Il grande circo mediatico statunitense ha trascorso un’estate piuttosto intensa e deve ringraziare di questo, come sempre da ormai un paio d’anni a questa parte, il presidente Trump e la sua amministrazione, che hanno certamente fornito, a ciclo continuo, materiale per alimentare il solito fumoso flusso di notizie, commenti, dibattiti caratterizzati da polemiche di corto raggio e sensazionalismo.
Non intendiamo certamente in questa sede ripercorrere la cronaca degli eventi, che sono stati ampiamente trattati, quanto piuttosto cercare di individuare, al di sotto della superficie del giornalismo mainstream mordi e fuggi e privo di analisi, alcuni elementi di fondo che ci permettano di chiarire meglio l’evoluzione in atto nel capitalismo statunitense contemporaneo.
Al di là infatti del personaggio e dell’individuo Trump, alla cui prospezione psicologica non siamo mai stati interessati, gli eventi di quest’estate hanno fatto emergere in maniera forse ancora più chiara di prima, quali sono i gruppi di potere che stanno dietro le quinte a sostenere il finto pagliaccio newyorkese e, ancor più rilevante, quali sono le linee di frattura che caratterizzano il capitale targato USA, ma sempre più imperialista e globale.
Una delle vicende che, a nostro avviso, ha rappresentato una cartina al tornasole per identificare la nuova mappa di potere dietro la presidenza Trump, è stata quella della tensione missilistica con la Corea del Nord. Qui le apparenti provocazioni di Kim Jong-un, hanno consentito a Trump di poter finalmente mostrare i muscoli, atto che oltre a piacere sempre a una certa America profonda, ha di fatto lanciato un chiaro messaggio in direzione del blocco militar-industriale che vede in questa tensione le premesse per la giustificazione di una prossima corsa al riarmo, sia nucleare che convenzionale, motivata dalla necessità di ribadire la supremazia statunitense nel Pacifico e di venire in soccorso dei cari alleati giapponesi e sudcoreani minacciati da quello che viene descritto il folle e viziato tirannello rosso nordcoreano. Da non dimenticare che il blocco militar-industriale è così ben rappresentato nell’amministrazione Trump con ben due generali di peso (Mattis e McMaster).
E come non interpretare con la stessa chiave di lettura anche il recente annuncio dello stesso Trump sul mantenimento e il rafforzamento delle truppe USA in Afghanistan? Con l’importante precisazione che non viene definito alcun termine temporale, ma solo l’obiettivo, abbastanza vago, di definitiva rimozione delle cause che alimentano il terrorismo (1).
Per non dimenticare poi il rafforzamento dell’impegno militare in Medio Oriente, dove peraltro l’amministrazione Trump ha recuperato più che mai il solido legame politico ed economico con l’Arabia Saudita (2) e, quindi, di conseguenza, con gli altri emirati del Golfo. Qui, oltre al fronte siriano, non bisogna dimenticare anche quello yemenita, luogo di confronto a livello regionale tra le due potenze regionali in conflitto, Arabia Saudita e Iran. Un confronto che da poco ha visto aprirsi un nuovo focolaio in Qatar, unico emirato non allineato e considerato, non del tutto a torto per la verità, filo-iraniano.
Il ruolo aggressivo della diplomazia e della presenza militare USA in Medio Oriente serve ovviamente anche a compiacere gli interessi delle grandi corporation dell’industria energetica (petrolio e gas), interessi che peraltro si vedono pienamente rappresentati nella figura del Segretario di Stato, Rex Tillerson.
Se la politica estera è il terreno per l’amministrazione Trump su cui garantirsi il sostegno di alcuni importanti centri di potere, ancora più importante, in tal senso, è la politica interna. La vicenda degli scontri tra gruppi estremisti di destra e giovani della sinistra radicale, con la ragazza morta a Charleston in Virgina, ha visto il presidente, molto chiaramente un Trump sicuro di sé che non ha minimamente ceduto alle pressioni mediatiche, con il chiaro obiettivo di portare il paese alla radicalizzazione delle posizioni. Un fatto importante, legato alla vicenda, è stato quello delle dimissioni di una serie di esponenti del grande capitale statunitense dai due comitati economici (”business councils”) appositamente costituiti dall’amministrazione Trump con funzioni prettamente consultive, senza alcun rilievo istituzionale, ma utili dal punto di vista politico per rappresentare la volontà di un forte legame concertativo tra potere economico e governo. Ebbene, i media americani, in gran parte ostili all’amministrazione Trump, hanno molto enfatizzato l’ondata di dimissioni eccellenti da questi comitati, seguite come segno di protesta nei confronti dell’atteggiamento assunto da Trump sulle vicende di Charleston, in particolare la mancata ed esplicita condanna degli estremismi di destra. Se però esaminiamo questa vicenda da una diversa prospettiva, ecco emergere, con un significato politicamente di segno opposto, le mancate dimissioni da parte di numerosi rappresentanti di importanti gruppi industriali e finanziari. Una evidente manifestazione di sostegno al presidente, sostegno naturalmente non motivato da ragioni ideologiche e legate all’episodio congiunturale, ma da interessi concreti di lungo periodo.
Se poi andiamo a vedere più nel dettaglio quali esponenti si sono dimessi e quali invece sono rimasti, si può chiaramente ottenere un’interessante fotografia delle linee di divisione che attraversano, in questa fase storica, il capitale americano. Gruppi dell’industria manifatturiera tradizionale o pesante (es. US Steel, Ford, General Electric, Caterpillar, Whirpool, Dow Chemicals e altri) del complesso militar-industriale (Lockheed Martin, Boeing) hanno confermato la loro volontà di rimanere e di mantenere in vita i comitati, mentre coloro che hanno presentato le dimissioni appartengono in gran parte a gruppi delle nuove tecnologie e dell’intrattenimento in gran parte basate nella West Coast (Dell, Apple, Intel, Walt Disney, United Technologies, Tesla, Uber, ecc.) o dell’industria farmaceutica (Johnson & Johnson, Merck). Una linea di frattura che si sta tracciando già dai tempi della campagna elettorale e che è spiegabile soltanto con gli interessi confliggenti in gioco. L’industria manifatturiera tradizionale ha infatti un maggiore interesse, pur non senza contraddizioni, a sostenere le politiche protezionistiche, ancora per la verità annunciate, ma non messe in pratica dall’amministrazione Trump. Protezionismo invece molto temuto e contrastato dai gruppi delle nuove tecnologie, che traggono il massimo beneficio da una situazione di piena apertura dei mercati internazionali.
Dal canto loro le industrie legate al complesso militar-industriale, cui si aggiunge, come sopra evidenziato, il blocco delle grandi multinazionali energetiche (petrolio e gas), sono invece interessate a sostenere la linea aggressiva di politica estera che sta rilanciando più che mai l’imperialismo americano, in una fase in cui appare indebolito. Teniamo in mente questo scenario di fondo quando vogliamo interpretare alcune recenti scelte di politica estera dell’amministrazione Trump che apparentemente contraddirebbero le promesse e i toni manifestati in campagna elettorale, come il completo riallineamento, in Medio Oriente al blocco regionale degli emirati del Golfo Persico, capeggiato dall’Arabia Saudita, o la conferma dell’intervento militare in Afghanistan.
Interessante anche l’atteggiamento della grande finanza. Molto significativo che i rappresentanti di tre delle principali potenze di Wall Street, Blackstone, Blackrock e JP Morgan non si siano dimessi dai comitati consultivi. Ma il termometro ancora più eloquente è quello dell’andamento dei mercati borsistici dall’insediamento del nuovo Presidente alla Casa Bianca, che hanno registrato una continua e ininterrotta ascesa, e i cui primi e molto contenuti segni di caduta si sono avuti soltanto nel mese di agosto, peraltro non riguardando tutti i titoli e comunque ovviamente in parte influenzati dal clima politico surriscaldato di quest’estate. Senza però dimenticare che, dal punto di vista tecnico, questi ribassi di borsa nei mesi estivi sono abbastanza naturali, soprattutto quando fanno seguito a mesi di crescita ininterrotta come non si vedevano da molti anni.
Cosa può significare tutto questo? La risposta ci sembra abbastanza chiara: alcune importanti componenti del grande capitale sia finanziario che industriale nutrono forti aspettative positive nei confronti dell’amministrazione Trump. Uno degli aspetti più importanti su cui le aspettative si concentrano è quello della “deregulation”. I principali fondi e banche d’investimento, i grandi padroni di Wall Street, non vedono l’ora di poter uscire dalla fase delle restrizioni e limitazioni imposte durante l’era di Obama e rese necessarie sull’onda degli effetti devastanti della crisi del 2008, quando non si poterono nascondere del tutto all’opinione pubblica le responsabilità dei mercati finanziari. Non che quelle regolamentazioni abbiano del tutto indebolito la grande finanza, che in quella fase aveva comunque bisogno del sostegno dei capitali pubblici per curarsi dalle ferite della crisi e soprattutto per poter far ripartire il circo finanziario e la corsa ai profitti, così bruscamente interrotta. In quella fase storica quindi il compromesso appariva necessario. Ma oggi i tempi sono cambiati e gli “spiriti animali” del capitalismo finanziario, che nel frattempo sono riusciti a recuperare tutta la loro forza, mordono il freno e non sopportano più queste restrizioni. E vedono in Trump il loro miglior referente, specialmente da quando, a febbraio, ha annunciato di voler rimuovere l’odiatissima Dodd-Frank Act, una legge che impone determinate limitazioni alle operazioni speculative. Molto significativo, in tal senso, un articolo uscito ad agosto su “Barron’s”, il numero speciale settimanale di approfondimento edito dal Wall Street Journal (3). Non dimentichiamoci poi la presenza di Steven Mnuchin, uomo di Wall Street, nel governo in qualità di Segretario al Tesoro e i buoni uffici del cognato di Trump, Jared Kushner, ebreo newyorkese con un forte ascendente negli ambienti dell’alta finanza, e non a caso e non solo per ragioni familiari, uno dei pochi esponenti ancora in sella della cerchia ristretta di Trump.
Per riassumere e concludere, l’avvento dell’amministrazione Trump ha evidentemente messo in moto delle correnti sotterranee che attraversavano il capitalismo statunitense, le cui contraddizioni interne cominciano adesso a venire allo scoperto. Sembrerebbe, per il momento, che i gruppi e le forze di cui Trump, più o meno silenziosamente, può godere il sostegno, siano in grado di esercitare un peso prevalente rispetto alle altre componenti schierate invece in opposizione. Ma, come l’analisi marxiana ci ha sempre insegnato rispetto alle dinamiche del capitale, gli equilibri sono sempre instabili e mutevoli e, ad oggi, l’amministrazione Trump gode di un capitale di fiducia ma è attesa al varco, questi sostenitori per nulla ideologici, ma puramente motivati da interessi materiali e concreti, vogliono cominciare a vedere dei ritorni effettivi. Altrimenti il capitale politico rischierà di dissolversi molto presto e allora la situazione potrebbe tornare ad essere molto instabile per Trump e la sua piccola cerchia di potere. La stagione autunnale si presta a diventare un passaggio decisivo per comprendere non soltanto le sorti di questa amministrazione, ma per capire l’orientamento che prenderà l’imperialismo americano nei prossimi anni.
Note:
- Trump Outlines New Afghanistan War Strategy With Few Details, The New York Times, 21 Agosto 2017
- La redoutable influence de Riyad à Washington, Le Monde Diplomatique, Luglio 2017
- - How to deregulate Wall Street, Barron’s, 17 luglio 2017
- Trump’s Secret Weapon, Barron’s, 21 agosto 2017