Il nesso cultura-profitto appare come unica condizione per il quale i beni culturali possano sopravvivere e sono stati definitivamente mortificati alcuni principi che pure sono presenti anche nella nostra Costituzione.
di Michela Becchis
Non è facile scrivere qualcosa che possa aiutare il lettore a capire quanto quest’ultima riforma del MIBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) sia disastrosa. Moltissimi sono, infatti, gli aspetti che si intrecciano sia culturali che strutturali e, non da ultimo, lavorativi.
Innanzitutto la riforma è pensata come il classico spot da showbiz efficientista, che assesta un ulteriore (e forse definitivo) colpo alla tutela, alla conservazione, all’incremento e alla professionalità dei Beni Culturali. Ha vinto ancora una volta la peggiore logica del profitto riassunta dalla frase di Renzi “Gli Uffizi sono una fabbrica di soldi”. Il nesso cultura-profitto appare come l’unica condizione grazie al quale i beni culturali possano sopravvivere; sono stati definitivamente mortificati alcuni principi che pure sono anche presenti nella nostra Costituzione come, ad esempio, l’idea che il patrimonio artistico sia fonte di conoscenza oppure il ruolo sociale delle istituzioni culturali.
È stato spezzato il legame fra territorio e testimonianze storiche tramite la separazione tra territorio e raccolte museali, come se la storia dell’arte potesse essere confinata all’interno dei musei e non esperita attraverso una virtuosa rete di collegamento con la storia, il vissuto, l’ambiente sociale e non da ultimo il territorio inteso nella sua accezione geografica, cancellando con una ignorante spugna oltre cento anni di studi storico artistici in cui si insisteva sulla straordinaria importanza del contesto di produzione.
Spezzare quel legame vuol dire promuovere l’indebolimento della tutela sul territorio, proprio quando prende corpo l’ennesimo assalto speculativo portato dallo Sblocca Italia, vuol dire quindi che esiste una relazione stretta fra questa impostazione e l’aspirazione da parte del governo a disporre del territorio arbitrariamente e senza regole.
Sono state abbandonate archivi e biblioteche, le istituzioni meno suscettibili e capaci di produrre reddito, ma indispensabili per la ricerca e la memoria di un paese. È stato azzerato il rapporto fra ricerca, tutela, gestione e valorizzazione. E soprattutto la “riforma” si è impegnata nel sistematico svuotamento e indebolimento delle istituzioni, anzi si direbbe nel concetto stesso di “Istituzione”, riconoscibile nella diminuzione e nell’avvilimento dei ruoli tecnico-scientifici, che nel loro insieme rappresentano quanto di meglio il modello italiano abbia storicamente proposto, com’è riconosciuto a livello internazionale.
Partiamo da questo dato: il lavoro di chi veramente si dedica alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio procederà con sempre maggiori difficoltà. Non credo sia difficile capire quale sia la direzione presa seguendo le indicazioni del presidente del consiglio, che più volte si è esibito con frasi del tipo "Soprintendente è una delle parole più brutte del vocabolario" e ancora: "Per valorizzare la cultura meno soprintendenze borboniche, più vitalità". Del concetto di “vitalità” dell’attuale presidente del consiglio non c’è che da temere, poiché la parola equivale alla distruzione di qualsiasi garanzia civile e sindacale. E poi, stante che non difenderei i Borboni per nessuna ragione al mondo, ebbene mi corre l’obbligo di ricordare all’ignoranza di Matteo Renzi che furono i soprintendenti borbonici a ritrovare e scavare Pompei, a ordinare tutte le collezioni reali e ad aprire l’allora Real Museo Borbonico (1777). Nessuna difesa quindi della casa reale napoletana, ma il ricordo di peritissimi funzionari e studiosi, alcuni dei quali anche partecipi della Rivoluzione napoletana.
Ma torniamo ai fatti: la nuova riforma non ha assolutamente preso in considerazione la vera malattia cronica delle Soprintendenze e cioè la mancanza di personale. A fronte di questa malattia endemica, il Ministero non pensa a fare concorsi, a dimostrazione che condivide il pregiudizio, espresso con volgare formula da Tremonti, che con la Cultura non si mangia. Restano così fuori dell’orizzonte del ministero nuovi concorsi per personale giovane e qualificato. Si opta invece per due misure complementari e dannose. La prima è quella – già accennata – di esautorare sempre di più dal suo ruolo l’intero apparato lavoratore afferente al Ministero in ogni ordine e grado (dalle guardianie ai soprintendenti stessi), di privare i dirigenti di poteri fondamentali, di ridurre i loro ambiti di intervento, di subordinarli ad altri istituti che non hanno le competenze per decidere nelle loro materie, ma a cui queste competenze vengono date per decreti o incarichi diretti. La seconda misura affida sempre più a privati la gestione delle fasce lavorative non specializzate, per cui con la nuova legge si sostiene e si vuole realizzare un modello operativo che prevede un minimo impegno di personale qualificato e stabile e il massimo di precarietà. Modello che lo stesso ministro indica in alcune realtà torinesi, come ad esempio il Museo Egizio (trasformato in fondazione): i dirigenti di questa istituzione si vantano di avere ridotto all’osso il personale, ma non parlano con altrettanta precisione delle condizioni di lavoro imposte ai dipendenti che sostituiscono il personale stabile.
Ma imporre al personale privato turni e modelli lavorativi massacranti, conti alla mano, spesso non comporta nessun risparmio: un custode statale costa circa 25/27 mila € lordi, un custode assunto da una ditta privata può arrivare a costare allo Stato 43 mila € lordi. Bel risparmio! Ma soprattutto nessun controllo su dove vadano a finire quei quasi 20 mila € di differenza.
L’altra faccia di una gestione privatistica è la grandinata di nomine sul tipo della chiamata diretta di professionisti, che saltano a piè pari il passaggio concorsuale (i famosi 30 super direttori di musei e siti speciali). Senza entrare nel merito delle singole nomine, c’è da dire che a fronte della super pubblicizzata chiamata di grandi esperti stranieri, spesso solo esibizione di un gretto provincialismo per cui basta che lo studioso venga “da fuori” e sarà certamente eccellente, si è cancellata quella visione d’insieme tra museo e conoscenza del territorio che spesso proprio nella figura di un direttore si accorpava. Va ribadito che ridurre il (pochissimo) personale tecnico-scientifico assunto a semplice ufficio burocratico, estraneo alla funzione di un super direttore che ha un contratto di diritto privato, a tempo limitato, che non ha nessuna quotidianità e visione d’insieme del concetto di bene culturale esteso a tutto il paese, vuol dire cancellare l’idea di museo come laboratorio continuo di ricerca sul campo, di applicazione di nuovi modelli di conservazione. Questi ultimi debbono implicare, non solo la difesa del patrimonio storico esistente, ma il suo ampliamento, unito a un’opera di diffusione della conoscenza e alla sua valorizzazione per la fruizione pubblica. Tali azioni, come tutte le attività di ricerca richiedono formazione specialistica, approfondimento ma soprattutto continuità.
Questo tipo di misure adottate permette inoltre di ignorare lo stanziamento per la tutela del territorio e dei beni culturali diffusi e l’assoluta arbitrarietà nella distribuzione di fondi ai poli museali o ai musei dichiarati, sempre dalla nuova legge, autonomi. Ciò sta determinando una progressiva paralisi imposta, con la diminuzione del personale e dei finanziamenti, sia agli istituti centrali che alle soprintendenze mentre su alcuni siti e musei, evidentemente particolarmente amati dal ministro Franceschini e dal governo tutto, stanno arrivando finanziamenti a pioggia e spesso attribuzioni di disponibilità di personale assolutamente spropositati per la misura del luogo stesso. Tra questi sorprendono gli stanziamenti e la pianta organica prevista per il Polo Museale toscano (toh, la Toscana!). Il lettore potrebbe obiettare che la Toscana ha in effetti una quantità straordinaria di musei, allo stesso lettore allora si può fare l’esempio del Museo del Bargello di Firenze (toh, Firenze!): a questo museo, senz’altro splendido e il più importante al mondo per la scultura rinascimentale, ma composto da un cortile e sette sale, andranno 80 lavoratori addetti alla guardiania. Lungo sarebbe l’elenco di grandi e importantissimi musei italiani i cui direttori hanno in tutto una decina di lavoratori di pari livello.
Un ultimo esempio sarà quello della Soprintendenza archeologica di Roma, la riforma prevede per questa istituzione la nomina di un Consiglio di Amministrazione (perché una soprintendenza deve avere un consiglio di amministrazione come una banca?) e di un Comitato scientifico che ne dovrebbero orientare le attività (il comitato scientifico dovrebbero essere i funzionari e i dirigenti assunti dietro regolare concorso e formatisi con moltissimi anni di studio e di lavoro in loco), applicando, senza alcun approfondimento e sciattamente, la normativa prevista per i musei autonomi. Ma la realtà di questa particolare soprintendenza è molto più complessa di quella di un museo e include, oltre a musei, monumenti, siti, anche un territorio molto ampio. In questa situazione inedita, non è chiaro quale ruolo si pensi di assegnare al personale tecnico-scientifico. Quello di meri esecutori di direttive imposte dall’alto, di burocrati incaricati di risolvere gli aspetti più formali di iniziative sulle quali non avranno più facoltà di parola? Oppure saranno messi lì apposta affinché alla prossima regolare assemblea di personale, ridotto a pochissime unità, ci sarà tra loro un capro espiatorio bell’e pronto da offrire in pasto all’ignoranza sensazionalista di gran parte della stampa? Perché, diciamocelo, nella vicenda del Colosseo chiuso per due ore è mancato solo il nome e cognome di un mostro da sbattere in prima pagina.