Il Governo istituirà una Commissione “indipendente” incaricata di studiare la "radicalizzazione" nell'ambito delle comunità islamiche. Parlare di emergenza e di innalzamento di misure di sicurezza, non è un comportamento utile alla risoluzione di un fenomeno così complesso e al contrario ci parla di un allarme democratico.
(ANSA) - ROMA, 18 LUG - Il Governo istituirà una Commissione indipendente, formata cioè da esperti e tecnici, incaricata di studiare la "radicalizzazione" nell'ambito delle comunità islamiche. Lo hanno riferito al termine dell'incontro tra governo e capigruppo a Palazzo Chigi, Arturo Scotto e Loredana De Petris, capigruppo di Sinistra Italiana.
Questa decisione mi è apparsa subito di grande importanza, dato che, parlare di emergenza e di innalzamento di misure di sicurezza, non è un comportamento utile alla risoluzione di un fenomeno così complesso.
La cosa che stupisce però, è che questo genere di studi sono iniziati dopo l’attentato dell’11 settembre del 2001, e hanno dato alla luce degli scritti molto approfonditi e l’organizzazione della prevenzione del fenomeno già da qualche anno, in Italia e in Europa. Come mai, è spontaneo chiedersi, non sono state neutralizzate prima che accadessero almeno alcune delle azioni terroristiche avvenute? Credo che una delle risposte sia nella mancanza di un coordinamento efficiente tra le varie strutture europee e nazionali, come, purtroppo, nella scarsa lungimiranza politica nell’osservare i fenomeni sociali e i grandi cambiamenti che hanno prodotto.
L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari ha pubblicato una ricerca, nei suoi quaderni del 2012, che dimostra una grande conoscenza e competenza riguardo tale fenomeno. La formazione e l’organizzazione hanno coinvolto anche il personale penitenziario, perché è proprio in carcere che il fenomeno della radicalizzazione può avere una sua base di diffusione.
Ho trovato di grande interesse e importanza quanto ha scritto allora Francesco Cascini, Magistrato Direttore dell'Ufficio per l'attività ispettiva e di controllo presso il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, in “Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico”.
La sua ricerca inizia con i riferimenti storici che riguardano le origini nel conflitto arabo-palestinese, tocca gli aspetti della manipolazione religiosa e fornisce il profilo dell’individuo a rischio. A proposito di Jihad, riporto quanto scrive Cascini, proprio perché chiarisce un punto importante, rispondendo anche a chi ha polemizzato proprio su questo termine:
“La parola “jihad” non significa “guerra santa”, come comunemente, ma erroneamente, si crede, bensì, “sforzo”, e più precisamente sforzo interiore (grande jihad), lotta per raggiungere un determinato obiettivo, di norma spirituale. Il termine, nella sua accezione più vasta indica uno sforzo serio e sincero che il credente compie in una duplice direzione, quella personale per riuscire a conformare il proprio comportamento alla volontà di Dio e quella sociale per rimuovere il male, l’indolenza e l’egoismo da se stessi, l’ingiustizia e l’oppressione dalla società. La giustizia, nell’ottica islamica, non si raggiunge attraverso la violenza o la prevaricazione, ma attraverso lo sforzo interiore e personale di ciascuno, attraverso mezzi leciti ed istruttivi che possano spingere gli uomini alla conoscenza, alla perfezione, per quanto possibile. Jihad significa lavorare molto per realizzare ciò che è giusto: il Corano lo nomina 33 volte, ed ogni volta esso ha un significato differente, ora riferito ad un concetto come la fede, ora al pentimento, alle azioni buone, all’emigrazione per la causa di Dio”.
Di qui in poi, la strumentalizzazione successiva del Corano e delle parole, dall’ultimo secolo e ancor da prima. Poiché, dare un’identità ai conflitti di origine economico-politica radunandoli sotto la bandiera dell’islamismo, accresce il peso dello scontro con il mondo occidentale-imperialista.
Cosa succede in un’ Europa in cui lo scenario che si presenta, oggi, è quello di una popolazione musulmana perlopiù disoccupata o non inserita socialmente, che si rivolge all’islam per trovare una propria identità? Quali le politiche e le azioni da mettere in campo, perché la divaricazione economica non getti la maggioranza di coloro che si spostano per conquistare una vita dignitosa, non vengano gettati nello sconforto?
Vengono chiamati homegrown, i figli di immigrati nati e cresciuti in occidente, che si radicalizzano, si tratta generalmente di soggetti resi vulnerabili da situazioni di disagio sociale, economico, o ambientale che scelgono l’opzione violenta in seguito a condizionamenti da parte di corregionali. Questo processo si sviluppa anche senza contatti coi paesi d’origine, in modo autoctono, nel paese in cui si è nati e si vive. Di solito avviene prima la radicalizzazione della propria conflittualità e poi l’islamizzazione. Cioè, prima c’è il rigetto della società in cui si vive da emarginati, e poi la legittimazione di questo rifiuto attraverso un percorso di islamizzazione. Questo è fondamentale per capire la logica che sta alla base, infatti non è vero che dietro alla scelta dell’azione estrema, c’è una conoscenza profonda dell’islam.
Della figura di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore del lungomare di Nice, dicono gli specialisti dell’associazione “Entre-nous”, il principale team anti-radicalizzazione religiosa della città francese. “Non c’è Islam nella storia del killer – spiega Benjamin Erbibou, uno dei dirigenti del gruppo – Nella sua follia è passato direttamente al livello politico-militare saltando la fase del fondamentalismo religioso”.
E Brigitte Juy, psicologa delle rete “Genitori solidali” di Nice, afferma che da qualche tempo si trovano in presenza di qualcosa di nuovo e ancora più pericoloso che si fa strada soprattutto fra i giovani, la violenza cieca che si appropria degli adolescenti, senza avere caratteristiche culturali o religiose. [1]
Già avevo scritto: “La Francia accoglie specialmente chi proviene da paesi ex colonie o protettorati, però la politica dell’assimilazionismo prevede che chi viene accolto, lasci da parte le proprie radici identitarie. Ma è stato osservato e studiato da esperti sociologi, antropologi e psichiatri quanto questo tipo di politiche e la mancanza di attenzione per gli effetti che provocano sulle persone, siano un rischio non solo per l’individuo, ma per la comunità e quindi per la società. In una situazione di difficoltà e di disagio socio-economico, di mancanza di orizzonti di sviluppo concreto per la propria vita, sono proprio le radici identitarie e culturali che soccorrono la persone nelle fasi di passaggio, specialmente nell’età adolescenziale.
Marie Rose Moro [2], che svolge la professione di etno-psichiatra infantile a Parigi nelle zone più disagiate, nei suoi testi narra della destrutturazione delle personalità e la frammentazione delle identità di bambini ed adolescenti migranti che hanno perso il contatto con le proprie radici. Il punto è come soccorrere la persona perché la sua personalità si ricostituisca e riorganizzi in modo tale che non perda il contatto con la realtà e le relazioni più importanti.” Dalle banlieux di Parigi e di Bruxelles al Kalashnikov Novembre 20, 2015
Torno così all’inizio, alla questione a cui l’Europa e le sue istituzioni, non hanno ancora saputo rispondere. L’oggi pone domande che non si possono eludere: la questione delle migrazioni e della convivenza sociale dignitosa per popolazioni e culture diverse. L’attivazione di politiche dell’accoglienza, ma, soprattutto, politiche economiche ispirate ai principi di solidarietà e non a quelli del profitto del Pensiero unico.
L’Europa dell’Illuminismo, del paese dal motto rivoluzionario: Liberté Égalité Fraternité ha smarrito la sua Ragione e dimenticato il significato di Eguaglianza e Fraternità.
E, per quanto attiene alla commissione sulla radicalizzazione istituita dal nostro governo, vorrei lanciare un appello perché sia davvero efficiente e coinvolga quegli specialisti e quelle specialiste che davvero possono contribuire a rendere un lavoro di analisi anche un valido strumento d’azione e non una limitazione delle agibilità democratiche.
Note:
[1] Riportato da Cosimo Caridi e Lorenzo Galeazzi sul Fatto Quotidiano del 18 luglio
[2] Dirige il Servizio di Psichiatria del Bambino e dell’Adolescente all’Ospedale Avicenne a Bobigny (Parigi), dove è succeduta a Serge Lebovici.