Le elezioni europee dal 6 al 9 giugno – 8 e 9 in Italia – rappresentano un passaggio politico importante nell’ambito degli assetti di potere di classe, non solo in Europa, ma anche nello specifico della situazione interna italiana. Avvenendo a quasi due anni di distanza dalla costituzione del Governo Meloni queste elezioni costituiscono un banco di prova importante per il blocco sociale che lo sorregge sia ideologicamente che politicamente. Una vittoria o una buona tenuta delle forze politiche che sorreggono il Governo produrrebbe inevitabilmente un’inevitabile accelerazione ai progetti di Riforma degli assetti generali dello Stato che le componenti del Governo stanno portando avanti nelle sedi parlamentari: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e l’Autonomia Differenziata.
Se il Governo, nel corso di questi due anni, ha perso una parte consistente della capacità egemonica che aveva ereditato al momento delle elezioni del 2022 – un credito ottenuto grazie al fatto che rappresentava l’unica forza visibile d’opposizione all’impopolarissimo Governo Draghi – e se questa perdita è avvenuta in virtù dell’impoverimento delle classi popolari determinato dall’ascesa dell’inflazione causata dalla scellerata adesione delle sanzioni alla Russia, d’altro canto, il quadro ultra frammentato in cui versa l’opposizione, a cui si aggiunge l’estrema debolezza del conflitto sociale – eccezion fatta per le mobilitazioni contro il genocidio di Gaza – potrebbero determinare una relativa tenuta del Governo non per suoi meriti o per il consenso mantenuto ma per il clima di scoramento e rassegnazione che, spesso, nelle fasi di depressione economica e politica porta le classi popolari a non votare e ad accettare fatalisticamente le condizioni dell’esistente.
Il pericolo di una deriva cinica e fatalista in cui tendono a cadere le forze progressiste è determinato ed alimentato dal clima internazionale e dalla deriva bellicista cominciato nel 2022 con la guerra in Ucraina e con l’aggravarsi del conflitto a livello mondiale. Essendo causata dalla crisi di sovrapproduzione che colpisce in maniera sempre più decisa e potente le economie dei paesi occidentali, ed in particolare l’Europa, le classi dominanti tendono a scaricarne i costi sulle classi lavoratrici, tentando, al tempo stesso, di riprendere il ciclo dell’accumulazione e della ripresa economica attraverso una politica economica interamente incentrata sulla guerra. Dal punto di vista delle classi dominanti l’adesione al blocco occidentale e la difesa del fortino armato contro i nemici della civiltà rappresentano un dogma incontestabile, ripetuto ossessivamente a reti unificate nelle tv e attraverso tutte le principali testate giornalistiche nazionali. Il clima d’intimidazione e censura condotto verso i “cosiddetti putiniani” si associa alle enormi difficoltà incontrate dalla classe dirigente nel giustificare il genocidio di Israele a Gaza a cui corrispondono tendenze di carattere repressivo rispetto alle mobilitazioni degli studenti in tutta Europa (in particolare in Francia ed in Germania). Questo clima d’autoritarismo e censura si riflette anche sulle forze politiche presenti in Parlamento: se l’intero arco parlamentare della destra si colloca ormai completamente su un’adesione incondizionata alle politiche guerrafondaie anche all’opposizione il PD s’identifica interamente in un’adesione cieca all’atlantismo – che a volte, come nel caso delle posizioni sulla Russia ha scavalcato alcune forze del centro-destra – il Movimento Cinque Stelle, proprio in virtù dei suoi tratti populisti, ha oscillato tra un’accettazione passiva delle politiche guerrafondaie (vedi la fase iniziale del conflitto in Ucraina) a coraggiose prese di posizione (tenendo naturalmente conto del contesto politico-istituzionale) contro le forniture di armi in Ucraina, mantenendo, al tempo stesso, una posizione di dichiarato e generico pacifismo rispetto alla questione del genocidio a Gaza (pur avendo votato a sostegno della spedizione militare in Yemen).
Nonostante tutta quest’azione d’intimidazione, di censura politica e di potente propaganda, l’adesione della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani – e, particolar modo, dei giovani e degli studenti – non c’è stata. Troppo smaccato è stato il contrasto tra la rappresentazione ideologica degli eventi ed i fatti stessi per come si sono sviluppati concretamente in questi due anni di storia; troppe contraddizioni si sono verificate nell’ambito di un tempo relativamente ridotto. Da questo punto di vista è sempre più attuale il motto di Gramsci per cui “il vecchio è già morto ed il nuovo tarda a venire ed in questo chiaroscuro si generano i mostri”. Se è indubitabile che la versione imposta dalla classe dominante sulle vicende internazionali stride in maniera sempre più forte con l’evidenza dei fatti, riducendosi così il potere egemonico della grande borghesia, è altrettanto vero che fatica non poco a scorgersi all’orizzonte un’opzione di organizzazione della società e del lavoro – nonché delle relazioni internazionali in cui dovrebbe essere collocata l’Italia – diverso da quello attuale. Partendo da queste premesse si comprende bene come il progetto del Governo Meloni d’introdurre due riforme come l’Autonomia Differenziata e l’elezione diretta del Presidente del Consiglio mira a definire un quadro politico-istituzionale di carattere regressivo finalizzato a ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia e partecipazione all’interno del Paese. L’autonomia differenziata ha lo scopo di aumentare le differenze sociali, non solo tra le diverse aree del paese ma anche tra le differenti classi sociali. Ridurre i servizi prestati dallo Stato ai cittadini significa privatizzare ulteriormente i rapporti sociali fra gli uomini, annichilire i diritti dei lavoratori nei servizi pubblici, alimentare i potentati locali e la loro potenzialità di ricatto rispetto all’esigibilità dei diritti e alla capacità d’organizzazione nazionale per rivendicarli. Il fatto che la CGIL abbia indetto una serie di referendum ed una manifestazione nazionale a Napoli il 25 maggio su queste due tematiche politico-sociali fondamentali – oltreché su un generico pacifismo – per la tenuta democratica del paese rappresenta un’iniziativa che va sostenuta e radicalizzata poiché definisce criticamente l’orizzonte all’interno del quale si delineerà l’attacco del Governo alle masse popolari e all’organizzazione democratica complessiva del Paese. Se per un verso possiamo intuire una velata tendenza elettorale della CGIL per un altro verso, ponendosi come giornata di mobilitazione sociale, può porre le basi ed i temi per una successiva ripresa del conflitto sociale, imponendo alle forze politiche di esplicitare o di prendere posizione rispetto a questi due temi così cruciali per l’evolversi delle dinamiche più profonde dei rapporti di classe all’interno del paese. Le forze di sinistra, al di là di ogni valutazione personale sui limiti della CGIL, dovrebbero inserirsi in questa mobilitazione, sostenere e far propria la lotta contro queste due riforme, esplicitando in quella sede quali sono i loro programmi, radicalizzando, ove possibile e praticabile, le loro strategie sull’uscita dalla guerra, affinché in quella piazza emerga un’opposizione visibile e praticabile al Governo Meloni.
Il 1 Giugno invece, si terrà una mobilitazione indetta da una serie di organizzazioni politiche e sociali a Roma, sempre contro il Governo Meloni. La piazza di Roma del 1 giugno ha un connotato più radicale ed estremista rispetto a quella di Napoli; inoltre tende a coinvolgere un ampio raggio di associazioni e movimenti, a partire dai gruppi di studenti che si sono mobilitati sul genocidio a Gaza, ad alcuni sindacati di base fino a gruppi vari della sinistra radicale. Il perno dei contenuti e della piattaforma della manifestazione riflette – almeno in parte – il percorso che, a partire dalle associazioni dei giovani palestinesi, ha visto una parte della società mobilitarsi perennemente sulla questione del genocidio a Gaza e sulle gravi responsabilità del Governo e di molti apparati dello Stato e dell’economia nel supportare, di fatto, questo genocidio. Porre la questione del genocidio in Palestina e delle pesanti implicazioni del Governo Italiano in questo crimine contro l’umanità rappresenta indubbiamente un contenuto che va posto all’attenzione dell’opinione pubblica attraverso una mobilitazione di piazza, tanto più che s’inserisce in un processo più generale che attraversa tutta l’Europa, quindi è opportuno per le forze che si richiamano alla solidarietà con i palestinesi aderire a questa giornata.
Dal nostro punto di vista, tuttavia, anche nelle giornate di mobilitazione contro il Governo Meloni si riproduce sempre la frammentazione dominante a sinistra di cui non capiamo pienamente il significato più profondo. Con ciò non vogliamo dire che le differenze debbono annullarsi, scomparire in un indifferenziato popolo di sinistra in cui vengono incorporate anche posizioni di riformismo guerrafondaio, ma che, almeno sul Governo Meloni e la pace si potrebbe definire alcuni punti determinanti su cui mostrare al paese che c’è una sofferenza, un disagio profondo sia sulle politiche guerrafondaie sia sui progetti di trasformazione in chiave autoritaria e regionalista, portati avanti dal Governo stesso.