L'economia dello scongiuro

I media, Renzi e il suo ministro del lavoro Poletti si attaccano allo 0,1 per cento in meno di disoccupazione registrato tra la fine del 2014 e l'inizio del nuovo anno, ma non commentano l'aumento del debito pubblico sino alla soglia del 132,1 per cento e il calo dello 0,4 del Pil. Anche Marchionne si avventura a preventivare più assunzioni a Melfi, tanto per ora non deve pagare. Nella rinuncia a qualsiasi politica industriale si opta per l'ottimismo forsennato, sperando che questo serva a far riprendere gli investimenti.


L'economia dello scongiuro

 

I media, Renzi e il suo ministro del lavoro Poletti si attaccano allo 0,1 per cento in meno di disoccupazione registrato tra la fine del 2014 e l'inizio del nuovo anno, ma non commentano l'aumento del debito pubblico sino alla soglia del 132,1 per cento e il calo dello 0,4 del Pil. Anche Marchionne si avventura a preventivare più assunzioni a Melfi, tanto per ora non deve pagare. Nella rinuncia a qualsiasi politica industriale si opta per l'ottimismo forsennato, sperando che questo serva a far riprendere gli investimenti.

di Stefano Paterna

Ci fu un tempo in cui prevaleva l'ambizione di dominare la vita economica o almeno di governarla; a quell'ambizione corrisposero gli strumenti della pianificazione o, in subordine, della programmazione. Venne un'epoca selvaggia in cui ci si affidò agli “spiriti animali” della società e  sulla piazza del libero mercato risuonò possente il grido: “Arricchitevi!”.

In questi giorni, si deve essere entrati nella fase dell'economia dello scongiuro, contrassegnata dai tweet di Renzi e dalle acclamazioni ottimistico-emiliane del ministro del Lavoro Giuliano Poletti. 

Di fatto, di scongiuri si tratta e non di previsioni, quando ci si scomoda per commentare con soddisfazione il calo di uno 0,1 per cento della disoccupazione tra dicembre 2014 e gennaio 2015, che ora si ferma a quota 12,6 per cento. Ma si dirà: Renzi si riferiva all'aumento di 130mila occupati su base annua rispetto al gennaio del 2014. Tuttavia, lo scorso anno (sarà consentito dirlo con una punta di indignazione?), secondo i dati forniti dall'Istat, è stato il peggiore dal '77 per quanto riguarda la disoccupazione, arrivata al 12,7 per cento. Prima o poi per forza d'inerzia qualche miglioramento doveva pur arrivare. O si pensava di sfondare il famoso barile?

Ma non solo Renzi il giovane e il suo ministro del lavoro hanno profuso ottimismo; da giorni sui media borghesi è un susseguirsi di espressioni di soddisfazione, di incitamenti alla fiducia del tipo “il peggio è ormai alle spalle”. Lo stesso Marchionne si è avventuarato ad affermare che le assunzioni a Melfi potrebbero arrivare a 1900 dalle 1500 programmate. Tanto per ora i 400 in più non li si deve pagare!

È comprensibile che dopo aver abrogato l'articolo 18, le classi dirigenti politiche ed economiche di questo paese siano in preda all'euforia, tuttavia bisognerebbe che lo stato d'animo sia un poco più fondato sui fatti e un po' meno sulle aspettative.

Anche perché l'Istat in realtà di dati ne ha forniti anche altri: il debito pubblico tra il 2013 e il 2014 è aumentato passando dal 128,5 per cento al 132,1 per cento sul Pil (quota massima dal 1995 e più di quanto programmato dal governo del giovin signore fiorentino); appunto il Prodotto interno lordo nello stesso periodo è calato dello 0,4; la pressione fiscale è aumentata (e in Italia si sa chi paga le tasse) dal 43,4 al 43,5; sono diminuiti del 3,3 per cento gli investimenti fissi lordi. 

Uno scricchiolio sinistro viene anche dalle grandi imprese: a detta dell'Istat nel dicembre 2014 in questo settore l'occupazione è diminuita dello 0,4 per cento, al netto dei dipendenti in Cassa integrazione, rispetto allo stesso mese del 2013. Un dato particolarmente inquietante, perché nonostante la retorica sulle virtù delle piccole aziende nostrane, è sulle grandi imprese che si compete per migliorare le proprie posizioni nella divisone internazionale del lavoro.

Più di tre milioni e 200mila persone rimangono in stato di disoccupazione. A tutti questi cittadini non si ha uno straccio di progetto da proporre se non più precarietà e meno diritti sino alla soglia del lavoro gratuito come nel modello Expò. A pensarci bene l'ottimismo forsennato nei commenti governativi è l'unica risorsa che rimane in mano a chi ha rinunciato a qualsiasi tipo di politica industriale, abdicando alla propria funzione per sposare in pieno l'agenda di Confindustria e di Bruxelles: a questo punto non resta che blandire i nostri svogliati capitani d'industria con la prosa e la lirica sulle aspettative più rosee. 

Per sé il governo riserva il ruolo di Ricciotto, il domestico del Marchese del Grillo che comunicava la possibilità di riprendere l'attività a chi lavorava intorno al palazzo nobiliare, gridando: “S'è svejato!”. 

 

05/03/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Stefano Paterna

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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