La riflessione sull’arte di Brecht

A rendere complessa e problematica un’analisi rigorosa della riflessione sull’arte di Brecht si deve aggiungere alla sua frammentarietà lo spiccato gusto per il paradosso e le frequenti prese di posizione ideologiche, non facilmente separabili dalle riflessioni teoriche, che hanno caratterizzato la scrittura brechtiana.


La riflessione sull’arte di Brecht

Bertolt Brecht (1898-1956) è generalmente conosciuto e apprezzato per la produzione drammatica e lirica, ma la sua opera è caratterizzata anche da un numero cospicuo di pagine dedicate alla riflessione sull’arte. Questa produzione lo distingue da quasi tutti i drammaturghi e letterati tedeschi del nostro secolo poiché, come ha osservato Paolo Chiarini, solo in Thomas Mann è possibile ritrovare un eguale sforzo di chiarificazione teorica che, partendo dalle proprie opere, aspiri a estendersi a una riflessione più complessiva sull’arte in genere [1]. Proprio questa parte della produzione brechtiana costituisce l’oggetto specifico della nostra ricerca.

È trascorso ormai più di un mezzo secolo da quando Paolo Grassi – nella prefazione all’edizione italiana del libro di Frederic Ewen Bertolt Brecht a proposito della critica brechtiana ha scritto che: “dopo l’opera di tanti valenti studiosi, soprattutto tedeschi, naturalmente, ma anche inglesi, francesi e polacchi, e latino-americani (...), e anche italiani (pochi, questi ultimi), c’è da sentirsi dire che ormai quasi tutto è stato ricercato, studiato, scritto, proclamato, e che non c’è più nulla da scoprire” [2].

Tuttavia, nel panorama ormai sterminato di studi rivolti all’analisi dell’opera di Brecht sono relativamente poche le opere dedicate nello specifico alle sue riflessioni sull’arte. Benché Brecht sia ormai ufficialmente riconosciuto come uno degli artisti più importanti della letteratura tedesca del Novecento, e molti drammaturghi e letterati della generazione seguente si siano costantemente richiamati alla sua opera, e nonostante sia stato rivendicato da diverse correnti dell’estetica del secondo dopoguerra, la letteratura relativa alla sua produzione teorica presenta spesso delle sconcertanti incomprensioni

L’oggetto stesso della nostra analisi è, infatti, estremamente problematico, tanto che la critica ha assunto per molti anni una posizione fortemente scettica riguardo alla possibilità stessa di parlare di una teoria estetica brechtiana. Ciò ha portato molti studiosi a evitare di affrontare l’opera di questo autore nella sua problematica totalità, finendo in molti casi per occuparsi solo del suo valore poetico, passando, così, del tutto sotto silenzio la sua produzione teorica [3]. Del resto, anche le opere che intendevano trattare la riflessione teorica di Brecht, finivano spesso per considerarla come una semplice giustificazione post factum della sua produzione artistica [4]. Se questa tendenza ha avuto certamente degli effetti positivi nei decenni passati – in quanto i pochi studi che si dedicavano alla produzione teorica finivano spesso, sia all’est che all’ovest, con il limitarsi a prese di posizione ideologiche – tuttavia il carattere stesso dell’opera brechtiana è, sin dagli anni trenta, così intimamente connesso alla riflessione teorica, che il non voler considerare questo aspetto ha portato a notevoli incomprensioni della sua stessa opera poetica [5].

Se è vero che negli ultimi anni diversi autori si sono occupati di questa parte della produzione, si deve tuttavia notare che in diversi casi si tratta di studi dedicati a singoli problemi spesso, occorre dirlo, piuttosto marginali del corpus teorico brechtiano [6]. Questa quasi generalizzata ritrosia ad affrontare la riflessione brechtiana sull’arte nel suo complesso ci sembra andare sostanzialmente nella stessa direzione del sopra accennato scetticismo rispetto alla possibilità stessa di individuare qualcosa come il tipo “teoria estetica di Brecht”. Questo “senso comune” della critica diviene maggiormente perspicuo se si considera che le riflessioni sull’arte di questo autore si trovano disperse, salvo poche eccezioni, in una gran quantità di brevi scritti, abbozzi, frammenti, rapide annotazioni diaristiche e note scritte ai margini dei drammi [7]. Gli stessi scritti pubblicati durante la vita dell’autore [8], raccolti sotto l’emblematico titolo di Versuche (saggi, ricerche, tentativi), si avvalgono preferibilmente della forma “intermedia” del saggio [9], la più duttile all’intervento diretto nell’occasione che li ha ispirati. Inoltre, a rendere ancora più problematica un’analisi rigorosa di quest’opera, si deve aggiungere alla sua frammentarietà lo spiccato gusto per il paradosso [10] e le frequenti prese di posizione “ideologiche” [11], non facilmente separabili dalle riflessioni teoriche, che hanno caratterizzato la scrittura brechtiana [12]. A queste vanno sommate, infine, le grandi difficoltà in cui apparvero questi scritti, in massima parte composti negli ultimi anni della repubblica di Weimar o durante il lungo e tormentato esilio cui il poeta fu costretto dall’avanzare delle truppe hitleriane [13]. 

Note:

[1] La stretta connessione di produzione artistica e riflessione estetica permette, invece, di avvicinare Brecht ai maggiori autori della Goethezeit, quali Lessing, Schiller e Goethe.

[2] Grassi, P., Prefazione a Ewen, F., Bertolt Brecht, Feltrinelli, Milano 1970, p. 7.

[3] Ad esempio Volker Klotz ha scritto che “le osservazioni teoriche di Brecht devono essere considerate secondarie rispetto alla sua opera, sia perché composte successivamente sia perché di minor valore” Klotz, V., Bertolt Brecht. Versuch über das Werk, 3 ed. (1 ed. 1957), Hermann Gentner Verlag, Bad Homburg 1967, p. 131.

[4] Contro queste tendenze, tuttavia, metteva in guardia già nel 1962 Helge Hultberg, osservando che “nessuno può dubitare del fatto che Brecht abbia in primo luogo fatto del teatro e che solo in seguito abbia cercato di descriverlo sul piano teoretico. Ma le sue teorie, già interessanti dal punto di vista descrittivo, nel loro sviluppo ulteriore non possono essere considerate delle pure e semplici giustificazioni di una produzione preesistente” Hultberg, H., Die äshetischen Anschauungen Bertolt Brechts, Munksgaard, Kopenhagen 1962, pp. 10-11. Non ci sembra, invece, possibile condividere l’interpretazione di questo critico quando ritiene che si possa separare nettamente nell’opera brechtiana la riflessione teorica dalla produzione artistica.

[5] Se appare ormai difficilmente sostenibile che la drammaturgia brechtiana possa essere pienamente compresa facendo astrazione dalla ricca e multiforme produzione teorica che la ha costantemente accompagnata, tuttavia non si deve incorrere nell’errore opposto, ritenendo, cioè, possibile occuparsi unicamente della teoria di Brecht prescindendo del tutto dalla sua prassi artistica.

[6] Occorre, inoltre, rilevare che anche i pochi scritti che affrontano lo studio di Brecht da un punto di vista più ampio si limitano, nella maggior parte dei casi, a un’analisi puntuale della produzione teatrale, finendo con il trascurare del tutto l’analisi dell’estetica brechtiana nel suo complesso.

[7] Le stesse annotazioni relative alla forma “epica” o “dialettica” del teatro e alla drammaturgia “non-aristotelica”, che hanno avuto un’influenza così importante su molti drammaturghi del secondo dopoguerra, sono state formulate da Brecht quasi sempre in forma di aforismi che, se hanno spesso il pregio dell’acutezza, dell’incisività e della chiarezza, sono al tempo stesso caratterizzati da una durezza e da una semplificazione eccessiva che sfocia a volte in una preoccupante rigidità. Proprio questa rigidità e radicalità hanno prodotto, infatti, più di un malinteso all’interno della Brechtforschung. Del resto, lo stesso Brecht era ben cosciente dell’insufficienza e del taglio troppo netto dato alle sue formulazioni teoretiche, che spesso si dimostravano incapaci di dare piena risonanza alla ricchezza del suo pensiero, il quale con ben altra vivacità trovava espressione nella sua produzione artistica.

[8] Lo sforzo più organico compiuto da Brecht per delineare i tratti fondamentali del suo progetto estetico, benché limitatamente all’ambito teatrale, è certamente il Kleines Organon für das Theater [Piccolo organon per il teatro], composto nel 1948 e pubblicato per la prima volta nella rivista Sinn und Form nel 1949. Questo scritto, contiene una prefazione molto interessante, che costituisce una vera e propria confessione autobiografica delle difficoltà incontrate dall’autore nel dare un’organica esposizione alla sua concezione dell’arte.

[9] Una forma che, come ricordava Lukács nel suo Die Seele und die Formen [L’anima e le forme], è specifica di ogni discorso “ironico”. Quest’ultimo, di contro all’assolutezza dell’imperativo categorico, rappresenta la mediazione essenziale alla prassi permettendo così quello scarto tra apparenza ed essenza della scrittura, tra piano dello scrittore e piano del lettore, che solo consente di mettere in questione la forma.

[10] Come ha scritto Hultberg, infatti, “molte delle sue prese di posizione sembrano essere state assunte unicamente allo scopo di dare scandalo e molte sono straordinariamente poco chiare. Non di rado Brecht dimenticava ciò che intendeva esprimere facendo uso di una certa espressione, e non era sempre disposto a sacrificare una brillante formulazione a favore della consequenzialità logica del discorso. È, quindi, necessario trattare con la massima prudenza le sue espressioni, per non confondere un compiaciuto gioco di parole con la sua profonda posizione teoretica. Brecht non fu, infatti, sempre conseguente nelle sue teorie” Hultberg, H., Die äshetischen…, op. cit., p. 12.

[11] Brecht ha denunciato, in diversi passi della sua opera, la drammatica necessità storica in cui è destinato a operare il poeta dei “tempi oscuri”. Vogliamo ricordare qui una nota poesia in cui Brecht esprime, a malincuore, la necessità di dover rifiutare l’atarassia degli stoici: “io sarei volentieri un saggio. / Nei vecchi libri è spiegato cosa sia la saggezza: / Tenersi fuori dalle lotte del mondo e trascorrere il breve tempo che ci è concesso / Senza timore / Rinunciare alla violenza / Ripagare il cattivo con il buono / Non esaudire i propri desideri, ma dimenticarli / Questo significa esser saggi. / Tutto questo io non posso: / Veramente, io vivo in tempi oscuri!” Brecht, B., Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K. Delef-Müller, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-2000, 30 voll, vol. IX, p. 723. Per Brecht, quindi, non era questione di una presa di posizione soggettiva in base alla quale assumere o meno l’atteggiamento distaccato del “saggio”, ma una questione della coscienza storica, che è costretta virilmente a negarsi, nei tempi oscuri, il privilegio della “saggezza”.

[12] A questo proposito va ricordato che le decise implicazione razionali e politiche presenti nella riflessione teoretica brechtiana hanno contribuito non poco a tenere lontani diversi studiosi dalla sua opera, tanto che M. J. Fischer è giunto ad ipotizzare che: “in fasi di grande politicizzazione veniva riconosciuta grande attualità all’intera produzione di Brecht e particolarmente alla teoria, mentre in fasi di riflusso [Restaurationsphasen] l’interesse era limitato, nel migliore dei casi, ai suoi drammi”. I problemi che ha comportato l’analisi della teoria in questi anni di forte politicizzazione saranno affrontati in un prossimo articolo.

[13] Va notato, tuttavia, che Brecht attribuì paradossalmente proprio alle difficoltà incontrate durante l’esilio nella realizzazione scenica delle sue idee, lo sviluppo della sua riflessione estetica.

16/03/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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