L’industria del sesso è violenza

Prostituzione e pornografia possono essere considerati veramente un lavoro come un altro? Un punto di vista disincantato sulla violenza sulle donne e sull’importanza di riflettere sulla “libera scelta”.


L’industria del sesso è violenza Credits: modenatoday.it

Facciamo un gioco di immaginazione.

Facciamo finta che voi siate sul vostro posto di lavoro, qualsiasi esso sia. Se siete donne, immaginate che a un certo punto qualcuno (sentendosene in diritto in quanto superiore, collega o cliente, poco importa) vi insulti dandovi della “troia” o della “puttana” per un fatto connesso alla vostra prestazione professionale: “ti avevo commissionato un’altra cosa, puttana!”, “cosa hai detto in riunione, troia?”, “hai combinato questo disastro, sei ignobile, una chiavica, meriti solo sberle!” e via dicendo. Se siete uomini, immaginate di assistere a un trattamento simile nei confronti di una collega, di un’amica, di una congiunta o fidanzata eccetera. Oppure potete evitare di immaginare e fare riferimento, giusto per riprendere uno tra i vari e più recenti casi di cronaca, a quanto accaduto alla giovane deputata democratica americana Alexandria Ocasio-Cortez, insultata dal collega repubblicano Ted Yoho che l’ha definita, tra le altre cose, “fottuta puttana” al Campidoglio di Washington DC.

In un contesto lavorativo qualsiasi, cosa accadrebbe? È più che ragionevole, nonché auspicabile, ritenere che la persona insultata reagisca, sentendosi magari umiliata e offesa in quanto donna, lavoratrice, essere umano… Potrebbe anche scattare una denuncia, senz’altro. La cosa farebbe notizia e non si troverebbe giustamente una sola persona disposta pubblicamente a giustificare l’aggressore e/o disposta a essere trattata in tal modo sul proprio posto di lavoro (né altrove) [1].

Ma tutto ciò non accadrebbe nel “contesto lavorativo” dell’industria del sesso. No, nel mondo della pornografia, così come in quello della prostituzione, le offese misogine, la violenza verbale (e fisica), l’umiliazione, la ridicolizzazione e discriminazione fisica ecc. sono una vera e propria prassi, considerata legittima parte integrante del “prodotto” in vendita, nonché legittima parte integrante del consumo del cliente e non fa assolutamente alcuna differenza se la donna in questione si trovi a fornire la propria prestazione all’interno di un contesto normato o legalizzato oppure, al contrario, clandestino: possiamo, al limite, assistere a una variazione di intensità della violenza, che può ovviamente giungere a picchi disumani (tratta, mutilazioni, uccisioni) a seconda dell’intensità della sommersione del fenomeno.

Già questo primo e fondamentale aspetto sarebbe sufficiente per dedurne che l’industria del sesso – così intrinsecamente connessa alla oggettivizzazione estrema delle donne e alla loro disumanizzazione, nei fatti e nei linguaggi – non può seriamente essere considerata allo stesso tempo un “settore lavorativo” come gli altri (perché negli altri, appunto, la misoginia, le violenze e le offese a danno delle lavoratrici sono bandite e perseguite) né può essere seriamente considerata, da chi combatte ogni genere di oppressione, un settore del mondo del lavoro accettabile nel caso – così dicono i e le liberal – di lavoratrici “consenzienti” regolarizzate.

La presunta regolarizzazione della prostituzione e delle c.d. “sex workers” infatti non sposta realmente di una virgola il problema della violenza sulle donne ma, semplicemente, ne normalizza la brutalizzazione dietro il belletto della presunta “libera scelta” individuale, pretendendo altresì di eliminare tutto il portato di stigma – che sfido chiunque a definire debellato – nei confronti di chi si prostituisce la quale, potendosi definire “lavoratrice del sesso” e non “prostituta” (e varianti linguistiche più colorite ma non per questo meno diffuse) verrebbe ammantata di una presunta professionalità socialmente valorizzante.

Guardiamoci in faccia e ammettiamolo senza mezzi termini, con l’ausilio di una frase di fantozziana memoria: tutto questo è una cagata pazzesca.

La maggior parte delle persone che non sono direttamente coinvolte nell'industria del sesso non hanno alcuna coscienza di ciò che accade dentro di essa oppure ne hanno una coscienza distorta oppure, ancora, non hanno fatto sufficienti sforzi per scoprire cosa il coinvolgimento al suo interno comporta – al di là, appunto, delle idilliache convinzioni in merito all’esistenza di persone che avrebbero consapevolmente scelto di mettere a profitto (spesso altrui) il proprio corpo, accettando senza presunto condizionamento alcuno l’idea di venire costantemente zittite, insultate, svilite, oggettivate, comandate, cancellate, identificate con una parte sessualizzante del loro corpo e annullate come persone e via dicendo.

Bisogna onestamente riflettere su quali siano le reali implicazioni della normalizzazione della prostituzione e quali i “risultati” effettivamente raggiunti, laddove le singole legislazioni consentano ciò come, per esempio, il ben noto caso della Germania.

Innanzitutto, non è difficile farsi un’idea della nauseante dose di violenza e di normalizzazione della compravendita dei corpi e delle dignità umane nel mondo della prostituzione (così come in quello della pornografia). Sono purtroppo numerosi i siti ove si possono reperire informazioni in merito, dove gli uomini recensiscono, come fossero bistecche, le donne che si prostituiscono oppure dove espongono impunemente le loro teorie [2] in cui spiattellano senza mezzi termini la giustezza della sproporzione dei rapporti uomo-donna degni di una visione rimasta ferma a ere ancestrali nella migliore delle ipotesi.

Per ovvie ragioni connesse alla non volontà (e, francamente, al disgusto) di fare pubblicità a tali individui, ometto l’allegazione di link, ma basta veramente poco per scoprire i siti e i blog della cosiddetta “teoria redpill” che, disvelando tutta l’imbarazzante frustrazione dell’uomo contemporaneo tanto più se dominato dall’ideologia dominante, pretenderebbe di fuoriuscire dal “politically correct” e aprire gli occhi ai propri adepti in merito alla necessità di debellare il femminismo e veicolare la verità sulle donne che loro sanno: ossia che le donne vigliaccamente evitano di ammettere che quello che cercano in realtà è di sottomettersi a uomini oggettivamente belli (esisterebbe la bellezza oggettiva, infatti) e socialmente agiati, non avendo alcuna importanza la loro personalità o il loro carattere e ritenendo, pertanto, un diritto sacrosanto il fatto di insultare, svilire, disprezzare e punire le donne in quanto tutto ciò le renderebbe esseri crudeli e sadici nei confronti del “povero” genere maschile.

Chiaramente, chi si definisce “redpill” non riesce ad ammettere e concepire se stesso né come un frustrato (per quello hanno inventato la categoria di “incel”) né come un soggetto altrimenti terrorizzato dal genere femminile e dalla prospettiva della sua emancipazione, dovendosi pertanto necessariamente rifugiare nella presunzione e nell’arroganza di affermazioni e teorie retrograde, patetiche, incivili e cavernicole. Che, tuttavia, non vanno sottovalutate nella loro diffusione e pericolosità.

Anche l’industria pornografica offre numerosi spunti, per chi li vuole vedere, per riflettere sulla brutalizzazione femminile, a partire dai semplici titoli dei film disponibili sul web che offrono miriadi di imbarazzanti esempi di come, per rispondere a un recondito desiderio di dominanza, l’utente abbia bisogno di insultare la donna protagonista del girato, di etichettarla (a volte come “materiale esotico”, con buona pace dell’antirazzismo), degradarla e violentarla.

Ovviamente sono pienamente consapevole che la reazione più comune a quanto sinora esposto sarà un commiserevole tentativo di relegare tali idee a un presunto “bigottismo” e “puritanesimo”, nella migliore delle ipotesi, oppure, anche peggio, al tentativo di affermare che sostenere la cancellazione definitiva di queste forme di violenza sulle donne equivalga a negare l’“autodeterminazione” di chi vende i suoi servizi sessuali pensando di svolgere un lavoro come un altro, sentendosi “libera” e soddisfatta, appagata e in qualche modo più antisistema e di larghe vedute di altri.

Ebbene, correrò questo rischio perché ritengo troppo, troppo, importante sostenere questa battaglia e portarla avanti.

Cosa succede in Germania dove le c.d. “sex workers” possono regolarizzarsi e pagare le tasse dal 2002, come se il mero regime fiscale e giuridico esaurisse la dimensione di sfruttamento delle donne prostituite? Leggendo e documentandosi sul web (chiunque può farlo) emerge che non solamente la percentuale di emersione e regolarizzazione delle prostitute è estremamente bassa rispetto al dato reale, per quanto che la prostituzione (strada, appartamenti, bordelli), compresa quella online, è ora maggiormente diffusa e spesso gestita dalla criminalità organizzata che controlla i quartieri a luci rosse; i proprietari di famosi e pubblicizzatissimi bordelli, non di rado celebrati come importanti businessman, promuovono formule “all you can fuck” come al sushi sotto casa, massimizzando i profitti sul corpo e l’attività delle donne riducendone al minimo le paghe, e “pacchetti tutto compreso” per visitare i numerosi bordelli di Berlino e altre città tedesche si moltiplicano online con descrizioni che pur di negare la realtà dei fatti – ossia che trattasi di bieco turismo sessuale – possono concedersi, sfruttando la “legalità” dell’ambito in questione e per farsi pubblicità, di ammiccare addirittura all’idea di trascorrere una vacanza all’insegna dell’approccio “naturistico”, della “vita comunitaria, senza limiti all’espressione della propria sessualità e dei propri istinti” (sic) anche senza costringersi all’uso di protezioni contro le malattie sessualmente trasmissibili (infatti, più che raddoppiate in Europa negli ultimi anni [3]). Che sensazione di libertà, non trovate!!??? Peraltro, è interessante notare come, se da un lato l’approccio liberal pretende di dire che la regolarizzazione delle sex workers eliminerebbe lo stigma sociale su di esse e sulla prostituzione in generale (“un lavoro come un altro”), dall’altro i test per sottoporsi alle malattie sessualmente trasmissibili sarebbero (giustamente) resi in forma anonima [4]. Ma tant’è.

Nel frattempo numerosi bordelli nel corso degli anni sono stati chiusi dalle autorità per traffico di esseri umani, un numero sempre maggiore di donne (e di prostitute) viene ucciso e la prostituzione sta offrendo nuove sponde all’industria pornografica come nel caso delle società (di cui, come sopra, si omettono nomi per evitare involontarie pubblicizzazioni) che pagano prostitute e aspiranti partecipanti ai film che si vogliano proporre e si pubblicizzano mostrando immagini di donne dagli orifizi infiammati o completamente ubriache oppure, ancora, intente a vomitare mentre, durante il sesso orale, vengono loro fatti ingoiare quantitativi di cibo.

Eppure tutto avviene sotto regolare contratto, molto spesso, e dietro la presunta volontà della diretta interessata. Ecco il livello di rispetto nei confronti delle donne che esiste nel mondo dell’industria del sesso, anche laddove la prostituzione sia stata “legalizzata”. Ecco cosa significa, realmente, la compravendita del sesso: violenza, misoginia, regressione e null’altro. Ecco per quale ragione, in fondo, viene così osteggiato il modello abolizionista (adottato in alcuni paesi come la Svezia, per esempio) e in generale l’idea di respingere risolutamente la teoria della prostituzione come lavoro e della liberalizzazione del fenomeno come metodo per liberare dallo sfruttamento i “sex workers”.

Bisogna guardare le cose per quello che sono e comprendere che, con ogni evidenza, la “libera scelta” non può che continuare a essere una parte preziosa dell’emancipazione attiva e del percorso femminista e tuttavia essa deve essere necessariamente pensata in termini collettivi, non già meramente individualistici.

A meno di voler negare l’esistenza di una dimensione oppressiva vissuta dalla stragrande maggioranza delle donne sfruttate nell’industria del sesso, vogliamo oppure no riflettere su cosa di fatto comporta, in primis su queste ultime, la individualistica scelta di credere di azzerare l’esistenza del sessismo e della violenza sulle donne perché “io mi sento libera e non oppressa nel vendere il mio corpo”? Vogliamo riflettere su cosa implica convincersi di non stare parlando di effettiva oggettivazione nel momento in cui qualcuno compra del sesso, trovando tutte le più varie scusanti del caso sia per chi si offre sia per chi acquista, che tuttavia non cancellano neanche in minima parte cosa questo realmente comporti per chi quella scelta l’ha solo dovuta subire, cancellando la propria dignità di donna e di persona?

Guardiamo la potenza del sessismo, nel suo ultimo connubio col capitalismo: la donna si illude di esercitare un potere perché viene compensata per risultare appagante, il sistema nutre le più alte aspettative di libertà estraendo profitti dalla mercificazione dei corpi.

Non ogni scelta che facciamo è femminista. Non se, al fondo, essa risponde più alle sirene lontane e ammiccanti del liberismo sfrenato che al grido di dolore di masse oppresse da secoli di violenze sessiste. 

Note:

[1] Per inciso, nell’affaire Ocasio-Cortez/Yoho, lui si sarebbe “scusato” asserendo di avere moglie e figlie (SIC), come se tale circostanza auto-dimostrasse alcunché, mentre lei ha giustamente rispedito al mittente le pietose scuse rispondendo all’individuo in questione al Congresso.
[2] Questo interessante blog si occupa di raccogliere e mostrare le “recensioni” dei clienti delle prostitute, mostrandole in tutta loro crudezza: esisterebbe anche una relativa pagina Facebook (denominata “Sex industry is violence”) che viene, tuttavia, ciclicamente chiusa e censurata su segnalazione, pare, di persone contrarie all’abolizione della prostituzione, o perché clienti o perché attivisti pro-regolarizzazione. In questo momento, infatti, la pagina è irraggiungibile. Inutile specificare che, al contrario, i contenuti violenti delle pagine facebook gestite da redpill e simili risultano sempre liberamente accessibili.
[3] Publications & Data | European Centre for Disease Prevention and Control
[4] HIV/STI-Prävention

02/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: modenatoday.it

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L'Autore

Leila Cienfuegos

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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