“L’Italia deve tornare a competere”. Una affermazione che industriali e capi di governo in questi anni continuano a mettere un po’ ovunque. Come si fa in cucina per il prezzemolo; più o meno come fa la sinistra con il suo “facciamo come…”. Fa scena, mette d’accordo (più o meno) tutti o comunque tanti. Poi ci si chiede: come? Come tornare a competere? La risposta in questi giorni viene dal presidente di Confindustria, Squinzi.
di Carmine Tomeo
Il presidente dell’associazione degli industriali la risposta ce l’ha: il contratto collettivo di lavoro “deve essere il vero motore del cambiamento”, ma affinchè possa svolgere questa funzione, “deve essere un contratto innovativo”. Qual è l’innovazione? Anche qui la risposta è quasi scontata: “a più flessibilità ed efficienza potrebbe corrispondere maggior salario”, dice Squinzi che, magnanimo (sic!) dichiara che gli industriali sono “disposti a offrire aumenti salariali in cambio, ad esempio, di maggiore flessibilità nelle mansioni”. Eccola l’innovazione del capo dei padroni italiani. La proposta, in realtà, non è nuova. È perfettamente in linea con quella lanciata da Marchionne poche settimane fa, quando in un incontro con le organizzazioni sindacali nel giorno della prima assemblea del gruppo ad Amsterdam, l’Ad di Fca aveva parlato di un contratto specifico con aumenti salariali legati agli obiettivi aziendali. In quell’occasione Marchionne aveva definito (bontà sua) questa proposta come la fine “di relazioni industriali stagnanti basate susterili contrapposizioni tra capitale e lavoro.”
Già in quell’occasione i sindacati collaborativi (mi si perdoni l’eufemismo) avevano mostrato di gradire l’idea di Marchionne; in questi giorni, quegli stessi sindacati, hanno mostrato di gradire la proposta di Squinzi. Un atteggiamento che non meraviglia affatto, ma è sempre utile ricordare a quale livello di accondiscendenza siano giunti Cisl e Uil nelle relazioni sindacali. Tanto per fare un esempio, la leader della Cisl, Annamaria Furlan, appare quasi entusiasta quando risponde che “Da subito dobbiamo iniziare a lavorare al nuovo modello: il contratto nazionale deve garantire il potere d’acquisto, quello di secondo livello territoriale e aziendale punta alla produttività”. Ovviamente anche la Uil è disposta a rivedere il modello contrattuale nei termini dettati dal padronato, mentre la Cgil si mostra cauta ma non chiude la porta in faccia agli industriali.
C’è da chiedersi, a questo punto, se il problema del nostro Paese è una scarsa produttività per cui risulta necessaria una maggiore flessibilità dei lavoratori così da condensare i tempi di lavoro (perché questo è l’obiettivo non esplicitamente dichiarato dal padronato). A leggere l’Istat si direbbe proprio di no. Secondo l’istituto nazionale di statistica in Italia “Complessivamente, nel periodo 1995-2014 la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,3%”; mentre “Nella fase più recente (2009-2014) la produttività del lavoro è cresciuta dello 0,6% medio annuo”, ben più alta della produttività del capitale, che nello stesso periodo è stata dello 0,1%. Ma i padroni preferiscono puntare su un maggiore rendimento dei lavoratori, su un più intenso sfruttamento del lavoro. In sostanza, gli industriali chiedono di “contrattare” sulla facoltà loro di spremere una maggiore quantità di lavoro per estrarre più profitto. Una soluzione assolutamente logica dal punto di vista del capitale, visto che, in un periodo di crisi (specie se prolungata come quella che stiamo vivendo), non c’è un interesse imprenditoriale ad investire, sapendo di non poter ricavare profitto dalle spese sostenute in investimenti di capitale fisso.
Una soluzione che, al contempo, rende i lavoratori molto più ricattabili dietro il falso mito della fine del conflitto tra capitale e lavoro (per dirla con Marchionne) o del fatto che così non si fa torto a nessuno (per dirla con Squinzi). Tutti felici e contenti sulla stessa barca, a sentire il padronato.
Tutti felici, tranne i lavoratori, ovviamente, che vedrebbero aumentato il grado di ricattabilità a cui sarebbero soggetti. La flessibilità che Squinzi predente dai lavoratori, infatti, è una necessità del capitale di riempire di lavoro ogni porosità del ciclo produttivo, di condensare nello stesso arco di tempo una maggiore quantità di lavoro. In sintesi, di estorcere al lavoratore una maggiore quantità di lavoro. Questa è la flessibilità che è richiesta; questa è la “cooperazione” di cui tanto spesso si parla. Il modello Marchionne, già sperimentato ed al quale Squinzi si unisce, è questo qui. E non si evince da nessuna parte che un lavoratore Fca guadagni più di un lavoratore metalmeccanico di pari livello, né che si senta gratificato dalla “cooperazione” con l’azienda. “Un operaio di terzo livello Fca-Cnh guadagna mediamente 750 euro lordi annui di meno di un suo pari livello di un’altra fabbrica metalmeccanica”, aveva affermato Landini, commentando la proposta di Marchionne.
E per chi non sarà flessibile? In quel caso c’è sempre il Jobs Act ed una serie di altri strumenti normativi che il padrone può usare per far tornare al lavoratore uno spirito di cooperazione.
P.s.: a proposto dell’accostamento iniziale tra modi di dire adatti a molte occasioni. De “L’Italia deve tornare a competere” abbiamo detto; del prezzemolo, in questo momento, non ci interessa. E allora rivolgiamoci a quelli del “facciamo come…”.
Una domanda: non sarebbe il caso di concentrarci su proposte contro l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e restituire centralità al conflitto capitale-lavoro (lo cita pure Marchionne, dovremmo farlo a maggior ragione noi), così da ridare una connotazione di classe al conflitto sociale? Non sarebbe questo un migliore utilizzo delle nostre energie (quelle che rimangono), anziché consumarle nella artificiosa costruzione di un contenitore vuoto spacciato per soggetto politico unitario?