Libano. Profughi palestinesi: un popolo invisibile

Reportage fotografico sulla quotidianità di una famiglia di "palestinesi siriani" nel campo profughi di Burj el-Shemali, a Tiro, in Libano.


Libano. Profughi palestinesi: un popolo invisibile

La realtà della vita, dell'oppressione, della speranza, dell'amore del popolo palestinese è raccontata molto più efficacemente dalle immagini che seguono che da mille parole. Gli sguardi, i giochi, i sorrisi, fermano una giornata della vita di Ranee e della sua famiglia nel campo profughi di Burj el-Shemali, a Tiro, in Libano.

 

“È necessario dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo.” Gilles Deleuze

 

di Laboratorio Libano

Foto di nefg

 

La storia si ripete: 1948-1967-2012

Il vero dramma è che pochi fanno comprendere quanto succede veramente al popolo palestinese che si trova segregato nei “bantustan” libanesi. Ci proviamo con questo fotoreportage.

 

Campi profughi del Libano, vere e proprie zone di segregazione

Era il 1948, anno in cui più di settecentomila palestinesi furono espulsi dalla Palestina - con la violenza ed il terrorismo - dai “seguaci” di Theodor Herzl (scrittore ungherese di remote origini ebraiche), fondatore del sionismo. Il movimento sionista (appoggiato dalle potenze europee, prima fra tutte l'Inghilterra) “legittimava” gli ebrei di ogni parte del globo a fondare uno stato ebraico in Palestina con il solo intento, allora come oggi, di espellere la popolazione esistente: i palestinesi, un popolo dall'elevato grado di istruzione, con una società civile e politica organizzata e strutturata. Il movimento sionista dunque non solo ha forti analogie con l'apartheid sudafricano ma ne ha “perfezionato” il disegno ed il pensiero, volendo arrivare, con la decimazione e la privazione di diritti civili, alla negazione dell’esistenza del popolo palestinese. In sintesi: se riesco a decimarti, riuscirò a negare che tu sia mai esistito.

Per questo motivo è assolutamente importante sostenere la popolazione palestinese, aiutarli a resistere aiutando le famiglie a sopravvivere nei campi profughi nei quali sono segregati come in “bantustan” dove vivono in condizioni miserabonde. Aiutarli a far crescere i loro figli affinché portino avanti – quest'ultimi - la cultura della loro terra e la consapevolezza di non abbandonare lo spirito di resistenza dei loro padri, dei loro nonni. Sostenerli politicamente significa capire, parlarne, diffondere la verità. Sono i palestinesi della Nakba (la “catastrofe” del 1948) o della Naksa (la “ricaduta” del 1967).

Perché mai un individuo deve essere costretto a tale sopruso, violenza psicologica, sottomissione? E se capitasse a noi? Se mai dovessimo scappare dall'Italia perdendo tutto? Lo permetteremmo mai nei confronti di nostro figlio, di un genitore? Soli, senza più le nostre ricchezze materiali delegate a proteggerci, in un paese che non conosciamo e che non ci conosce e, per questo, che ci guarda più che sospettoso, riusciremmo mai a sopravvivere alle discriminazioni, al sospetto, alla povertà che inevitabilmente ci colpirebbe, alla malattia per non avere chi ci cura e, prima di tutto, all'indifferenza?

La peggior condanna qui non è la povertà, la peggior condanna è essere invisibili al mondo

 Nella casa di Abu Maheer

- a scuola di Resistenza in Libano -

Cronaca di un giorno uguale al precedente

Questo fotoreportage ferma una giornata della vita di Ranee e della sua famiglia nel campo profughi di Burj el-Shemali, a Tiro, in Libano.

 

Ranee e Ahmed sono palestinesi nati in Siria. Sono la terza generazione di profughi palestinesi che vivevano in Siria finché non scoppiò la guerra. Ahmed lavorava in un panificio, Ranee si occupava dell'educazione dei figli e dell’organizzazione della casa. Come tanti sono fuggiti tre anni fa dalla guerra, ma non quella mediatica, quella vera delle bombe, dei morti, delle rappresaglie notturne, del terrore, della paura di perdere un figlio, i propri cari. Insieme a loro Hassid, il figlio di quattro anni, e la piccolissima Nuradin, di soli sei mesi. Con la casa saccheggiata e devastata, Ranee e Ahmed non hanno altra scelta che scappare nell'adiacente Libano e rifugiarsi in un altro campo profughi palestinese: Burj el-Shemali a Tiro: due volte profughi!

 

Nuradin oggi ha tre anni e mezzo, ti guarda fisso e serio. Se però sei abbastanza coraggioso da guardarla dritto nei suoi occhi color di terra, allora ti premia sorridendoti appena, ma senza mai abbandonare quella vena di diffidenza che la guerra le ha lasciato in eredità.

 

Hassid ha sette anni, ama le biciclette. Oh sì, ne possiede anche una, arrivata chissà da dove, chissà da chi. Per usarla se la carica come niente fosse su di una spalla e scende, in men che non si dica, le ripide, improbabili scale di legno che congiungono la strada con l'entrata della casa di Abu Maheer.

Una volta sceso giù ci fa qualche metro, ogni tanto sbanda e cade a terra. Mentre lo raggiungi ti accorgi di una ruota bucata. Gli fai gesto indicandola con un dito e lui ti risponde allargando le labbra in un sorriso, solleva la bici da terra e continua a pedalare con quella ruota esausta.

 

Ahmed è il papà, ha 41 anni

Qui ha trovato un lavoro in campagna. È fortunato, è uno dei pochi palestinesi provenienti dalla Siria che ha una sorta di occupazione; in generale uno dei pochi palestinesi che in Libano riesce a lavorare (basta però che non rientri in una delle 73 professioni incluse nella lista delle “proibite”; tante sono infatti le attività che i palestinesi nel paese dei cedri non possono fare). Aspirano così ai cantieri, alle campagne, sempre in nero e senza nessuna forma di assicurazione, così se ti infortuni o se perdi la vita cadendo da una impalcatura, la famiglia ti piange senza peraltro essere risarcita. Ahmed grazie al lavoro in campagna porta a casa ben 10 dollari al giorno. In Libano però la vita è cara. Il suo stanco sguardo è rivolto ad un presente che non c'è e ad un futuro pieno di incognite e di paure.

Sulla sinistra: Abu Maheer, un personaggio incredibile: profugo, figlio e nipote di profughi, li aiuta a resistere.

Abu Maheer, il palestinese che ha prestato la sua dimora di 15 metri quadrati alla famiglia di Ranee, vive dentro il campo in uno dei piccoli loculi adibiti ad abitazione. Però ha due divani accoglienti, come accogliente è stato lui quando ci ha invitato a bere un caffè parlando di politica. “La terza Intifada?”, ne parla come se anche lui fosse in prima linea coi suoi fratelli palestinesi: “È l'unica cosa che ci è rimasta, lo riscontrate coi vostri occhi dove e come siamo costretti a vivere. Io non ho niente da perdere, loro sì...”

 

Ranee ha 30 anni. Il suo nome significa “lei è il canto”, ma anche “ rinascere”

E certamente avrebbe bisogno di rinascere. Tornare nella casa dei suoi nonni, in Palestina, ora occupata; come occupati sono i campi che coltivavano, i pozzi da cui si dissetavano. Ma le vecchie chiavi di casa qualcuno le continuerà a custodire. Le generazioni passano, ma la verità resta. Questo non lo dobbiamo dimenticare.

 Ore 08.00

Si prepara la cartella per la scuola

 Attività sportive extrascolastiche

"Percorso vita" 

"Salto agli ostacoli" 

"Salto in lungo" 

"Step" 

"Pentathlon" 

"Sollevamento pesi" 

"Yoga" 

Ore 11.00

Ranee ci prepara un ottimo caffè, come ad ogni buon ospite che si rispetti. Lo sorseggiamo parlando di politica: perché i palestinesi non possono tornare in Palestina?

 Moda e costume

"Collezione Autunno-Inverno 2015-2016 (2017, 2018, 2019, etc. ex 2014-13-12...) Burj el-Shemali"

"Cabina armadio"

"Sala da bagno"

"Sala giochi"

Ore 12.00

Si prepara il pranzo.

Non vogliamo disturbare; far da mangiare anche per noi è un impegno economico e dunque dopo un po' di “discussioni” decidiamo di arrivare ma sul finire del pranzo. Capiamo che è molto importante condividere un pasto, dividersi quel poco di cibo. Le condizioni saranno anche miserabonde, ma non abbiamo mai incontrato egoismo qui, tra i palestinesi dei “bantustan” libanesi, ma solo generosità.

Ahmed è tornato dalla campagna, aiuta Ranee in cucina ora, e Nuradin sbircia

Ore 13.00

Accoglienza e condivisione.

"Sala da pranzo"

Hassid torna da scuola. Ranee lo sveste ancora nonostante i suoi sette anni. Nuradin mangia già da sola invece.

Qualcosa dev'essere successo nell'equilibrio di Hassid se ancora oggi Ranee lo aiuta a mangiare. La guerra in Siria è iniziata nel 2011, ma il vero conflitto civile si è intensificato nel 2012. A quell'epoca Hassid aveva quattro anni. Se i suoi bisnonni non fossero stati cacciati dalla propria terra, la Palestina, tutto ciò non sarebbe accaduto.

Ma gli adulti qui fanno di tutto per far dimenticare il ricordo dei rumori delle bombe

Ore 21.00

"Camera da letto"

Nella prigione a cielo aperto di Burj el-Shemali, uno dei tre campi profughi palestinesi di Tiro, ci abitano circa venticinquemila palestinesi. Con lo scoppio della guerra in Siria si sono rifugiati, in quest'area, diecimila siriani. Oggi ci “vivono” seicento famiglie siriane. I maggiori problemi sono dati dagli spazi abitativi, dall'integrazione con i palestinesi “libanesi” e, naturalmente, dalla mancanza di lavoro. Spesso le famiglie palestinesi si sono ritrovate a dover ospitare e prendersi in carico un parente che viveva in Siria o addirittura un intero nucleo famigliare; considerando che i metri quadrati delle “abitazioni” sono estremamente esigui (la famiglia di Ranee, come si è visto, vive in un'unica stanza), ci immaginiamo quanto difficili siano le condizioni di convivenza e di sopravvivenza. Procurarsi cibo, acqua e cure mediche non è così scontato.

Al lettore:

Non ci sono scoop in questo fotoreportage, semmai una triste ed ingiusta realtà. Portiamo dunque la voce, l'urlo del popolo palestinese, il quale, per non continuare a rimanere invisibile, chiede:“Sostenete la nostra causa, che è politica, non umanitaria”

Ringraziamo tutto lo staff di Beit Atfal Assomoud, ed in particolare Abu Wassim, Direttore del centro di Burj el-Shemali, Tiro.

Novembre 2015,

Laboratorio Libano

Note

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08/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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