Nelle ultime settimane dello scorso anno abbiamo assistito, tra l’ammirato (per la capacità di reazione dei lavoratori), lo speranzoso (che anche nel Belpaese si possa sviluppare nuovamente un movimento di classe di una certa entità) e l’invidioso (per la solidarietà dei cittadini che non hanno criticato le lotte), alla radicale protesta sociale e sindacale contro la riforma delle pensioni del governo francese. In più di tre settimane di mobilitazioni, da inizio dicembre, i lavoratori del trasporto pubblico hanno messo in ginocchio l’intero paese per contrastare una riforma delle pensioni per la categoria che avrebbe innalzato l’età pensionabile a 64 anni dagli attuali 62, diritto conquistato a suon di lotte e di battaglie nel corso degli ultimi decenni del Novecento. Il Presidente Macron e il Primo Ministro Philippe hanno ingaggiato un braccio di ferro con il fronte dei sindacati che sono riusciti a mantenere fino in fondo l’unità, dai più radicali a quelli più moderati, conquistando una vittoria decisiva, dopo la sconfitta di in paio di anni fa quando, appena eletto, Macron avviò la controriforma del lavoro in Francia sul modello del Jobs Act italiano.
La lotta dei lavoratori del trasporto pubblico, di chiara matrice sindacale, arriva dopo il fenomeno dei gilets jaunes, che per mesi ha tenuto le cronache con manifestazioni continue in tutta la Francia contro l’aumento del carburante: a differenza del movimento dei gilet gialli, le proteste di dicembre guidate dai sindacati ha evidenziato la netta connotazione di classe della opposizione categoriale che ha fatto riemergere con forza le profonde contraddizioni sociali della Francia.
La difesa di diritti, che vengono presentati come privilegi di una corporazione, come viene descritta quella dei lavoratori del trasporto pubblico secondo la narrazione dominante, è in realtà una battaglia generale per evitare una regressione generale rispetto alle conquiste ottenute con la lotta, e che rappresentano un avamposto del processo di democratizzazione e del livello di redistribuzione della ricchezza attraverso forme di salario sociale.
L’interesse che è emerso attorno alle lotte in Francia - dalle mobilitazioni contro la riforma del lavoro che furono sconfitte, alle proteste “di popolo” dei gilet gialli, fino ai recentissimi scioperi e manifestazioni di piazza dei sindacati - è dovuto alla radicalità che sempre i francesi hanno saputo esprimere, ma soprattutto per la componente di resistenza ai processi di attacco frontale ai diritti dei lavoratori, complementari allo smantellamento delle strutture pubbliche e alla prospettiva di privatizzazione dei servizi sociali, come predica la dottrina dell’iper-liberismo selvaggio in cui il modello capitalistico delle relazioni socio-economiche sono estremizzati e portati alle estreme devastanti conseguenze.
In molti abbiamo considerato la lotta francese come un modello di resistenza attiva ed efficace all’aggressività degli interessi borghesi di distruzione delle strutture sociali costituite nel corso del secondo Novecento: ci siamo interrogati sulle modalità della mobilitazione, sulla radicalità e determinazione dello scontro, sulla solidarietà che la popolazione, evidentemente colpita dal blocco sostanzialmente totale dei trasporti - metropolitane, treni, aerei, pullman - non ha esitato a manifestare per la difesa di un diritto. Non ci sono state defezioni, non ci sono state contrapposizioni e critiche, ma solidale sopportazione e sostegno alla lotta dei trasportatori pubblici.
Qual è il motivo per cui, al di là di un generico riconoscimento della lotta dei lavoratori francesi, non è possibile replicare una mobilitazione sociale e sindacale di tale portata in Italia? Qual è la composizione sociale e le relazioni di classe, i rapporti politici e le incrostazioni ideologico-culturali che impediscono una analoga reazione?
Se analizziamo il livello di mobilitazione sviluppato in Italia negli ultimi trent’anni possiamo osservare che la conflittualità sociale e sindacale è stata agita prevalentemente da varie organizzazioni del variegato e diviso sindacalismo di base, talvolta con uno sforzo unitario, ma spesso (quasi sempre) isolatamente o con alleanze a geometria variabile. Per quanto riguarda le maggiori centrali sindacali, quelle confederali di CGIL, CISL, UIL, abbiamo assistito ad un progressivo ritrarsi dalla conflittualità per assumere un profilo di funzione politica, propedeutica alla costituzione di fronti su temi generali (le questioni della difesa costituzionale e dell’antifascismo) fino a iniziative di proposte legislative a carattere popolare (sulla rappresentanza).
Questa trasformazione progressiva, che da un ambito rivendicativo, ha portato la triplice confederale ad assumere una funzione sempre più politica, da una parte si è resa necessaria ed è stata possibile per la radicale perdita di rappresentanza istituzionale della classe lavoratrice dovuta alla trasformazione dei partiti della sinistra di classe in formazioni liberal-democratiche (di centrosinistra, o addirittura di centrodestra) e alle controriforme elettorali e costituzionali che negli ultimi trent’anni hanno ridotto gli spazi politico-istituzionali alle ultime espressioni della cosiddetta Prima Repubblica, come il PRC e poi il PdCI, risucchiati nell’area governista o sospinti nella marginalità per una progressiva perdita di radicamento nelle masse popolari, nella classe lavoratrice tradizionale (in cerca di protezione che queste formazioni non sono più in grado di garantire di fronte ai brutali attacchi del capitale) e per la non connessione con le nuove figure del precariato, privo di legame sociale e culturale la cui frammentazione annienta la coscienza di classe.
In questo vuoto politico di rappresentanza, i sindacati della triplice confederale hanno avuto un ruolo politico, abdicando però contemporaneamente alla mobilitazione e al conflitto sociale. Per fare un esempio in parte analogo alle questioni che hanno infiammato la Francia nelle ultime settimane, a fronte della vituperata “riforma Fornero” la reazione fu uno sciopero generale dei confederali CGIL, CISL, UIL di tre ore, a dicembre 2011, seguito da numerosi scioperi di categoria e dei sindacati di base per lo più incentrati sul contratto. A questa riforma pensionistica improntata alle “lacrime e sangue” non fu opposta nessuna resistenza reale, se non di facciata, assolutamente non equiparabile a quella esercitata in Francia.
Se cerchiamo di motivare questa situazione possiamo intanto affermare che la struttura del più grande sindacato confederale un tempo di classe, la CGIL, si è trasformata in una organizzazione prevalentemente di pensionati; sul piano politico, la CGIL ha assunto sempre di più una marcata matrice riformista e sostanzialmente moderata: tra l’ultimo decennio del Novecento e i primi anni del XXI si è sviluppato uno scontro devastante per l’egemonia nelle tradizionali organizzazioni della sinistra di classe, tra le componenti del riformismo moderato e quelle del riformismo più movimentista. Non a caso, lo scontro si alimenta nel momento in cui il neonato partito liberaldemocratico (che da PDS si sarebbe trasformato in DS, infine in PD inglobando, ma restandone irretito, la componente democristiana della Margherita/Popolari), dalla concezione consociativa del PCI va via via assumendo posizioni sempre più governiste, fino a promuovere una riforma che trasforma l’assetto di compatibilità che da decenni era stato adottato (fin dagli anni ’70) in sistema, quando nel ’92-’93 viene stipulato l’accordo redatto dall’allora Primo Ministro Ciampi fondato sul principio della “concertazione”.
Il processo politico che stava procedendo alla “normalizzazione” della situazione italiana, con la rimozione della questione comunista dallo scenario nazionale, secondo il progetto della loggia massonica eversiva Propaganda 2 di Licio Gelli, determinava un traghettamento delle componenti sociali, di classe, e culturali ideologiche della sinistra di classe (non più rivoluzionaria, ma comunque ancora orientato ad una prospettiva di mutamento sociale) verso una visione di governabilità dei processi capitalistici. La sterzata a destra delle formazioni politiche della sinistra comunista e socialista tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila ha provocato una deflagrazione nel campo delle organizzazioni tradizionali delle classi lavoratrici, distruggendo l’orizzonte politico di una svolta politico-sociale.
In una situazione così incerta come quella italiana, determinata da un arretramento politico-sociale profonda iniziato negli anni ’70 e deflagrato con la fine del blocco dell’Est e la fine dell’URSS, la ricomposizione sociale e sindacale che promuova una nuova unità di classe e la costruzione di un blocco sociale e storico tra soggetti sempre più frammentati e precari sembra necessaria, ma sempre più difficile da realizzare. Accanto alla svolta moderata dei confederali la divisione del sindacalismo di base resta una delle problematiche che impediscono tale ricomposizione: tuttavia, occorre anche sottolineare che non è solamente un problema di volontà soggettiva, ma una vera e propria caratterizzazione dell’attuale fase storica, in cui il capitale ha prodotto una frammentazione sociale, lavorativa e conseguentemente contrattuale così profonda che le divisioni e le contrapposizioni che attraversano le forze più conflittuali del sindacalismo di base sono espressione di tale disarticolazione strutturale.
In questo scenario, ora più che mai occorrerebbe che si attuasse un processo costituente di una forza politicamente e coerentemente di classe, comunista e anticapitalista, che ponga le premesse e getti le fondamenta per la ricostruzione di una alternativa economico-sociale e storico-politica, e che individui le forme organizzative e gli obiettivi di fase in uno scenario in cui il capitalismo mostra tutta la sua fragilità e disparità, e proprio per questo viene difeso ferocemente e violentemente dalle elite privilegiate delle classi dominanti.
Quello che ci aspetta è una lunga fase storica in cui, senza assumere atteggiamenti disperanti, l’ipotesi di rappresentanza politico-istituzionale per le forze anticapitaliste di sinistra, socialiste e comuniste, è incerto, quando non precluso: occorre mettere in campo una proposta politica unitaria, come quella avanzata nell’assemblea del 7 dicembre scorso, per dare un riferimento programmatico e ideologico-culturale su cui costruire una opposizione sociale e al contempo avviare una vera e propria fase costituente per ricostruire un fronte unitario che fornisca alle nuove figure del proletariato l’indicazione di ricomposizione di un nuovo blocco storico-sociale anticapitalista antagonista ai richiami delle destre sovraniste, xenofobe e razziste, funzionali agli interessi del capitale.