Possiamo fermare il genocidio in Palestina

L’indignazione popolare ha raggiunto i massimi livelli possibili e questo impensierisce ormai le classi dirigenti dei Paesi occidentali, imbarazzati di fronte all’operare apertamente brutale e razzista dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”. Occorre denunciare per raggiungere un risultato, anche solo simbolico, per non essere complici del massacro.


Possiamo fermare il genocidio in Palestina

Dal 7 ottobre 2023 alcune cose sono cambiate profondamente. Dall’inizio dell’invasione da parte di Israele della striscia di Gaza l’intero pianeta ha potuto osservare nei diversi canali televisivi e social la brutalità, il razzismo, l’ingiustizia profonda dello stato di apartheid in cui si trova a vivere il popolo palestinese, non solo nella striscia di Gaza, ma in tutti i territori occupati. Non è necessario in questa sede ricordare la ferocia ed il disprezzo con cui lo stato sionista d’Israele ha trattato i cittadini di Gaza ed i palestinesi nei territori occupati. Sono oramai evidenti a tutti i cittadini minimamente informati gli atti di ferocia e d’arbitrio con cui l’esercito israeliano, i coloni, i partiti politici di destra, il governo Netanyahu, si riversano contro i cittadini palestinesi. Si tratta d’ingiustizie che, in forme diverse, si susseguono da più di 70 anni e che stanno trovando in questi ultimi due anni il livello più acuto di violenza e che, seppur con accenti diversi il grosso dell’opinione pubblica israeliana sostiene, più o meno apertamente.

Di fronte a quest’altissimo tasso di brutalità si sono dileguate come neve al sole tutte le frasi retoriche con cui si voleva nascondere la dura realtà dei fatti: il regime d’apartheid veniva mascherato come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, la cui sicurezza è stata considerata un dogma irrinunciabile dalla stragrande maggioranza dei giornalisti italiani e qualunque critica rivolta ad Israele è stata sempre bollata con l’accusa infamante dell’antisemitismo. Infine, il 7 ottobre: l’attacco a civili e militari israeliani come antidoto ideologico per annullare tutte le atrocità passate, presenti e future compiute con disprezzato cinismo dalle autorità israeliane ed utilizzato per imporre la soluzione finale alla questione palestinese. Non sono parole mie ma dei ministri Ben Ben Givh-Hir e Smotrich e direttamente collegate alla costruzione del Grande Israele che presuppone, per essere realizzato, la cacciata di tutti gli arabi non solo dai territori occupati ma anche l’annessione di Libano e Siria e di una parte dell’Egitto. Da questo punto di vista, l’espressione del genocidio non è solo una questione terminologica, ma corrisponde allo strumento militare funzionale a realizzare una grande pulizia etnica in quei territori. Ripeto, non sono io ad affermarlo, basta ascoltare le dichiarazioni di molti politici israeliani nonché le pratiche militari dell’IDF e dei coloni nella striscia di Gaza ed in Cisgiordania.

La complicità degli Stati occidentali, in primis gli USA e poi l’UE, l’altissimo grado di corruzione in cui si trovano molti Stati arabi (l’Egitto, la Giordania, in parte l’Arabia Saudita e le petromonarchie del Golfo) ha prodotto un senso d’impunità nelle istituzioni israeliane nei confronti dei palestinesi che è in grado di calpestare ogni senso minimo della giustizia e della protezione dei diritti dell’uomo. È proprio questo senso d’impunità, di disprezzo aperto e rivendicato nei confronti dei diritti degli uomini, delle donne e dei bambini che ha causato l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale, anche e soprattutto nei Paesi occidentali. Si tratta di una repulsione morale che va ben oltre i manifestanti e i corpi più militanti ma che si collega ad un senso minimo della giustizia e del diritto degli uomini a vivere e ad essere riconosciuti come uomini che, in parte, travalica le ideologie politiche di ognuno e che rimanda immediatamente a quell’innato senso della giustizia che, nonostante tutti i mali, è presente in ogni uomo. L’ideologia dei diritti umani, con la quale l’Occidente ha inflitto colpi pesantissimi ai popoli del terzo mondo, si è ritorta contro i suoi stessi artefici, complici di uno Stato che, agli occhi del mondo, senza vergogna e con il senso radicato dell’impunità l’ha mostrata ai suoi cittadini e al mondo rivendicandola apertamente.  Considerato da un punto di vista scientifico e storico si tratta dell’evoluzione finale del sistema di Apartheid coadiuvato e sostenuto dai media e dalle cancellerie dei Paesi occidentali.

La tenacia del popolo palestinese da una parte – che resiste da più di due anni ad una ferocia senza precedenti – le mobilitazioni continue e l’indignazione crescente dell’opinione pubblica hanno cominciato ad impensierire le classi dirigenti dei Paesi occidentali. Alcuni ministri d’Israele sono stati giudicati dalla Corte Penale Internazionale (non a caso accusati dal Sudafrica che ha subito l’Apartheid per più di 50 anni) l’Irlanda ha condannato duramente le politiche di genocidio ma così anche la Spagna, la Slovenia, che ha rotto una parte consistente degli accordi commerciali. Molti giornalisti hanno improvvisamente cominciato a parlare apertamente delle politiche di violenza e terrore esercitate dai coloni israeliani (penso a Formigli o a Maggione). A sostenere ancora una linea di nessun intervento su Israele sono rimasti apertamente solo Von Der Leyen e Meloni. Le cancellerie inglesi, francesi e tedesche – le prime spinte da una mobilitazione popolare fortissima (ricordo le enormi manifestazioni a Londra, Amsterdam, Parigi) hanno scelto una linea più conciliante con Israele (ma comunque scomoda sul piano simbolico per quest’ultimo) che è la formula un po' ipocrita e filistea del “riconoscimento a settembre dello Stato Palestinese” (tutto ciò mentre, in questi giorni il Governo Israeliano ha predisposto l’occupazione totale della Striscia di Gaza, o meglio la sua annessione). Come comportarsi di fronte a questi timidi cambiamenti? A nostro avviso il compito più importante, l’obiettivo finale è che il governo italiano recida i principali accordi economici e le forniture militari con lo Stato d’Israele.

Sappiamo che non si tratta di un compito facile e neanche di un pio desiderio morale che nel momento in cui lo pensi si avvera. Fortissimi sono i legami che collegano Israele all’economia italiana: accordi militari, cooperazione con le università, accordo con l’Eni sullo sfruttamento del gas palestinese rapinato nelle acque di Gaza, etc. Tuttavia, a mio parere, si tratta non di un presupposto ma di un risultato di un percorso che ci vede tutti responsabili ed in differenti modi; secondo forme ed approcci che riflettono i differenti piani e livelli in cui si articola la complessa relazione tra società civile e istituzioni pubbliche. Anche il riconoscimento dello Stato di Palestina, in quei Comuni o in quelle Regioni in cui non c’è la forza di rompere tutti i legami rappresenta un passaggio simbolico su cui gettare le basi per un atto reale. In molti Comuni si presentano mozioni per il riconoscimento dello Stato di Palestina oppure per denunciare le violenze sui civili da parte d’Israele, così come in diversi Municipi. Qualche università si è esposta più concretamente sulle collaborazioni militari; i portuali di Genova, in collegamento con quelli di Marsiglia hanno bloccato le forniture dirette ad Israele. Alcune di queste iniziative – come le mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina - sono più simboliche ma comunque importanti e vanno generalizzate, ampliate il più possibile in tutti i territori, così come è necessario fare pressione sui partiti di opposizione affinché le sostengano dandone un significato più concreto e radicale possibile. È un lavoro molecolare e capillare nel quale si evidenziano i reali rapporti di forza tra il popolo e le istituzioni in riferimento al sionismo. Non basta dire che l’opinione pubblica è contraria, il sentimento dell’opinione pubblica deve tradursi in posizioni, atti politici, documenti. Il punto principale è fare pressione, provare a misurarsi con i collaborazionisti del sionismo su tutti i campi avendo la fiducia che è possibile isolare le loro posizioni, tradurle non solo in opinioni ma in individuazioni di responsabilità anche sul piano politico. Quello che ci interessa non è solo denunciare (come nel caso di Gualtieri che ha chiuso il Consiglio Comunale per non discutere di una mozione presentata dal 5 Stelle sulla Palestina) ma di denunciare per raggiungere un risultato, anche solo simbolico, dove non c’è la possibilità di una posizione più avanzata. Fugge Gualtieri, si passa per i Municipi di Roma e si torna da Gualtieri. L’obiettivo è sempre quello d’interrompere gli accordi militari con Israele ma quest’obiettivo ha bisogno di tappe e partecipazione di massa. L’Italia, ad oggi, è il Paese più arretrato in Europa nei confronti della critica ad Israele, mentre potrebbe, per gli stessi sentimenti popolari in favore della Palestina, cambiare radicalmente. Dipende solo da quanto – ma soprattutto come, con quale aperura mentale, e senso della concretezza, dei rapporti di forza, riusciamo a mettere in moto. Come produrre e generalizzare una strategia sia simbolica che reale di isolamento dei sostenitori dichiarati dell’apartheid. Le condizioni per portare avanti l’isolamento d’Israele e dei suoi sostenitori si stanno aprendo; a noi la possibilità di cogliere e portarle a compimento. È tutta una questione di volontà, intelligenza, determinazione e pazienza rivoluzionaria.

08/08/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Francesco Cori

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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