Cosa sta realmente succedendo in Medio Oriente

Le gravi provocazioni di Trump rischiano di far esplodere un conflitto in Medio Oriente di dimensioni catastrofiche


Cosa sta realmente succedendo in Medio Oriente Credits: https://www.avvenire.it/mondo/pagine/attacco-aeroporto-baghdad-ucciso-il-generale-iraniano-soleimani

L’escalation militare lanciata da Trump in Medio Oriente e culminata nell’assassinio con i droni del comandante in capo delle forze armate iraniane, principale stratega della dissoluzione dello Stato islamico in Iraq e Siria, deve essere interpretata, dialetticamente, come un segnale di forza e di debolezza.
Di forza, in quanto con questa escalation gli USA non solo riaffermano di essere l’unica superpotenza militare a livello mondiale, ma consolidano il proprio dominio globale, dimostrando di poter assassinare, arbitrariamente, senza una guerra in corso, in un paese terzo, il secondo uomo più potente e popolare dell’Iran e fra i più stimati comandanti della resistenza sciita contro le forze imperialiste. In tal modo il comandante in capo degli Stati Uniti si erge a despota su un piano universale, dimostrando di poter decidere in modo arbitrario, senza nemmeno un mandato del Congresso, chi debba essere assassinato, in aperto spregio di ogni diritto e convenzione internazionale. Il fatto che arrivi ad assassinare, con un’azione sostanzialmente terrorista, il comandante in capo delle forze avversarie, con cui non è in atto una guerra, rappresenta la palese violazione di una delle regole non scritte fondamentali su cui si fondano i rapporti anche fra le nazioni più ostili. In effetti, è relativamente semplice colpire con un attacco improvviso un comandante militare che, svolgendo le proprie funzioni in un momento di non belligeranza, sbarca all’aeroporto di Bagdad per incontrare le più alte autorità di quel paese, per cercare di trovare una soluzione pacifica al terribile conflitto in atto in Medio Oriente.
Dunque, la dimostrazione superomistica di poter imporre a livello internazionale, colpendo con un attentato un proprio avversario, significa porre la propria arbitraria volontà di potenza al di sopra non solo di ogni regola del diritto internazionale, ma di ogni norma etica e morale. Questa escalation è volta a dimostrare che Trump può assassinare, dove, quando e come vuole un avversario politico, per quanto di rango elevato e molto popolare.

In questo modo gli Stati Uniti intendono riaffermare la loro pretesa di porsi al di sopra di ogni legge e convenzione internazionale. Per altro gli Stati uniti, mentre non riconoscono alcuna competenza al Tribunale internazionale – in quanto pretendono di essere al di sopra di ogni regola – si arrogano il diritto di stabilire, in modo unilaterale e arbitrario, chi giudicare terrorista e, quindi, assassinabile in ogni momento.

Un tale modo di agire ha proprio la funzione di terrorizzare i popoli e le nazioni che si considerano nemiche dimostrando di poterle colpire, al di là di ogni regola, senza che nessuno possa osare ristabilire un minimo di giustizia.

Al solito dietro queste motivazioni sovrastrutturali si celano ragioni strutturali, che consentono di comprendere questo modo di agire, a tal punto arbitrario da apparire irrazionale. Senza nulla togliere al dato di fatto che Trump sia un provocatore – per quanto dotato dal sistema presidenzialista del suo paese di un potere sproporzionato – non potrebbe compiere delle provocazioni del genere, se non fossero funzionali a delle ragioni di ordine economico-sociale.

Ora, come è noto, da diversi anni gli USA consumano molto più di quanto producono. La loro bilancia commerciale è costantemente in rosso e hanno accumulato il più ingente debito pubblico della storia. Dal momento che, dal punto di vista economico, gli Stati Uniti non appaiono in grado di garantire i propri creditori rispetto ai debiti che contraggono e che continuano ad accumularsi, debbono dimostrare di essere solvibili grazie allo strapotere militare che gli consente di rovesciare, con le buone o le cattive, i governi dei Paesi che non sottostanno ai loro interessi economici e, nel caso tale tattica non fosse sufficiente, di conquistare le fonti energetiche, le materie prime e le fette di mercato in cui investire i propri capitali sovrapprodotti.

Per altro, nonostante l’enorme debito pubblico, gli Stati uniti restano di gran lunga il paese che più investe in armamenti e se queste spese sono fra le principali contromisure per contrastare la caduta tendenziale del tasso di profitto, anche le merci armi, se non sono utilizzate, rischiano di essere sovrapprodotte. Per cui, oltre a fornire le proprie armi per le aggressioni militari dei propri alleati, a partire dalle petromonarchie, gli Stati Uniti stessi debbono impiegarle in prima persona, anche per testarle e dimostrarne l’affidabilità.

Dunque gli Stati uniti, per poter continuare a consumare molto più di quanto producono, per continuare ad avere una bilancia economica in un passivo sempre più spaventoso, hanno l’assoluto bisogno di imporre il signoraggio della loro moneta a livello internazionale.

Se il dollaro non fosse la valuta quasi esclusivamente utilizzata per gli scambi sul mercato internazionale, in particolare per l’acquisto delle fondamentali fonti energetiche, gli USA non potrebbero continuare a importare molto più di quanto esportano. Né potrebbero mantenere l’egemonia sulle proprie classi dominate, sempre più povere in termini relativi, ma che hanno la possibilità di continuare a permettersi un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità, proseguendo a indebitarsi. Senza contare che il costante finanziamento del settore militare consente di mantenere a livelli sempre piuttosto bassi la disoccupazione. D’altra parte, il credito di cui continuano a godere gli Stati Uniti sul piano internazionale dipende proprio dal loro strapotere militare, che gli consente di rovesciare governi o di invadere Paesi che provano a trovare dei sostituti al dollaro come mezzo di scambio dominante sul mercato internazionale.

Per altro, dietro le guerre in Medio Oriente e gli accordi tattici, più o meno diretti, con il terrorismo fondamentalista internazionale, vi è la “necessità” degli Stati Uniti di garantire i creditori presenti e futuri, dimostrando la propria capacità, di controllare, con le buone o con le cattive, le principali fonti energetiche a livello internazionale.

Così, anche dietro la più recente escalation in Medio Oriente vi è la volontà degli Stati Uniti di mantenere il controllo sulle principali risorse energetiche di Siria e Iraq, anche nel momento in cui è venuta meno la scusa di dover contrastare il terrorismo islamico. In effetti, l’escalation contro le milizie sciite ha avuto come causa immediata la “necessità” di ribadire che gli Stati uniti non intendono, in nessun modo, rinunciare al controllo diretto o indiretto di alcune delle principali fonti energetiche di questi paesi, continuando così a condizionarne le politiche interne e giustificando gli ampi dispiegamenti militari.

D’altra parte, questa escalation è stata resa possibile dalla relativa impopolarità delle milizie della resistenza sciita – le principali protagoniste della sconfitta del terrorismo islamico internazionale e della parziale battuta d’arresto delle potenze imperialiste. Tali vittorie, per quanto decisive, sono costate moltissimo alla popolazione civile, alla quale non è possibile imporre in eterno lo stato d’eccezione richiesto dalle operazioni militari. Non a caso, il momento stesso in cui l’imminente pericolo di espansione dello Stato Islamico e delle potenze imperialiste è venuto meno ha coinciso con il sorgere in Libano, Iraq e Iran di significativi movimenti popolari che chiedono di farla finita con questo stato d’eccezione.

Sebbene il principale responsabile dello stato d’eccezione siano le potenze imperialiste, questo non appare immediatamente chiaro a una parte significativa delle masse popolari che – in modo più o meno spontaneo – si sono mobilitate. Esse tendono a confondere l’effetto con la causa, ovvero a ritenere responsabili della necessaria limitazione della democrazia e delle spese sociali proprio le forze della resistenza.

Se proprio tali mobilitazioni per la loro miopia hanno favorito la mossa scomposta e azzardata degli Stati Uniti di Trump, paradossalmente un’azione di prevaricazione neocolonialista così aperta non può che indebolire le forze che chiedevano la fine dello stato d’eccezione, reso necessario dalla lotta al fondamentalismo e all’imperialismo.

Così si è passati da grandi manifestazioni, in generale ostili alle milizie della resistenza sciita, a grandi mobilitazioni sostanzialmente in loro favore, contro l’imperialismo statunitense, tornato a essere anche nei settori popolari privi di coscienza di classe il principale nemico. Tanto è vero che se sulla spinta delle mobilitazioni popolari le forze politiche irachene sembravano preoccuparsi di limitare il più possibile il ruolo dell’Iran, principale sostegno delle milizie della resistenza sciita, ora la principale potenza straniera da bandire dal proprio territorio tornano a essere gli USA.

Ora si tratta di capire quanto le forze iraniane e le milizie sciite saranno in grado di dare una direzione consapevole a questa spontanea ondata di mobilitazione antimperialista, per costringere sulla base di sempre più ampie e radicali mobilitazioni popolari le potenze imperialiste a ritirarsi o se, al contrario, prevarrà l’ala più avventurista pronta a cadere nella provocazione statunitense, offrendo agli USA la possibilità di rilanciare l’ennesima aggressione imperialista in Medio Oriente. Dovrebbe essere chiaro alle forze autenticamente antimperialiste che lo strapotere dell’imperialismo statunitense non si può, almeno nel breve e medio periodo, sconfiggere in uno scontro militare in campo aperto. Al contrario, soltanto con una sempre più ampia e radicale mobilitazione popolare, che sappia nel caso di aperta aggressione imperialista rispondere con una guerra popolare di resistenza, sarebbe possibile dare una nuova lezione alla protervia imperialista.

Per altro essenziale, per le forze della resistenza, è non cadere nella provocazione ordita da Trump, perché in tal modo verrebbe immediatamente meno il dissenso che si è creato contro il presidente nel suo stesso paese, come verrebbe meno la posizione almeno apparentemente pacifista dell’imperialismo europeo che, come spesso avviene, preferisce interpretare il ruolo del poliziotto buono. Una reazione scomposta, sullo stesso piano del terrorismo utilizzato da Trump, finirebbe per fare il suo gioco, costringendo sia l’opposizione interna, sia le potenze imperialiste europee a schierarsi dalla parte dell’occidente contro le forze dell’islamismo radicale, di nuovo tacciabile di rendere necessaria la guerra al terrore.

Al momento, la risposta iraniana con un lancio di missili sulle basi statunitensi in Iraq, avvisando prima gli iracheni, non ha provocato vittime e non ha offerto a Trump la possibilità di continuare la sua provocatoria escalation. D’altra parte, la paura per un attacco statunitense ha portato ad abbattere involontariamente un aereo di linea ucraino. Se ne può trarre la conclusione che l’Iran e più in generale le forze della resistenza sciita debbono, per quanto possibile, evitare di utilizzare gli strumenti imposti dalle provocazioni statunitensi. Altrimenti, davanti all’opinione pubblica internazionale rischiano di passare dalla parte della ragione alla parte del torto.

11/01/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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