Rojava, le donne curde contro il patriarcato e il capitalismo

Il femminismo delle donne curde, contro patriarcato e capitalismo. Un incontro con Dilar Dirik.


Rojava, le donne curde contro il patriarcato e il capitalismo

Dilar Dirik, ricercatrice e sociologa in Inghilterra e attivista curda, è venuta in Italia quest’anno e a Roma ha parlato in affollate assemblee presso le università La Sapienza e Roma Tre; l’8 marzo è stata anche presso Lucha y Siesta, una casa delle donne situata nel quartiere Tuscolano di Roma.

di Laura Nanni

Inizia tutto con un’occupazione. La Casa delle Donne Lucha y Siesta nasce nel 2008 dal recupero e dalla valorizzazione di una palazzina degli anni '20 di proprietà dell'Atac nella zona di Cinecittà; negli anni, questo luogo abbandonato si è trasformato in uno spazio materiale e simbolico di autodeterminazione delle donne, ponendo alla base un femminismo popolare, non elitario né borghese, come lo ha definito una delle relatrici, non-puro.

Dilar Dirik [1] vuole chiarire le origini del movimento delle donne curde che sembra apparso alla vista del mondo solo ora, nella guerra contro Daesh. È un movimento che è partito da lontano, che unisce la lotta al capitalismo con quella al patriarcato, nella continua ricerca di riportare alla luce la versione femminile della storia. Dilar, nonostante la sua giornata sia stata molto lunga, parla senza fretta e vuole anche ascoltare le domande, i suoi modi sono dolci e pacati pur nella chiarezza e nella determinazione che non conosce acrobazie mentali, per dare conferma a quello che è un pensiero condiviso da lei e dal suo popolo che sta vivendo e costruendo una società che si staglia con tutta la sua forza ed evidenza contro la prepotenza di un imperialismo violento e prevaricatore. Parla, racconta e porta esempi.

Nel suo racconto dà molta importanza al far comprendere quali siano i legami, la relazioni umane e politiche in quel particolare contesto, quella congiuntura storico-sociale presente nel Rojava, che rappresenta il simbolo della Resistenza delle donne nel mondo. Ricorda la festa dell’8 marzo organizzata dalla YPJ nel 2015, le immagini festose, in cui le donne che partecipavano provenienti da luoghi e gruppi diversi, avevano creato uno spazio eterogeneo, in cui le provenienze erano superate dalla volontà di fare rete.

L’organizzazione dello YPJ, l'Unità di Protezione delle Donne o Unità di Difesa delle Donne, è un'organizzazione militare instituita nel 2012, come la brigata femminile della milizia di sinistra Unità di Protezione Popolare, YPG.

L'YPJ e l'YPG sono l'ala armata di una coalizione politica curda che ha preso di fatto il controllo su una buona parte della regione settentrionale della Siria a maggioranza curda, il Rojava, una regione autonoma, la zona del Kurdistan in territorio siriano.  È qui il cuore della rivoluzione sociale, in cui la filosofia dell’autodifesa e della consapevolezza, si lega ad un’organizzazione attenta.

Il governo della regione è basato sulla filosofia del confederalismo democratico che implica l'autosufficienza, il localismo e il pluralismo politico. Il PKK[2] con cui il PYD [3] è in stretti rapporti, descrive così il confederalismo democratico nel proprio manifesto: "Il confederalismo democratico del Kurdistan non è un sistema di Stato, è il sistema democratico di un popolo senza Stato... Prende il potere dal popolo e lo adotta per raggiungere l'autosufficienza in ogni campo compresa l'economia".

Dilar fa riferimento ad Ocalan, fondatore del PKK, che ha messo a tema la liberazione delle donne da ogni condizione di sudditanza, senza la quale non può esserci democrazia né lotta all’imperialismo.

Ma un punto centrale da capire è il seguente: la situazione in cui le donne curde si sono trovate, è una situazione geo-politicamente, economicamente e storicamente unica, in cui hanno dovuto reagire a ingiustizie di stampo etnico e di genere, a sofferenze causate dal mancato riconoscimento di un popolo intero in Turchia, dove il popolo curdo è stato marginalizzato. Il femminismo curdo si è alimentato, certo, degli spunti della storia del femminismo internazionale, ma, con grande forza, le donne curde sono riuscite a utilizzare la propria esperienza per trovare una risposta, non individuale ma collettiva, per costruire una strada del tutto inedita. Utilizzare la propria sofferenza per costruire, canalizzando anche il dolore che in questo modo diviene una forza di rivolta per tutte.

Ed è a questo punto che ricorda Sakine Cansiz, co-fondatrice del PKK, imprigionata e torturata per dieci anni, morta in un attentato il 10 gennaio 2013 a Parigi [4].

"Il movimento delle donne non è qualcosa di accademico, nella vita e nella lotta di tutti i giorni la lotta è dura e reale, Daesh è radicato in ogni villaggio. Non parliamo di cose filosofiche ma di ciò che sta nel cuore di tutte le donne che combattono". Dilar risponde in questo modo a spunti di domande sui ruoli e sulle gerarchie; la cosa importante sono gli scambi di esperienze e dei saperi per la costruzione di un sapere condiviso e collettivo.

Comunicare le esperienze, i saperi dell’esperienza, è il modo in cui imparare nella libera accademia delle scienze sociali del Rojava (se posso utilizzare una definizione, ma solo metaforica), in cui ognuna è insegnante e studente, secondo i momenti, senza ruoli preconfezionati e fissi, perché ognuna può dare, come ognuna ha bisogno di ricevere. La storia delle donne si porta alla luce e si costruisce così.

A questo proposito, ho osservato che in Italia qualcosa del genere mi sembra irrealizzabile; viviamo in una società rigida, bloccata nei ruoli, in cui lo scambio e la mobilità sono molto difficili e, quando ci sono, spesso hanno la caratteristica della prevaricazione. Questo scambio ricco, umano e rispettoso in direzione democratica e anti-gerarchica, mi sembra impossibile, così come appare naturale e nel pieno della realizzazione della sua autenticità il sistema di sapere che lei ci descrive, alla base di un movimento di cambiamento reale. Per questo la costruzione di ponti, al di fuori dei luoghi formali e istituzionalizzati mi sembra possa essere la sorgente più produttiva di nuove pratiche.

Dilar osserva che: "sì, di fatto qui siete occupati da culture altre, quelle capitalistiche (in diverse forme)", di cui siamo sudditi… da queste occorre prima di tutto svincolarsi.

Così lo sottolineo ancora, la nostra liberazione da quelle, sarebbe il primo passo nella direzione di un’autentica costruzione sociale alternativa al sistema capitalistico.

Come liberare la conoscenza dai meccanismi di potere capitalistici?

Le donne curde hanno creato la Jinealogia [5], per avere uno strumento di critica e decostruzione della storia, delle cose date, di ciò che sembra immutabile. Nelle scuole create in Rojava, di cui ci ha parlato, ogni esperienza ha valore e lì avviene l’autoformazione delle donne. Il linguaggio è importante e deve essere accessibile; togliendo gerarchie nella conoscenza, questa diventa fluida. Le donne hanno conquistato la loro autonomia, credono nella libertà ed espressione di sé, dopo essersi svincolate dal pensiero patriarcale e da quello capitalista che distrugge le identità.

In Rojava le donne passavano di casa in casa a chiamare le altre per costituire i consigli di comunità. Dilar racconta che all’inizio lei non voleva uscire di casa, era spaventata e lanciava le pietre. È una storia di emancipazione la sua, come quella delle altre, in cui la sua prospettiva è cambiata del tutto. Le donne sono nei consigli e nei casi di violenza nei confronti di una donna, sono le donne che si riuniscono e giudicano, gli uomini non ne hanno il diritto.

È chiara la connessione con la liberazione dal capitalismo quando si parla, ad esempio, di produzione in proprio; quando si gestisce la vita di comunità attraverso consigli, in cui tutti sono al corrente della vita delle persone; quando attraverso questo percorso autogestito, al di fuori dello Stato, si acquisisce consapevolezza sociale in relazione con la natura e con gli altri, e non mettendosi solo "contro" qualcosa.

È possibile costruire un’economia diversa, afferma Dilar, e dice: "vogliamo ora la giustizia sociale, la felicità su questa terra, vogliamo costruire ponti tra le persone ovunque, trasformare l’idea di educazione e di conoscenza, con empatia tra le persone".

Certo che, per fare questo, bisogna uscire dal ricatto del salario, che produce paura e sfrutta le persone. Bisogna ripensare l’economia per l’organizzazione e la distribuzione delle risorse. E per fare questo, l’idea di Stato dovrebbe essere superata; è già superata per loro, per il popolo curdo che si trova in una situazione storica e geopolitica difficilissima e rara, in cui la popolazione vive un’identità che la unisce, senza avere uno Stato. 

Note

[1] Nelle prime due settimane di marzo, la sociologa curda Dilar Dirik, ha tenuto diverse conferenze presso alcune università italiane sviluppando alcuni aspetti del movimento di liberazione curdo. Ricercatrice al Dipartimento di Sociologia presso l’Università di Cambridge.

[2] Il PKK è il partito dei lavoratori del Kurdistan, fondato da Ocalan nel 1978, illegale in Turchia. UIKI Onlus sito italiano per essere informati sul Kurdistan.

[3] Partito di unità democratica fondato nel 2003. È membro fondatore del Comitato nazionale di coordinazione delle forze di cambio democratico, nella Siria settentrionale.

[4] Nell’attentato sono morte con lei Fidan Doğan e Leyla Soleymez, attiviste curde. Tra il nove e il 10 gennaio del 2013, all’interno del Centro di Documentazione per il Kurdistan di Parigi, sono state assassinate a colpi di pistola. Sakine aveva ottenuto l’asilo politico in Francia. La biografia di Sakine è Tutta la mia vita è stata una lotta. Simbolo della resistenza e della battaglia per l’emancipazione femminile, Sakine Cansiz è l’icona dell’anima collettiva e rivoluzionaria del movimento di liberazione curdo.

[5] "La Jinealogia è una nuova scienza delle donne (in curdo Jin significa donna) che smonta il concetto dell’homo oeconomicus (pilastro della razionalità economica occidentale) come attore dominante delle relazioni sociali". È la rilettura della scienza, dei saperi e della storia. Ma questo discorso meriterebbe un approfondimento in altra sede.

01/04/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Laura Nanni

Roma, docente di Storia e Filosofia nel liceo. Fondatrice, progetta nell’ A.P.S. Art'Incantiere. Specializzata in politica internazionale e filosofia del Novecento, è impegnata nel campo della migrazione e dell’integrazione sociale. Artista performer. Commissione PPOO a Cori‐LT; Forum delle donne del PRC; Stati Generali delle Donne.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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