Segue da “Il contributo di Lukács alla storia della filosofia”
Vedi anche: Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare A. Gramsci su argomenti analoghi
L’estetica: il realismo, la teoria del rispecchiamento e il concetto di “tipico”
Tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta Lukács – che ha mantenuto sempre vivo il proprio interesse giovanile per l’estetica e la critica letteraria componendo opere che hanno stimolato ampi dibattiti sul senso dell’arte dagli anni cinquanta agli anni ottanta del Novecento, sia nei paesi socialisti che capitalisti – si occupa anche di filosofia dell’arte, in opere quali i Contributi alla storia dell’estetica (1954) e i due tomi dell’Estetica (1963) con lo scopo di costruire una tradizione cui possa ispirarsi l’arte marxista. Lukács in particolare si è sforzato di gettare le basi per la fondazione di un’estetica e una letteratura di impronta marxista. Lukács ha inteso sottolineare il valore conoscitivo e veritativo dell’autentica opera d’arte in quanto costituisce sempre una forma peculiare di rispecchiamento della realtà che, essendo una, non può che essere la medesima che rispecchia, con le proprie modalità specifiche, la scienza. La differenza sostanziale fra queste due essenziali tipologie di rispecchiamento della stessa realtà storica consiste nel fatto che mentre la scienza mira a rispecchiare nel modo più esatto l’universale, l’arte mira a riflettere il particolare. La scienza tende, infatti, a generalizzare, a individuare leggi il più possibile comprensive dei fenomeni reali analizzati. Così, mentre la scienza mira a inquadrare in una legge il più ampio ventaglio possibile di contenuti empirici, l’arte – al contrario – tende a fissare un’esperienza particolare, il destino peculiare di individui tipici, di una determinata società storica, di una certa classe sociale, di un determinato livello di consapevolezza di classe etc. Perciò, mentre la scienza trascende le forme particolari che tendono ad assumere i fenomeni che analizza, nell’arte la forma, l’essenza, è completamente risolta nel contenuto, nel fenomeno stesso. L’arte è, dunque, necessariamente più vicina alla vita di quanto possa esserlo la scienza, in quanto permette di cogliere intuitivamente ciò che la scienza risolve in leggi o in concetti altrettanto necessariamente astratti. Non si tratta, tuttavia, di un passivo rispecchiamento della vita, ma dell’elaborazione di una sua forma tipica, in grado di illuminare il contesto storico e sociale in cui tale particolare ma emblematico aspetto del vivente si manifesta e in rapporto al quale assume il suo senso sostanziale.
Arte realista vs arte naturalista
Ogni autentica e grande opera d’arte sarebbe quindi, a parere di Lukács, sempre caratterizzata dal realismo (per la letteratura egli si richiama ai grandi esempi di Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) e costituisce una forma peculiare di conoscenza, un “rispecchiamento” non fotografico, ma critico della realtà sociale. L’arte realista non deve, dunque, essere confusa con quella naturalista – come spesso era accaduto nella precedente estetica marxista ancora dominata da un materialismo meccanicistico – che si limitata a un rispecchiamento fenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali proprie di ogni epoca storica. Lukács mira a superare dialetticamente tanto la concezione materialistica volgare del rispecchiamento di un presunto reale indipendente dal soggetto sociale che lo indaga esteticamente, quanto la concezione idealista, mostrando che il valore sovrastorico dei capolavori artistici è in primo luogo dovuto alla loro capacità di cogliere l’essenza del proprio mondo storico e sociale. L’arte naturalista è, quindi, criticata da Lukács in quanto astratta, dal momento che mira a riprodurre ciò che è “medio” in un determinato ambiente, mentre l’arte realista è concreta in quanto rappresenta il “tipico” di un insieme sociale, facendo così emergere le differenze interne che lo caratterizzano.
La vera opera d’arte è quella in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti “tipi” sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico e sociale attraversato dal conflitto fra classi sociali. Perciò Lukács distingue fra autori realisti (Goethe, Tolstoj, Balzac e Thomas Mann), che sono in grado di ricomprendere nelle loro opere la totalità di un’epoca storica e di rappresentare l’uomo nella sua complessità, e le opere romantiche (come quelle emblematiche di Kleist) o le opere espressione della crisi novecentesca (Kafka, Proust, Joyce), che non riescono a riprodurre che squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica, non essendo in grado di reinserirle in un insieme organico in cui acquistano realmente senso.
L’autentica opera d’arte deve, dunque, mirare – non si stanca di sottolineare Lukács – alla rappresentazione di ciò che è effettivamente tipico, quale mediazione dialettica dell’universale e della realtà particolare in cui il concetto si incarna. Il rispecchiamento artistico corrisponde logicamente al concetto di particolare, quale luogo della mediazione storicamente determinata fra individuale e universale sociale. Così nel particolare – inteso in questo senso dialettico da Lukács – rispecchiato da un’autentica opera d’arte, tendono a sintetizzarsi le caratteristiche generali dell’uomo con l’individuo storicamente determinato, facendo emergere il significato più autentico, le tendenze profonde ed essenziali di un insieme sociale. La rappresentazione artistica riesce a conseguire pienamente il proprio obiettivo quando è in grado di enucleare gli aspetti tipici di un contesto storico e sociale. L’importanza dell’arte realista è proprio in tale sua capacità, che le consente di ricostruire attraverso personaggi tipici gli aspetti di fondo di ogni epoca storica. Solo riappropriandosi dell’eredità storica della grande arte realista, ovvero di quanto di meglio hanno elaborato sul piano letterario le precedenti civiltà, potrà sorgere un realismo socialista in grado di rivoluzionare in profondità lo stesso campo dell’estetica.
L’ontologia dell’essere sociale
Dopo la morte di Stalin, Lukács sostiene il tentativo di riforma interna del sistema socialista tentata da Krusciov ed è ministro nel governo di Imre Nagy (1956) che cerca di portare l’Ungheria al di fuori dell’orbita sovietica. Dopo l’occupazione del paese da parte delle truppe del Patto di Varsavia, Lukács è costretto ad un breve esilio in Romania e viene riammesso nel Partito Comunista solo nel 1967. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla stesura della sua opera maggiormente sistematica: L’ontologia dell’essere sociale. Pubblicata postuma in tre volumi (Lukács muore nella sua Budapest nel 1971), essa costituisce il più ampio ed ambizioso tentativo di costruire un sistema filosofico sulla base dell’opera di Marx, in cui sarebbero rinvenibili i lineamenti di un’ontologia storico-materialistica capace di superare dialetticamente l’idealismo logico-ontologico di Hegel, punto d’approdo della filosofia borghese. Lukács si pone il compito di tracciare i lineamenti di una scienza unitaria della struttura ontologica della realtà, nelle sue forme organiche e inorganiche, che dovrebbe rappresentare il fondamento di tutte le scienze particolari. Nella prima parte dell’opera Lukács ricostruisce la storia dell’ontologia sino alla sua epoca, sforzandosi di interpretare le grandi riflessioni ontologiche del passato (da Aristotele a Spinoza, da Hegel a Hartmann) quali ambiziosi tentativi di risolvere problemi sociali storicamente determinati. Nella seconda parte dell’opera espone la sua concezione dell’essere articolandola in tre momenti: inorganico, organico e sociale. Queste tre forme fondamentali dell’essere sono, in effetti, connesse fra loro e tendono a trapassare l’una nell’altra, dalla più semplice alla più complessa secondo un processo di superamento dialettico (Aufhebung).
La centralità del lavoro e la “posizione teleologica”
La parte più corposa di quest’ultima opera è dedicata all’analisi dell’essere sociale, che supera l’essere organico in quanto costruisce mediante il lavoro il proprio mondo. non più naturale ma storico. In tale contesto assume rilievo la categoria di “posizione teleologica”, mediante la quale Lukács intende rielaborare la concezione marxiana del lavoro come “ricambio organico” fra il genere umano e la natura. Come osserva a tal proposito Lukács: “soltanto nel lavoro, quando pone il fine ei suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, – dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura, – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili. Vale a dire, nel momento in cui la realizzazione diviene un principio ri-plasmatore, neoformativo della natura, la coscienza che ha dato a ciò impulso e direzione non può più essere ontologicamente un epifenomeno” [1].
La scuola di Budapest
Cercando di sviluppare queste tesi la scuola filosofica di Budapest – riunitasi intorno a Lukács – dopo la sua morte si sforzerà di analizzare i risvolti dei processi generali della società nella concretezza della vita quotidiana e dei rapporti fra gli individui. Principale protagonista di tali ricerche negli anni settanta è stata Agnes Heller (1929).
Note
[1] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. II, parte I, capitolo 1.