Come sfruttare l’arte per denigrare la rivoluzione: Revolution. La nuova arte per un mondo nuovo.

La regista britannica Margy Kinmonth sfrutta pretestuosamente l’arte nata dalla rivoluzione russa per attaccare quest’ultima. Risultato: un’accozzaglia di luoghi comuni e di semplificazioni storiche.


Come sfruttare l’arte per denigrare la rivoluzione: Revolution. La nuova arte per un mondo nuovo. Credits: Tratta da Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa

Chiunque abbia avuto il “privilegio” di assistere a una proiezione dell’ultimo film di Margy Kinmoth, Revolution. La nuova arte per un mondo nuovo, ha assistito all’ennesima, prevedibile, carrellata di luoghi comuni sulla rivoluzione bolscevica e sulla vita della formazione statale sovietica sorta da essa.

L’utilizzo del termine “privilegio” non è casuale. Infatti la Nexo Digital, casa di produzione cinematografica responsabile della distribuzione del film nelle sale italiane, com’è solita fare, limita la durata delle proiezioni dei suoi film da un minimo di un giorno a un massimo di due giorni (assai raramente 3). In questo modo le pellicole interessate diventano una sorta di evento, tale da “giustificare” costi dei biglietti a dir poco esosi (circa 10 euro). Tale linea appare evidentemente legata a un’operazione di natura commerciale piuttosto che all’esigenza di promozione culturale, cui una realizzazione della settima arte dovrebbe in realtà rispondere. C’è da aggiungere che, proprio in virtù di queste osservazioni, considerati i contenuti fuorvianti del film, sia probabilmente un bene che esso abbia goduto di una diffusione limitata.

Obiettivo dichiarato della regista britannica è quello di delineare una storia delle avanguardie artistiche operanti in Russia dopo il 1917, dal padre del Suprematismo Kazimir Malevič agli astrattisti Vasilij Kandinskij e Marc Chagall, passando per il cinema di Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn, fino alla pittura realista degli anni ’30 e ’40. L’approfondimento sui vari artisti risulta in realtà essere decisamente scarno, anche in seguito alla scelta di dedicare la maggior parte del film alla contestualizzazione storica, peraltro del tutto sbrigativa e improntata alla solita carrellata di luoghi comuni e di semplificazioni che gli ideologi delle classi dominanti ci propinano indisturbati da 30 anni a questa parte. Il poco tempo dedicato alle vaste espressioni artistiche di quegli anni stride con l’elevato numero di artisti di cui viene fatta menzione, con il risultato che chi nutriva l’aspettativa di scoprire qualcosa di più è andato incontro a una sostanziale delusione, assistendo piuttosto a una superficiale elencazione di nomi e di correnti. Ad emergere è dunque il sospetto che l’arte sia stata sfruttata come mero pretesto per prendere di mira la rivoluzione dell’ottobre del 1917, che aveva trasferito tutto il potere ai soviet degli operai, dei contadini e dei soldati.

Procedendo all’analisi della contestualizzazione storica svolta dalla pellicola, è impossibile stilare una lista completa delle inesattezze che vengono affermate. È però necessario fornire alcune precisazioni in merito, e soprattutto rendere conto delle omissioni più gravi. Ogni film, in quanto produzione culturale, è espressione delle sovrastrutture forgiate dalle classi dominanti, determinate in ultima istanza dalla struttura economico-sociale, e va quindi analizzato in relazione al contesto culturale oggi prevalente, informato, a partire dal crollo dell’Urss, alla più becera campagna di demonizzazione in toto dell’esperienza sovietica. La pellicola della Kinmoth non sfugge agli schematismi diffusi ovunque nella storiografia ufficiale, e utilizza ogni tipo di espediente comunicativo per gettare fango sulla più importante rivoluzione del ‘900.

A balzare agli occhi è l’assoluta omissione delle responsabilità della guerra civile, scatenata su tutto il territorio russo dalle Armate bianche, guidate dai generali Kornilov e Denikin a partire dal novembre 1917, contro il governo sovietico, che godeva di un’ampia legittimazione popolare grazie al coinvolgimento diretto dei consigli (soviet) dei lavoratori, ossia della stragrande maggioranza della società russa. Allo stesso modo manca qualsiasi cenno alle ingerenze esterne poste in atto dalle potenze occidentali, impegnate a fornire vasti aiuti alle forze della reazione, nella preoccupazione di evitare il “contagio rosso” su tutto il continente europeo. Ad essere taciuto è anche l’attacco militare subito dalle armate polacche guidate dal maresciallo Piłsudski, desideroso di allargamenti territoriali in barba agli accordi firmati dopo la guerra. In pratica scompare nel nulla il triplo attacco che il nuovo Stato dei proletari e dei contadini subì sui fronti interno ed esterno. Tramite simili espedienti comunicativi la carestia scoppiata nel 1919 viene imputata alle scelte politiche di Lenin e dei bolscevichi piuttosto che alle misere condizioni sociali ereditate dal vecchio regime zarista e aggravate in seguito agli effetti della guerra imperialista.

Sul periodo staliniano si ripetono sostanzialmente le leggende e le semplificazioni già magistralmente criticate da Domenico Losurdo nel suo libro “Stalin, storia e critica di una leggenda nera”. Come lo stesso Losurdo precisa in merito agli obiettivi della sua opera, non si vuole qui affermare che il segretario generale del PCUS sia stato esente da errori e da esagerazioni, in un’acritica esaltazione agiografica. Si ritiene però necessario, per dirla con Pietro Secchia, evitare di gettare via il bambino insieme all’acqua sporca [1].

Nel primo decennio della cosiddetta era staliniana, sono due le date fondamentali da tenere a mente per un approfondimento storico-analitico degli eventi. La prima è il 1927, quando, in occasione delle celebrazioni del decimo anniversario della rivoluzione, i settori del partito comunista vicini alle posizioni trotzkiste tentarono la prova di forza insurrezionale, causando la prima forte radicalizzazione dello scontro al vertice del PCUS che si concluse con l’espulsione dello stesso Trockij dal partito. La seconda è il 1933, quando, con l’avvento al potere in Germania di Hitler, si concretizzò la minaccia di un attacco finalizzato alla totale schiavizzazione dei popoli slavi orientali, intenzione apertamente dichiarata dal Führer già negli anni ’20 nel suo tristemente celebre “Mein Kampf”. Senza volere con ciò – giova ripeterlo – delineare un cieco giustificazionismo in merito alle campagne repressive degli anni ’30, ricordare tali elementi aiuta a fugare le schematizzazioni e le semplificazioni propinate dalla visione del mondo imposta dalla classe dominante, da cui il film della Kinmoth non si sottrae.

La regista, infatti, applica lo schematismo denigratorio all’obiettivo del suo lavoro, finendo persino per liquidare la stagione del realismo socialista nelle arti come mero capriccio di Stalin [2]. In questo modo viene implicitamente negata l’espressione di grande creatività artistica, a sua volta frutto del vasto processo di alfabetizzazione e democratizzazione negli ambiti della cultura e dell’arte avviato dai governi nati dalla rivoluzione d’ottobre. Tale dato meritava ben altra evidenza in un film sull’argomento.


Note:

[1] Nell’introduzione al volume “L’azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932”, Pietro Secchia scrive: “[…]ho cercato sempre di distinguere tra gli atti delittuosi, gli inammissibili metodi di lotta impiegati all’epoca di Stalin, che non possono che essere condannati come si condanna ogni elemento di tirannia, e l’opera sua di rivoluzionario, di uomo di Stato, di combattente per il socialismo che è stata largamente positiva e non può essere buttata via insieme all’acqua sporca. Il giudizio su Stalin deve tenere conto degli elementi positivi e di quelli negativi, delle drammatiche e sconcertanti contraddizioni della sua personalità, oltre che di tante altre implicazioni sino ad oggi tutt’altro che chiarite.”. Riportato in Alessandro Barile – Danilo Ruggieri: “Pietro Secchia rivoluzionario eretico”, Bordeaux edizioni, 2016, p.61.

[2] Prendendo ad esempio il celebre film di Dziga Vertov “L’uomo con la macchina da presa”, del 1929, si può osservare come non vi sia nemmeno un singolo fotogramma che ritragga Stalin.

25/03/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Tratta da Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa

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L'Autore

Marco Paciotti

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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