Draghi conoscerà il suo autunno, inteso come declino della sua funzione politica?
Al momento sembra assai difficile avventurarsi in previsioni, però appaiono evidenti i segnali che il “draghismo” abbia toccato i limiti estremi della sua sfera di egemonia e inizi a incontrare forme di opposizione reale nella società (quella fittizia è stata proclamata all’atto della nascita dell’esecutivo da Fratelli d’Italia). Ad attestarlo c’è ingombrante “come una mucca in un ufficio”, per dirla alla Bersani, lo sciopero del 16 dicembre proclamato dalla fin qui assai remissiva Cgil di Landini e addirittura dalla Uil, un sindacato ultraconcertativo dagli anni ’80 del secolo scorso.
L’evento è talmente imbarazzante per l’uomo di Palazzo Chigi che alla proclamazione dello sciopero è partita una fortissima pressione politica e mediatica sulle malcapitate Cgil e Uil, orfane della Cisl, ma sino ad ora senza alcun risultato: dalla Meloni a Confindustria, da Salvini al Pd, passando per Forza Italia e la Cisl, con l’eccezione di quel che resta del M5S, tutta la variopinta maggioranza di governo (e allegati) non ha che due nemici che rispondono ai nomi dei “pericolosi estremisti” della Cgil e della Uil Landini e Bombardieri (sigh!).
Ma, a dir la verità, lo sciopero che dai primi dati che ci pervengono sembra essere stato un successo (80 per cento di partecipazione tra i metalmeccanici secondo la Fiom) è solo il segnale più importante della crisi di consenso del draghismo. Perfino la stampa moderata non ha potuto nascondere il fatto che la riforma fiscale premi maggiormente chi ha redditi sui 50mila euro annui e non faccia proprio nulla contro la rendita immobiliare.
Sul piano politico, l’impressione è che Draghi inizi a diventare una figura ingombrante anche per le forze della maggioranza che lo sostiene e che non sanno se sia meglio collocarlo sul colle del Quirinale per avere finalmente la possibilità di governare direttamente, agendo di nuovo il falso bipolarismo nel campo borghese (centro-destra contro centro-sinistra), oppure tenerselo a Palazzo Chigi ma trovare un accordo non semplice tra le varie fazioni per esprimere una figura di presidente della Repubblica come punto di equilibrio all’interno delle classi dominanti.
A loro l’ardua sentenza.
Bonapartismo e contraddizioni interne alla borghesia
Nella tradizione marxista il bonapartismo è espressione del predominio di un gruppo politico che sfruttando l’equilibrio delle forze espresse dalle diverse classi in lotta si erge (apparentemente) al di sopra di esse e assume una funzione arbitrale. La funzione di arbitro è ovviamente assai relativa perché il bonapartismo favorisce in ultima istanza la classe dominante, ma insomma, come scriveva Trotzky a proposito del nazismo: la scimmia sale sulle spalle del capitalismo e non si esime dall’affibbiargli delle robuste pedate, se lo ritiene necessario. Ma il caso di Draghi è del tutto diverso: non siamo in presenza di alcun equilibrio tra le classi in lotta. Le classi popolari (classe operaia più piccola borghesia) vivono uno stato di passività estremo, soltanto un poco agitato dagli incubi confusi e parzialmente reazionari dell’antivaccinismo, finora unica opposizione reale pervenuta, con l’eccezione di alcune avanguardie di classe come il collettivo di fabbrica della Gkn.
Il draghismo sembra configurarsi come un bonapartismo tutto interno agli equilibri precari delle frazioni borghesi in lotta tra loro per accaparrarsi i proventi del Pnrr e nel migliore dei casi impiegarli per estrarre la maggior quantità di plusvalore possibile da un mondo del lavoro finora non in grado di difendersi, in occasione della ripresa economica postpandemica.
Il dato emergente da cogliere è il degrado progressivo degli stessi meccanismi della democrazia borghese. Da più parti, per uscire dalle difficoltà di tenere una maggioranza parlamentare che vada dalla Lega a Leu, si propone di forzare la Costituzione mandando Draghi sul Colle e un “uomo di paglia” a svolgere il ruolo di presidente del Consiglio, configurando un governo in salsa semipresidenzialista francese che non ha nessun riscontro nella nostra carta costituzionale.
Concentrazione dei capitali e concentrazione del potere politico
Se l’Istat ci assicura che il 45% delle aziende italiane è strutturalmente a rischio di fallimento e il Corriere della Sera registra l’aumento dei fallimenti avvenuti nei primi nove mesi del 2021 e, tuttavia, si proclama con giubilo una crescita economica di oltre il 6%, significa che siamo in presenza di un incremento della concentrazione dei capitali.
La pandemia ha pertanto rafforzato i monopoli. All’intensificazione della concentrazione dei capitali fa da complemento l’esigenza della concentrazione del potere politico. Al netto degli imbarazzi e dei mugugni reciproci di Salvini, di Letta e di Conte (e in fondo pure della Meloni), il capitale chiede loro di rimanere insieme per assicurare che le risorse del Pnrr vengano distribuite alle grandi imprese e che l’aumento dei profitti venga salvaguardato attraverso le riforme opportune: ritorno alla Fornero per le pensioni, no alla patrimoniale, incentivi alle imprese con la scusa del “green” e della digitalizzazione. Per i subordinati, invece, aumento dei contratti a termine, dei ritmi di lavoro e lavaggio del cervello in dosi opportune tramite mass e social media. Se così è, l’ascesa di Draghi dipende per un lato dagli equilibri interni al campo borghese che sono molto instabili, ma devono pur sempre essere contenuti nella cornice del bonapartismo: si vedano le convulsioni intorno alla questione del Quirinale e il tentativo di coinvolgere i “patrioti” della Meloni. Dall’altro, dipende dall’esito politico dello sciopero del 16 dicembre: se Cgil e Uil non sapranno/vorranno spenderlo conseguentemente, Draghi proseguirà nella sua ascesa “sacrale” al vertice del potere politico in una forma “quirinalizia” o nell’altra che già ricopre; se invece lo sciopero farà battere un colpo alla classe operaia lo spettro del draghismo impallidirà e si dovranno ridistribuire le carte al tavolo di gioco.