Cerco qui di spiegare sinteticamente perché non condivido la proposta di un “nuovo soggetto politico della sinistra e dei democratici” (per usare la formulazione di Marco Revelli). Tengo presente la bozza di appello dello stesso Revelli, il contributo di Ramon Mantovani recentemente diffuso in rete e l’intervento conclusivo di Paolo Ferrero alla riunione dei segretari di circolo del centro Italia.
di Bruno Steri, CPN PRC
C’è un punto dell’intervento di Ramon che ritengo di fondamentale importanza e che condivido, ancorchè io dissenta sulla conclusione, che trovo sbagliata e, per certi versi, persino in contraddizione con la prima parte del ragionamento. Anche a me è capitato più volte di evidenziare la trappola elettorale e istituzionale in cui l’avversario di classe ci ha costretto a competere.
Puntualmente, ad ogni scadenza elettorale, ci siamo divisi tra “opportunisti” e “massimalisti”, a seconda che si sia inteso marcare la nostra alternatività al quadro politico esistente, la “diversità” dei comunisti, o viceversa la necessità di non isolarci, di evitare la mera testimonianza e l’impossibilità di arrivare a risultati che da soli non eravamo in grado di conseguire. Si tratta di una divaricazione imposta da un avversario di classe che negli ultimi decenni ha mutato a suo favore i rapporti di forza: Ramon illustra la natura e le tappe di questo mutamento. A dire il vero, c’è nel suo scritto un silenzio assordante su un elemento a mio parere essenziale: è vero che la suddetta involuzione coincide con il dispiegarsi della globalizzazione capitalistica, ma è anche vero che quest’ultima prende piede contestualmente alla scomparsa dell’Unione Sovietica e dei Paesi del cosiddetto “socialismo reale”. Posso capire che ogniqualvolta si nomini l’Unione Sovietica venga l’orticaria a Fausto Bertinotti, il quale nell’età della maturità riscopre le virtù del liberalismo e potenzia a 360 gradi gli orrori del comunismo. Ma, comunque la si pensi sulla storia del Novecento, non dovrebbe far problema riconoscere che la presenza dell’Unione Sovietica ha costretto l’Occidente capitalistico a mantenere un intento egemonico, facendo i conti con le esigenze del mondo del lavoro e degli assetti democratici: compagni a noi vicini, magari impegnati su altri fronti tematici – penso ad esempio a Emiliano Brancaccio – non fanno assolutamente fatica a riconoscere ciò.
E’ significativo che l’interessante ragionamento di Ramon su questo taccia. Cionondimeno è fondamentale il suo punto di analisi cui prima ho accennato: la trappola del bipolarismo e del maggioritario è il marchio apposto in ambito istituzionale ed elettorale dall’involuzione nei rapporti di forza tra le classi. Da questo punto di vista, è evidente che vi sia l’esigenza di depotenziare questa insidia annidata nel cuore dell’impegno istituzionale e, in particolare, della contesa elettorale. Per questo – fatti salvi il livello nazionale, dove si impongono scelte nette, e livelli regionali particolarmente ostili – sarei anche d’accordo ad arrivare in determinati contesti locali a referendum tra gli iscritti, che decidano in piena autonomia la collocazione più efficace del partito.
Ma la conclusione non la capisco proprio. Perché imporre un’accelerazione che investe convincimenti profondi di militanti e dirigenti del Prc, in vista di una precipitazione organizzativa (nuovo soggetto politico, doppio tesseramento, decisioni “una testa un voto” di pertinenza del nuovo soggetto, cessioni di sovranità su questioni dirimenti ecc) che cambia sostanzialmente l’identità della propria appartenenza. Si dice che ci sarà una divisione di competenze: al nuovo soggetto compete la vicenda elettorale (scelta elettorale, programma, simboli ecc); a Rifondazione resterebbe il radicamento sociale, la battaglia ideologica e la formazione. Ma noi sappiamo bene che la capacità di radicarci dipende anche dalla forza elettorale. Battaglia ideologica e formazione sono questioni importanti. Ma è del tutto evidente che, con le anzidette cessioni di sovranità, è concretissimo il rischio di flagranti contraddizioni tra “ciò che si dice e si pensa”, dal lato del partito, e “ciò che si decide e si fa” dal lato del nuovo soggetto.
Queste perplessità sono forti e ben presenti tra gli iscritti del Prc. Persino nel testo di Ramon, ad un certo punto, non si può fare a meno di ricordare che, ancorché truccata dal dispositivo bipolare e maggioritario, la vicenda istituzionale e elettorale resta comunque un pezzo tutt’altro che secondario di una battaglia che ha come posta il potere politico. Guai a noi se, nel vivo dell’impegno per la lotta ideologica e per un’articolata pratica di radicamento sociale, contestualmente restassimo per così dire indifferenti rispetto all’ambito suddetto. Ma, se è così, come si fa a considerare di ordinaria amministrazione una cessione di sovranità in tali materie?
Sin qui, il ragionamento politico in quanto tale: se passiamo poi alla concretezza dell’operazione, cioè a come questo ragionamento cala sullo specifico della realtà italiana, c’è di più e di peggio.
Si accelera su questa proposta per pervenire a cosa? Ripete Paolo Ferrero: Izquierda Unida sta lì a dimostrare che si può fare. Ma che paragone è questo? Quando il Partito Comunista Spagnolo decise negli anni 80 di inaugurare la strada di IU – prescindo qui dal segno politico dell’operazione (condivisibile o meno) e sto alla sua praticabilità concreta – si confrontava con partiti e partitini, magari piccoli ma effettivamente esistenti, alcuni dei quali avevano deputati – nazionali e locali – persino deputati europei. Viceversa cosa sarebbe questa IU italiana? Sia chiaro, non voglio minimizzare l’importanza di un ambito, quello dell’Altra Europa con Tsipras, che giustamente si è voluto e si vuole coltivare. Ma questo non deve impedirci di dire le cose come stanno. In buona sostanza, si tratta dell’attuale Prc più Alba, cioè un gruppo di rispettabilissimi compagni e intellettuali, con le realtà associative limitrofe: di fatto un insieme culturalmente eterogeneo (nonchè a volte discutibile) e numericamente ridotto, che fa leva fondamentalmente su di noi come realtà ancora organizzata. Se il nostro problema è stare come il pesce nell’acqua nel mare di popolo che ha recentemente invaso piazza San Giovanni non mi pare proprio Alba e dintorni.
Altro che IU! Si dice: la lista Tsipras ha ottenuto un importante risultato elettorale, invertendo dopo anni una serie negativa di risultati. Giusto, per questo va alimentata come spazio di intervento politico. Ma attenzione: quel risultato elettorale lo si è ottenuto con Sel dentro. Ma, soprattutto, cosa c’entra questo con la formazione di un “nuovo soggetto”? Ammesso che sia un’operazione valida sul piano dei principi e dell’orizzonte strategico – e, a mio parere, non lo è – vale la pena di oscurare i simboli e il nome dei comunisti per unirci ad un’espressione assai circoscritta della cosiddetta “società civile”, entità di per sé alquanto fantomatica anche quanto a consistenza numerica? E vale la pena procedere su questo a colpi di maggioranza, rischiando di sfasciare quel che resta del partito?