Da Charlottesville a Durham, l'importanza per noi delle lotte antirazziste negli Stati Uniti

Le mobilitazioni di queste settimane negli USA mostrano le possibilità che la crisi delle società occidentali apre alle avanguardie politiche, a dispetto di ogni fascinazione geopolitica e contro ogni fatalismo.


Da Charlottesville a Durham, l'importanza per noi delle lotte antirazziste negli Stati Uniti Credits: frontepopolare.net

Nel senso comune, gli Stati Uniti d'America rappresentano l'archetipo stesso dell'Impero nel nostro tempo. Come tutte le astrazioni, anche questa si nutre di una presunzione d'inalterabilità che trasforma, agli occhi dell'osservatore, il gigantesco e multiforme organismo rappresentato da quell'enorme paese in un corpo monolitico guidato se non da una predestinazione, quantomeno da un'insondabile e invincibile volontà a rappresentare la guida e l'incarnazione più pura di un sistema economico, sociale e politico esteso su scala planetaria: quel sistema che noi marxisti chiamiamo imperialismo e che abbiamo imparato a riconoscere come la fase ultima di sviluppo del capitalismo, quella che precede l'esplosione della rivoluzione sociale. Proprio quest'ultima considerazione, però, e cioè quella che identifica gli Stati Uniti come la punta più alta dello sviluppo capitalistico e dunque dell'imperialismo, confuta la presunzione di monolitismo cui facevamo riferimento: quando si passa dall'individuare un elemento come l'apice di un processo al concepirlo come l'incarnazione di un'astrazione inalterabile, si è già nel campo dell'idealismo e si è perciò fatta espressa rinuncia a ogni pretesa di scientificità. Non a caso, come ogni potere affermatosi nel susseguirsi delle vicende umane, anche le classi dominanti statunitensi hanno voluto promuovere e radicare in patria e all'estero proprio questa presunzione di metafisica inossidabilità del loro dominio. La capacità di uno status quo di mostrarsi agli occhi dei subalterni come naturale e inalterabile è la chiave di volta che ne determina la presa egemonica sulla società.

Nel caso specifico degli USA, è significativo porre in evidenza come per conseguire un simile risultato, i settori dominanti della società americana si siano serviti di un'argomentazione ideologica germogliata nell'alveo marxista: il cosiddetto "eccezionalismo americano" fatto proprio dall'intero arco politico statunitense, ossia l'idea che per le sue caratteristiche specifiche il capitalismo americano presenti un maggiore dinamismo di quelli europei e una superiore abilità nel risolvere le sue contraddizioni interne, capace di farne un'eccezione rispetto alle leggi generali di sviluppo del Capitale. Venne infatti originariamente teorizzato da Jay Lovestone, segretario generale del Partito Comunista degli Stati Uniti espulso per decisione del Comintern nel 1929 e finito a fare da spia e agente provocatore anti-comunista per conto della CIA in seno al movimento sindacale. Una dimostrazione, questa, dell'abilità sincretica tipica dei sistemi di potere di successo nella costruzione della loro fisionomia e della loro presa egemonica sulle masse. Una prova di abilità sul terreno ideologico ma, va da sé, anche una colossale, spudorata e fragile menzogna che già parecchie volte la Storia reale degli Stati Uniti e dell'accanita lotta di classe di cui da sempre essi sono teatro si è incaricata di smentire. Un ammonimento, in ultimo, circa la fine che di solito fanno coloro che abdicano alla funzione rivoluzionaria che contraddistingue i comunisti, avendo la pretesa di celare quella rinuncia dietro una fittizia pertinenza scientifica.

L'importanza delle considerazioni preliminari che introducono questo contributo appare evidente se si considera il modo confuso, pregiudiziale o rozzamente polemico in cui molta parte della sinistra "radicale" europea, e in particolare italiana, puntualmente accoglie le esplosioni conflittuali che hanno caratterizzato ripetutamente l'ultimo decennio oltre oceano. In Italia, il periodo in oggetto s'identifica con quello dell'affermarsi a sinistra della divaricazione statica tra una tendenza filo-atlantica, di marca esplicitamente opportunista e pienamente post-moderna, che tende a ridurre qualunque fenomeno conflittuale a manifestazione di pulsioni elementari scaturite dalla rivolta delle coscienze individuali - dunque negandone ogni carattere di classe e ogni prospettiva rivoluzionaria - e una tendenza "geopoliticista", che si vorrebbe radicale, rivoluzionaria e autenticamente leninista ma che altro non rappresenta se non una degenerazione sub-culturale della logica dei campi ereditata dalla Guerra Fredda, maturata attraverso un vaglio acritico e totalmente antidialettico, che avendo rinunciato a leggere i fenomeni internazionali dal punto di vista del carattere globale del conflitto capitale-lavoro, finisce per arroccarsi su posizioni esplicitamente reazionarie. Reazionarie - occorre sottolinearlo - perché il marxismo insegna come proprio ai picchi di sviluppo delle forze produttive, proprio lì dove il capitalismo conduce al più alto livello la socializzazione della produzione di ricchezza, più acuto si fa il conflitto generato dal carattere privato dell'accumulazione e più definito e frontale diviene lo scontro di classe. Attendersi dal conflitto "geopolitico" tra Stati la soluzione alle contraddizioni fondamentali della nostra epoca, attribuendo al sorgere di un mondo multipolare un intrinseco contenuto di liberazione umana indipendente dai rapporti di classe interni a ogni singolo Stato significa, né più né meno, scadere in una visione etica dello Stato, in aperta opposizione tanto con la teoria rivoluzionaria, quanto con le lezioni empiricamente desumibili in questo senso dalla Storia.

Se invece si guarda agli Stati Uniti in questa fase del loro sviluppo con le lenti dell'interpretazione scientifica del conflitto sociale, non si può che riconoscervi il delinearsi di condizioni - tanto oggettive quanto soggettive - assai favorevoli per il sorgere di un'alternativa radicale allo stato di cose presente. Un'alternativa ancora tutta da costruire sul piano politico, dai lineamenti incerti, ma la cui necessità non cessa di manifestarsi nel contesto creato dalla ferocia con cui la crisi economica colpisce e porta al rapido declino le condizioni di vita dei settori popolari. Un'alternativa oggetto della ricerca disordinata, confusa ma costante di masse crescenti di lavoratrici e lavoratori, di una gioventù irrequieta che lotta per liberarsi da pregiudizi antistorici e odi atavici, di nazionalità oppresse che sperimentano sulle proprie vive carni la violenza omicida di un apparato repressivo senza eguali al mondo, ma la cui stessa estensione costituisce una denuncia e una prova evidente dell'incapacità della stantia mitologia del "modo di vita" e del "sogno" americani di distrarre gli oppressi dai rigori del capitalismo reale.

Gli Stati Uniti dei due milioni e mezzo di carcerati, dei duemilaottocento condannati alla pena capitale, delle migliaia di migranti ammazzati alla frontiera messicana e delle centinaia di neri, latini e appartenenti ad altre nazionalità uccisi ogni anno da una brutalità poliziesca senza freni. Gli Stati Uniti della deindustrializzazione che spopola città un tempo floride per lasciare agli abitanti superstiti la disperazione come unico capitale. Gli Stati Uniti che soffocano sotto il tallone dell'oppressione coloniale Portorico, una patria negata che ha ormai più figlie e figli fuori dalle proprie frontiere che dentro e il cui movimento indipendentista esprime diffusamente caratteri di radicalismo e suggestioni rivoluzionarie. Gli Stati Uniti che generalizzano la guerra su scala planetaria e spendono cifre astronomiche in armamenti mentre organizzano l'estorsione del profitto dalla fame, dalla malattia e dalla sofferenza che dilagano nelle strade dei loro ghetti disperati. Questi Stati Uniti stanno recuperando la coscienza perduta e si riscuotono a ondate nelle battaglie di avanguardie di anno in anno più nutrite che sempre più spesso riescono a intercettare e guidare masse disposte alla lotta per difendere se stesse, per pretendere condizioni di vita migliori, per riprendersi un pezzo di quell'ordito complesso di comunità e di vite rappresentato dalla Storia della lotta contro l'oppressione in quella parte del mondo.

E non vale a confutare questo punto di vista l'evocazione della crescita parallela delle organizzazioni di estrema destra, della xenofobia e del razzismo, fenomeno tipico delle società in crisi. Così come non è valsa a contenere il complesso processo in atto la stanca rappresentazione delle elezioni presidenziali del 2016: se in campo democratico Hillary Clinton ha stentato a imporsi - probabilmente riuscendoci con la frode - contro Bernie Sanders perché questi, seppure riconducendoli nel solco del finto bipartitismo di regime, con la sua evocazione di una società egualitaria e solidale ha saputo farsi sintomo dei fermenti che montano dal cuore dell'America, la vittoria di Donald Trump ha rappresentato per il governo permanente e per i settori dominanti della società la manifestazione di un incubo. E non perché Trump rappresentasse, come alcuni s'illudono, un elemento di rottura con la politica d'intervento armato della superpotenza nel mondo: la favoletta degli "isolazionisti" di destra capaci di alterare gli assi strategici della politica di una nazione dalle gerarchie complesse, stratificate e poderose come gli USA, ha regalato solo un abbaglio fugace ai post-marxisti innamorati della geopolitica, prima che il nuovo presidente si riallineasse in tutto e per tutto alla politica estera dei predecessori. L'elezione di Trump ha manifestato, agli occhi di chi domina la società statunitense, l'incubo dell'affermarsi alla guida delle istituzioni di un elemento a tal punto anti-egemonico, disgregante, squalificante e inabile a riconciliare in nome dell'ideologia tradizionale le molte istanze conflittuali che agitano il paese, da fare da catalizzatore e da elemento unificante del dissenso e da fornire un nesso immediato capace di saldare le avanguardie più radicali e il malcontento montante tra i settori proletari più poveri ed emarginati con le generiche aspirazioni di giustizia e le inquietudini della classe media sensibile a istanze progressiste, contribuendo a delineare nei fatti e per opposizione un possibile blocco sociale antagonista. La contraddizione rappresentata da Trump e dal suo gabinetto di miliardari anti-ecologisti, reazionari e razzisti, mette in seria discussione la capacità di istituzioni già da tempo in crisi di ricondurre a unità le spinte disgreganti che maturano dal corpo sociale: lo iato che il nuovo governo incarna e accresce tra società politica e società civile agisce da moltiplicatore dello scontro e costringe gli apparati burocratici e il bipartitismo tradizionale a un'affannosa corsa ai ripari che danneggia l'illusione d'inalterabilità di cui essi si ammantano.

È in questo quadro che hanno preso forma gli eventi delle ultime settimane. È con questa lente che riteniamo vadano lette le mobilitazioni che scuotono l'America e che affondano le loro radici recondite in passaggi di grande rilevanza maturati sotto la presidenza Obama, da Occupy Wall Street a Black Lives Matter e le rivolte nere contro la violenza poliziesca, sino alle diffuse e crescenti manifestazioni contro il militarismo e la guerra, non a caso represse a più riprese da polizie statali e FBI. Gioverà a questo punto ricostruire la scansione temporale degli eventi in analisi.

Lo scorso 12 agosto a Charlottesville, in Virginia, la frammentata ma numerosa destra suprematista bianca si è data appuntamento per protestare contro la rimozione di un monumento dedicato al Generale Lee, capo delle truppe del sud schiavista durante la Guerra civile. In risposta a ciò, migliaia di antifascisti e sinceri democratici sono confluiti in città per dar vita a una risposta di massa che respingesse nazisti e Ku Klux Klan. Nel pieno degli scontri che sono seguiti e che hanno visto il poderoso corteo antifascista scontrarsi con i suprematisti difesi dalla polizia, un militante di estrema destra si è scagliato a bordo di un'auto contro i manifestanti inermi, uccidendo la trentaduenne Heather Heyer e ferendo altre diciannove persone. Il clima di tensione seguito all'attacco terroristico è stato esasperato dal ripugnante tentativo di Trump, i cui legami con l'estrema destra sono cosa nota, di ridurre la gravità dell'accaduto al logoro schema ideologico dello scontro tra opposti estremismi e della stigmatizzazione della violenza da entrambi i lati. Mentre la grancassa mediatica faceva da megafono agli appelli ipocriti dei due partiti di potere a cessare le violenze e mentre le istituzioni dello Stato si affannavano a porre rimedio al grave errore commesso da Trump - più volte tornato in prima persona sulla vicenda nell'impossibile intento di tenersi in equilibrio tra la necessità di assecondare lo sdegno crescente dell'opinione pubblica contro l'estremismo di destra e la volontà di conservare il sostegno di quest'ultimo - la protesta si estendeva per il paese e si radicalizzava.

Il 14 agosto a Durham, nella Carolina del Nord, nel corso di un concentramento nel campus cittadino, i militanti comunisti del Workers World Party (leggi l’intervista al responsabile esteri del WWP) abbattevano un monumento dedicato alle truppe sudiste della Guerra civile, eretto nel 1924 dal governo segregazionista del tempo, al grido di: "No Trump, no KKK, no racist USA", lo slogan simbolo della mobilitazione in tutto il paese. La compagna Takiyah Thompson, alla guida della dimostrazione, veniva arrestata immediatamente dopo e rilasciata nel giro di poche ore: sul suo capo pendono ora pesanti accuse e dovrà affrontare un processo penale. La stessa sorte è toccata ad altri compagni presenti al momento dell'abbattimento della statua. Nei giorni successivi le manifestazioni sono continuate, sempre più forti e partecipate, investendo molte delle principali città dell'Unione e mobilitando decine di migliaia di dimostranti, in un clima di crescente sostegno popolare che ha indotto Trump, il 18 agosto, a licenziare dal proprio staff l'ideologo di ultra-destra Steve Bannon, mentre interi pezzi della sua amministrazione - basti citare i membri della commissione presidenziale per l'arte e la cultura - rassegnavano le dimissioni per "dissociarsi dalla falsa equiparazione tra suprematisti bianchi e antirazzisti" operata dal presidente. Mentre scriviamo, le proteste sono ancora in corso.

Come dobbiamo valutare, noi osservatori internazionalisti, gli eventi degli ultimi giorni? Certamente occorre evitare di dare per acquisito quello che ancora è di là da venire e che le lotte di questi giorni non fanno che prefigurare: il saldarsi di un blocco sociale di opposizione disposto a mettere organicamente in discussione lo stato di cose presente al di là della figura di Trump e dell'opposizione all'estrema destra. Un simile risultato non è ancora a portata di mano, sebbene ne esistano già molte delle condizioni, e l'opera politica necessaria per conseguirlo impone alla sinistra statunitense, in crescita malgrado le divisioni programmatiche e le distanze territoriali, una rapida maturazione. I segnali in questo senso non mancano e si moltiplicano ormai da anni, ma per riuscire a fronteggiare a tutto campo la spaventosa capacità repressiva degli apparati spionistici e di polizia su cui il governo federale e i singoli Stati possono contare, sarà necessario uno sforzo unitario e di sintesi di vasta portata. Il lavoro in questo senso è già in corso, ma non ha ancora dato i suoi frutti, e in gran parte anticipa l'opera di più ampio respiro da svolgere nella società: unificarne e disciplinarne i settori più avanzati in una nazione-continente, a dispetto delle differenze nazionali e razziali che le classi dominanti, da sempre, non hanno fatto che rinfocolare e strumentalizzare. L'antico slogan del movimento operaio Black and White, unite and fight! conserva dunque tutta la sua profonda validità. Dal conseguimento di questi obiettivi al sorgere di un'organica alternativa politica, poi, il passo sarà ancora lungo e difficile.

Il rischio di una sopravvalutazione degli eventi appare tuttavia remoto. La tendenza in atto tra le nostre fila è, al contrario, quella d'ignorare, minimizzare o addirittura denigrare apertamente i fatti di questi giorni. E ciò per evitare di prendere atto delle possibilità che si aprono nei paesi a capitalismo avanzato in questa fase di crisi e dunque di fare i conti con la crescente inadeguatezza tanto della risposta di massa quanto - e soprattutto - degli elementi che si vorrebbero d'avanguardia nel nostro paese. La scappatoia più comune è quella di riporre le speranze di un futuro migliore nello svilupparsi del conflitto letto geopoliticamente (e dunque, lo ripetiamo, in chiave antimarxista) tra blocco imperialista atlantico e potenze emergenti. Ciò rappresenta, in ultima istanza, la resa definitiva da parte di chi ha interiorizzato la propria sconfitta e la convinzione che i popoli non possano emergere come protagonisti della Storia: spostando i termini della contesa verso un orizzonte ampio e lontano, frustrazione e senso d'inadeguatezza vengono placati e la marginalità cui siamo ridotti ne risulta giustificata. Una tentazione ampiamente diffusa, per anni incoraggiata ad arte dall'insinuante lavorio egemonico del cosiddetto "rossobrunismo" di matrice fascista, che incontra però un ostacolo nel manifestarsi del conflitto sociale agito politicamente proprio nel cuore dell'Impero. Per molti distogliere lo sguardo, dileggiare, o nei casi più deliranti adombrare complotti (contribuendo a diffondere il mito dell'onnipotenza di Soros e dell'invincibilità del Capitale), è l'unico espediente per ovviare alla contraddizione tra una visione fallace del mondo e la confutazione che di questa offre la lotta di classe reale.

Noi comunisti italiani abbiamo invece qualcosa da imparare dai nostri compagni statunitensi. È nostro dovere recuperare, osservando il loro esempio, la consapevolezza di come collettivi organizzati e disciplinati, anche quando di piccole dimensioni, grazie alla teoria rivoluzionaria possano interpretare correttamente le contraddizioni che si aprono in seno alla società in un dato passaggio, per un momento anche breve, e intervenire per lavorare politicamente su quelle contraddizioni ed elevare il livello della propria azione, conquistando un protagonismo superiore e proponendosi come prima linea in una battaglia scaturita dal seno stesso della società e sentita dagli elementi più sensibili della classe di riferimento come urgente e necessaria. Il vero rivoluzionario non si limita a fare agitazione e ad andare "contro corrente" nella speranza che la sua predicazione converta le masse alla causa: il suo compito è intervenire nei conflitti reali, ad essi offrire un sbocco politico e su quella base costruire una coscienza nuova e più avanzata, senza scoraggiarsi se la sensibilità politica delle masse in movimento non corrisponde appieno a obiettivi d'avanguardia. È questo che i comunisti autentici, negli USA, fanno da tempo e non c'è dubbio che i fatti di questi giorni portino anche il segno profondo della loro opera instancabile.

Occorre sviluppare una rinnovata consapevolezza dell'imprescindibilità strategica, per tutto il movimento di liberazione su scala mondiale, che nel cuore della "metropoli imperialista" crescano spinte conflittuali e pulsioni trasformatrici dell'esistente orientate e guidate da organizzazioni rivoluzionarie capaci di coniugare rigore strategico e intelligenza tattica. È questo l'unico vero aiuto che, dagli Stati Uniti come dall'Italia, possiamo offrire ai popoli in rivolta dei paesi che già stanno cercando la via per l'indipendenza nazionale e il socialismo, confrontandosi con il vertiginoso squilibrio economico, tecnologico e militare maturato nel corso dei decenni in favore delle potenze imperialiste: essere capaci d'interpretare le aspirazioni dei nostri popoli e farne l'elemento dirompente che esse già in potenza rappresentano. Una lezione, questa, assai viva nella sinistra statunitense, legata per origine e per composizione ai popoli di tutto il mondo dal nesso permanente rappresentato tanto dalla memoria storica della deportazione degli schiavi, presentissima nelle comunità nere, quanto dal flusso ininterrotto di migranti provenienti dagli angoli della terra più afflitti dalla miseria e dall'oppressione neocoloniale.

Da Charlottesville a Durham, gli Stati Uniti consegnano oggi a noi tutti un messaggio d'inestimabile valore: a dispetto delle difficoltà e contro qualunque apparato repressivo, le contraddizioni profonde della società in putrefazione in cui viviamo aprono di continuo la via del cambiamento. Fare in modo che la nostra classe la imbocchi è compito nostro e conferisce un significato profondo alle azioni minute della nostra militanza quotidiana. Al sacrificio di Heater Hayer e al coraggio di Takiyah Thompson dobbiamo essere riconoscenti per averci rinnovato il dono meraviglioso di poter guardare avanti armati di fiducia nel futuro.

26/08/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Alessio Arena

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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