L’importanza della battaglia referendaria l’8 e il 9 giugno

Una vittoria ai referendum dell’8 e 9 giugno su lavoro e cittadinanza  potrebbe accrescere la fiducia della classe lavoratrice nelle possibilità di cambiamento. Per questo è fondamentale rompere il silenzio mediatico e vincere questa battaglia per invertire i rapporti di forza


L’importanza della battaglia referendaria l’8 e il 9 giugno

L’unica battaglia persa è quella che non si combatte. Lo diciamo con franchezza; non sarà facile raggiungere il quorum nei 5 quesiti referendari proposti dalla CGIL e da altre organizzazioni, ma non impossibile: chi, come noi, li sostiene convintamente, si trova contro un potentissimo apparato burocratico e informativo che sta facendo di tutto, con tutti i mezzi possibili, per evitare che i quesiti esposti nei referendum vengano del tutto silenziati, che non se ne parli, che l’opinione pubblica non sia informata e, quindi, non si confronti su tematiche importantissime del nostro vivere quotidiano: 1) il diritto di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, 2) le restrizioni dei diritti d’indennizzo in caso di licenziamento nel sistema delle piccole imprese, 3) la riduzione dei tempi richiesti per ottenere la cittadinanza, 4) la limitazione nella reiterazione dei contratti a tempo determinato, 5) l’inclusione della responsabilità della ditta appaltante (quindi non solo dell’azienda che riceve l’appalto) nel caso di infortuni sul lavoro. 

Si possono fare delle critiche rispetto alla modalità con cui sono stati costruiti questi referendum e sugli slogan con cui la CGIL ha lanciato la campagna referendaria “la rivoluzione nel voto” così come si può anche sottilizzare sul fatto che, senza un forte percorso di mobilitazione nei posti di lavoro è più difficile ottenere l’agognato risultato referendario. Tutto legittimo; tuttavia, chi si sofferma troppo su queste obiezioni non coglie il dato essenziale: i referendum pongono una questione importantissima da un punto di vista legale: invertire la tendenza in atto, sostenuta a spada tratta dalla classe dominante in questi anni, di mortificare i diritti dei lavoratori, di favorire i licenziamenti facili, di estendere all’infinito la reiterazione dei contratti precari, di mantenere la popolazione immigrata in una condizione di subalternità giuridica che la rende ancora più ricattabile sui posti di lavoro. Se riflettiamo sull’attacco che i lavoratori hanno subito con il Job act (Governo Renzi) e con le leggi imposte dal Governo Meloni (non dimentichiamo che nel DDL Lavoro del Governo Meloni sono state reintrodotte le dimissioni in bianco dei lavoratori che non sono altro che licenziamenti mascherati da dimissioni) ci possiamo rendere conto del fatto che l’attacco del fronte padronale sul lavoro con il Governo Meloni si è ancora più intensificato di quanto non lo fosse stato in precedenza. I referendum nascono proprio come risposta a quest’attacco che, già dai governi precedenti, ma in particolare con il Governo Meloni, ha raggiunto dimensioni ancora più accentuate. 

Cosa sostengono i referendum: detto in una formula sintetica, né più né meno che un ripristino di condizioni minime di agibilità dei diritti di chi lavora rispetto i padroni e padroncini che in questi ultimi anni hanno fatto il bello ed il cattivo tempo sui luoghi di lavoro. Con la complicità di una parte consistente dei sindacati? Certo, ma anche con un certo grado di passività dei lavoratori in molti settori. Da questo punto di vista i referendum abrogativi rappresentano una precondizione minima per rimettere in gioco una cornice più avanzata di legalità attraverso la quale si ridisegnano i confini stessi del conflitto sui luoghi di lavoro. Per un lavoratore salariato e dipendente, come è pensabile non condividere il principio dell’illegittimità del licenziamento senza reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa? Se ci riempiamo continuamente la bocca sul tema del precariato e sulla mancanza di diritti dei lavoratori precari, come non sostenere un referendum che propone la limitazione nella reiterazione dei contratti a tempo determinato da parte della stessa azienda nei confronti di un lavoratore? Pensiamo al significato simbolico e politico che può rappresentare un risultato di questo tipo nei settori dell’amministrazione pubblica o nella scuola. Questo significa che lo Stato eliminerà il precariato nella scuola? Certo che no. La ragioneria dello Stato cercherà di coprirsi dietro il solito paradigma dei vincoli di spesa, ma i precari della scuola avranno uno strumento importantissimo per difendere i loro diritti e tentare d’invertire la tendenza. 

L’elevatissimo numero di morti sul lavoro, in alcuni settori, ed in particolare nell’edilizia, è causato dall’intricatissima rete di appalti e subappalti che, oltre a far lievitare i costi delle opere pubbliche, riducono drasticamente le responsabilità e le spese delle ditte appaltatrici nei confronti dei lavoratori, scaricandole tutte sull’ultimo subappalto ed in maniera ancora più pesante sui lavoratori impiegati all’interno del cantiere. 

Più complesso da far passare, ma ugualmente importante, è il referendum sulla riduzione dei tempi, da parte dei lavoratori impiegati, per ottenere la cittadinanza. L’elemento importante da far capire è che gli immigrati rappresentano una componente fondamentale della classe lavoratrice. La loro ricattabilità nel lavoro, così come la loro possibilità di essere reclutati nell’economia criminale, è direttamente proporzionale, ai tempi, ai sacrifici e al pesantissimo calvario che debbono passare per ottenere la cittadinanza. Non ottenere la cittadinanza italiana significa essere ancora più ricattabili poiché la perdita del lavoro a cui è associato il permesso di soggiorno significa perdere i diritti e rischiare di essere ricacciati nel paese d’origine, quindi aumentare la pressione dei lavoratori immigrati sull’intera classe dei lavoratori. Oltre che disumana, la restrizione eccessiva dei tempi per ottenere la cittadinanza, aumenta la pressione degli immigrati sui lavoratori e favorisce l’accrescimento di una parte della manodopera per le organizzazioni criminali. 

Il Governo Meloni, oltre ad essere, come altri Governi, anche di schieramento diverso, espressione degli interessi della Confindustria, riceve una parte consistente del suo consenso, da una parte di quel mondo delle piccole imprese che per reggere la concorrenza, a volte, fa pressione per ottenere una legislazione sul lavoro ancora più arretrata rispetto a quella che riescono a sopportare delle aziende con dimensioni e forme organizzative relativamente più efficienti. Sintetizzando gli interessi di Confindustria con una parte ancora più retriva dell’imprenditoria italiana, l’attacco sui diritti dei lavoratori è stato ancora più feroce dei governi precedenti, giungendo, addirittura al modello delle dimissioni in bianco. Sono questi i gruppi d’interesse che vanno contrastati con maggiore determinazione e che faranno di tutto per ostacolare la discussione – quindi l’esito della votazione nel referendum del 8 e 9 Giugno. Non tutta la piccola borghesia, tuttavia, sarà contraria a questo referendum. Ci sono molti piccoli imprenditori che hanno figli che pagano sulla propria pelle le pesantissime condizioni di precariato nelle quali sono costretti a lavorare. Per quanto riguarda, poi, i lavoratori precari e i lavoratori dipendenti – che poi rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione di questo paese (oltre che i pensionati) il dato più significativo è aprire un dibattito, cominciare a parlare con strumenti efficaci, del problema occultato da anni, cioè del lavoro e dei diritti di chi lavora in questo paese. Se si riuscisse a parlare ad una massa consistente di italiani di questi temi e di come si possono cominciare a modificare le leggi a riguardo, sarebbe già un ottimo risultato.

Concludo il ragionamento con una questione apparentemente secondaria ma, a mio parere, ancora più rilevante di quelle trattate sin ora. La nostra rivista ha un impianto non solo sindacale ma anche, e soprattutto, comunista ed antiimperialista. Siamo estremamente sensibili ed attenti alle dinamiche internazionali, a partire dal genocidio in Palestina e alla guerra d’aggressione che la Nato continua a condurre nei confronti della Russia. Assistiamo in questi giorni ad un epilogo drammatico del genocidio in corso in Palestina, ossia al tentativo di deportazione della popolazione di Gaza dalla striscia. Noi tutti abbiamo sostenuto e sosteniamo il popolo palestinese nel suo legittimo diritto alla resistenza e sappiamo benissimo quant’è decisivo il supporto dello Stato italiano e del Governo Meloni a queste azioni feroci della Nato e del Governo Netanyahu. Su questo punto vogliamo aprire una riflessione: il modo più importante ed efficace per tentare d’impedire questi massacri, è quello d’invertire il rapporto di forza tra le classi sociali di cui sono espressione i nostri governi. Se, oltre a testimoniare il nostro legittimo dissenso verse queste brutalità, non proviamo ad invertire i rapporti di forza tra le classi sociali su cui si fonda la politica economica e la politica estera delle classi dominanti, il rischio è che la nostra sacrosanta lotta antiimperialista si riduca a testimonianza. Le masse popolari, di fronte all’impotenza, pur schifate dalla brutalità, possono cadere nell’assuefazione. La battaglia culturale e politica per il raggiungimento del quorum nel referendum andrebbe intrecciata con quella portata avanti dal movimento No Rearm for Europe in vista della manifestazione del 21 Giugno: in ogni appuntamento di mobilitazione contro la guerra bisogna sempre parlare dei referendum dell’8 e del 9 Giugno – oltre che in tutti i luoghi di lavoro – poiché una vittoria, oltre a spingere il sindacato verso una sua relativa radicalizzazione, potrebbe  accrescere la fiducia nelle possibilità di cambiamento da parte della classe lavoratrice. Non è impossibile innescare questo meccanismo virtuoso, certo è molto difficile, ma dipende da noi, dalla nostra capacità di coinvolgere più forze possibili nella partecipazione al referendum. Per farlo bisogna credere nella possibilità di riuscita e contrastare il buio mediatico in cui ci vogliono ricacciare.

09/05/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

L'Autore

Francesco Cori

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: