in attesa della mia amica, che vive a Gerusalemme est, osservo la vita che passa lenta e veloce davanti a me, quando arriva la osservo, è bellissima con il suo sorriso e quella mano che mi stringe il braccio.
Entriamo nel suq, il mercato: veloce volgo uno sguardo verso i cioccolatini sulla destra e gli occhiali da sole sulla sinistra, poi di nuovo a destra per vedere se c'è il signore africano al baretto dove solitamente si siede occupando i posti per far stare in piedi i militari, poi, dopo qualche gradino di nuovo a sinistra verso le sfihe, le pizze e i panzerotti con il formaggio e lo zathar e poi dritta verso il falafaro. Destra o sinistra? Per ora niente knafeh, andiamo a sinistra verso una delle entrate per al Aqsa.
La polizia sionista israeliana blocca due delle entrare alla Moschea, ci sono telecamere, giornalisti e orde di soldati coperti di protezioni, lacrimogeni e proiettili pronti per essere sparati.
In un angolo invece io mi metto il velo, mi pungo con lo spillo, mi sento stupida davanti ad Hanan ma riesco comunque a sentirmi bella e sto bene. Entriamo.
“Sorella!” mi blocco, mi preoccupo che il velo non sia perfetto, mi sento un po’ impacciata e invece sorridendo il signore mi passa gentilmente una gonna che Hanan rifiuta porgendomi la sua.
Sono di nuovo ad Al Aqsa, questa volta con un velo, una gonna e un’amica a braccetto; anche la sua magia cambia. Mi godo tutta la sua bellezza, la sua maestosità. La Moschea di Al Aqsa, la Cupola della Roccia che brilla, riflette la bellezza della mia amica, dell’Islam, della Palestina. Mi è difficile spiegare ciò che ho provato ma forse quel benessere, quella serenità, quella gioia la paragonerei all’abbraccio di una mamma che gioisce con te, che ti insegna a crescere, che ti fa giocare, che ti trasmette pace e serenità ma che allo stesso tempo ti dona la forza di combattere, di sognare. Quella mattina lì dentro, a fianco di Hanan, sono stata bene, mi son sentita accolta e il velo non pesava, stava semplicemente dove in quel momento doveva stare e alla fine ho smesso di sentirmi impacciata.
Al Aqsa è così, ti rapisce, si mostra per tutto quello che è: oltre che essere luogo religioso è un luogo di accoglienza, di ritrovo, di amicizia.
Un anziano con cuffie tecnologiche legge il corano all’ombra di un ulivo, dei bambini giocano a pallone, dei ragazzi si fotografano, un gruppo di studenti ha appena finito di studiare e si mette e giocare a pallavolo.
All’uscita tutto torna come prima. La polizia israeliana ci guarda schifata e l’occupazione sionista mi tira una schiaffo quando al canto del muaddhen un gruppo di soldati fa versi, urla e ride mentre strappa da un ulivo ancora giovane delle delicate e preziose foglioline.
“Devo andare! Torna presto a trovarmi, mi son divertita con te oggi!” – mi dice Hanan.
“Certamente, spero di tornare presto! Grazie di tutto amica” – rispondo io.
Non sono più tornata, non ho potuto. I coloni e i soldati avevano iniziato a blindare la città, ad assediarla, a bloccare le entrate, a lanciare lacrimogeni nelle scuole, a demolire case, ad arrestare e uccidere giovani per quelle strette vie del mercato della mia bella Gerusalemme.
Italia.
Frugo nella borsa per cercare il portamonete scavando tra agenda, libri e foglietti vari. Mi pungo il dito. Quel piccolo dolore mi riporta a quel giorno, a quando il velo è rimasto dov’era per tutto il giorno, anche dopo la Moschea, a quei respiri di bellezza e gioia che avevo fatto, che per un istante avevano sconfitto l’occupazione sionista.