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Gli Stati Uniti sola grande potenza mondiale
Lo scioglimento dell’Urss ha consentito agli Usa di espandere enormemente il proprio predominio politico-militare a livello mondiale. La fine del sostanziale equilibrio di poteri fra i grandi blocchi, che arginava per il rischio di una guerra atomica i conflitti armati e impediva aggressioni troppo smaccate di stampo neocoloniale ai paesi del Terzo mondo – che rivendicavano il loro diritto a una piena autodeterminazione – ha lasciato campo aperto alle guerre calde contro tutti quei governi e paesi ostili al nuovo ordine mondiale e alle esigenze del modo di produzione capitalistico di realizzare infine il proprio obiettivo: il mercato mondiale.
Il pensiero unico, le controrivoluzioni colorate e le guerre umanitarie
La ripresa del controllo delle potenze ex coloniali sul Terzo mondo, che era insorto e si era progressivamente liberato e autonomizzato nel secondo dopoguerra, si è realizzata lungo tre direttive principali: l’egemonia di quello che è stato definito il pensiero unico del neoliberismo, attraverso il controllo dei principali mezzi di comunicazione internazionali, e la sconfitta di tutte le altre ideologie; il sostegno ideologico, economico e militare alle opposizioni interne o a forze secessioniste non ostili al nuovo ordine mondiale; l’intervento militare diretto di grandi coalizioni internazionali, presentato come operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, guerra al terrorismo, esportazione della democrazia o difesa della popolazione civile ecc.
L’integralismo islamico
Con la sconfitta ideologica, politica e militare di gran parte delle forze emerse nel movimento anticoloniale, in diversi paesi, in particolare del mondo arabo, si sono affermati movimenti integralisti generalmente ultrareazionari che si oppongono non tanto alle mire neocolonialiste del mondo occidentale, ma all’intera cultura moderna e contemporanea.
L’emancipazione dell’America latina
Al contrario, nel primo decennio del ventunesimo secolo una parte significativa dell’America latina si è progressivamente emancipata dal dominio neocoloniale, dal meccanismo del debito internazionale e dallo strapotere delle multinazionali, con movimenti progressisti che mirano a realizzare un nuovo modello di sviluppo o quantomeno una reale indipendenza nazionale e una cooperazione fra paesi latinoamericani in grado di trattare da pari a pari con le grandi potenze mondiali: Usa, Unione europea e Cina.
La crisi di sovrapproduzione
D’altra parte lo strapotere politico-militare degli Usa è stato progressivamente controbilanciato da una gravissima crisi economica e potenzialmente sociale, per l’enorme aumento delle differenze sociali (oltre 30 milioni di statunitensi vivono sotto la soglia di povertà) che ha portato a mettere in discussione su questo piano l’egemonia statunitense a causa prima del boom economico giapponese, del rafforzamento dell’Unione europea con la riunificazione tedesca e poi, dopo che la crisi di sovrapproduzione ha colpito anche queste due superpotenze economiche, per l’enorme espansione dell’economia cinese.
Lo spaventoso debito statunitense
Del resto l’enorme sviluppo dell’apparato militare, se è stato decisivo per la vittoria nella guerra fredda e in seguito per il pieno affermarsi a livello globale dell’egemonia Usa, ha anche aggravato in modo spaventoso il deficit estero e interno, pubblico e privato degli Stati Uniti. Così, se le spese militari sono state utili a rinviare i contraccolpi della crisi di sovrapproduzione, hanno finito al contempo per accrescerne la portata.
La politica neoconservatrice
Inoltre l’aggressività della politica Usa sul piano internazionale, sotto i presidenti Ronald Reagan (1981-89), Bush padre (1989-1993) e Bush figlio (2001-2009) ha messo a dura prova la capacità di egemonia del modello americano a livello mondiale, solo in parte rilanciato dai grandi comunicatori Bill Clinton (1993-2001) e Barak Obama (2009-2016). Tale capacità egemonica è nuovamente precipitata dopo la discussa elezione del miliardario Donald Trump nel 2017, tanto che pare essere stata favorita dalla Russia. Al contrario la nuova amministrazione democratica di Joe Biden (2021) sta cercando di far recuperare al suo paese quella credibilità messa in discussione dalla precedente presidenza.
L’enorme inflazione del dollaro e il suo signoraggio
Inoltre l’esigenza di mantenere il consenso delle classi dominanti, tenendo sempre molto bassa la pressione fiscale, e delle classi subalterne, compensando il costante calo del potere d’acquisto dei salari con un credito a tassi di interesse irrisori, concesso anche a chi aveva scarse possibilità di ripagarlo, ha portato la Federal Reserve a stampare una quantità sempre maggiore di dollari, contando che la terribile inflazione sarebbe stata compensata dal fatto che il commercio mondiale, a partire dal petrolio, avviene essenzialmente in dollari non più convertibili in oro.
Il taglio delle spese improduttive: La fine del sostegno dell’imperialismo alle dittature di estrema destra
La fine dell’Urss e il parziale venir meno del terrore per il comunismo ha segnato la fine di tanti regimi di estrema destra, che si reggevano sull’appoggio del mondo occidentale e in particolare degli Usa in chiave anticomunista. Nel giro di pochi anni sono venute meno le dittature militari di destra dell’America latina (Cile, Argentina etc.) e dell’Asia (Taiwan, Corea del sud, Indonesia etc.). Particolarmente importante è stata la fine del sostegno occidentale al regime di apartheid sudafricano, con la creazione di uno Stato multietnico, presieduto dal leader democratico e antirazzista Nelson Mandela, sino ad allora in carcere con l’accusa di terrorismo, in coalizione con il partito comunista. Venuto meno il Sudafrica razzista anche le sanguinarie guerriglie controrivoluzionarie in Mozambico e Angola sono state sconfitte. La strategia dei colpi di Stato, anche se in versione soft, per portare al governo esponenti della destra più o meno radicale alleata agli Usa è ripresa negli ultimi anni in America Latina – nel 2009 in Honduras con il rovesciamento del presidente Zelaya, in Paraguay nel 2012 con la destituzione del presidente Lugo, in Brasile con la destituzione di Dilma Roussef. Vanno inoltre ricordate le “rivoluzioni colorate”, più o meno orchestrate dai servizi segreti in primo luogo americani, che hanno rovesciato, a partire dall’Ucraina, presidenti eletti filorussi per imporre degli oligarchi filo americani. Nel caso le controrivoluzioni “colorate” non si dimostrassero in grado di avere da sole successo, sono state portate a termine con l’intervento diretto della Nato, come ad esempio in Libia nel 2011.
I nuovi termini della questione arabo-israeliana
Del tutto fallito è stato, invece, il tentativo di risolvere la questione palestinese. Sebbene Rabin e Arafat abbiano firmato, su pressione degli Usa, nel 1993 un accordo di pace, già nel 1995 con l’assassinio da parte della destra sionista del presidente Rabin e la successiva elezione del principale esponente della destra guerrafondaia, Nethanyau, ha segnato il fallimento degli accordi. Ciò ha finito con lo screditare sempre più la leadership laica di Al Fatah di Arafat, che si era fatta garante degli accordi di pace, favorendo il crescere della popolarità dei gruppi islamici e in particolare di Hamas legato ai Fratelli mussulmani.
La crisi del processo di pace in Palestina
Dopo l’omicidio di Rabin e l’indebolimento di Arafat, accusato tanto di essere collaborazionista degli occupanti, quanto di essere troppo rigido da una parte del suo entourage, il processo di pace si è arenato.
La seconda Intifada
In una situazione già tesa nel 2000, la provocazione del leader della destra sionista Sharon, che passeggia sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, luogo sacro per i musulmani, scatena la rabbia dei palestinesi, che avevano continuato a subire l’occupazione israeliana nella vana attesa dell’accordo di pace.
Inizia la cosiddetta seconda Intifada, una rivolta generalizzata dei palestinesi, che cade nella provocazione dei suoi avversari, rispondendo alla durissima e sanguinosa repressione sionista con le armi. Su questo terreno i palestinesi non potevano che essere sconfitti, visto l’enorme potenza dell’esercito israeliano, sostenuto dalle maggiori potenze occidentali. La disperazione e le violenze subite hanno indotto alcuni palestinesi a rispondere sino al 2004 con attentati suicidi in Israele, che hanno favorito l’affermarsi in questo paese delle forze più oltranziste, alienando in parte il consenso internazionale nei confronti del popolo palestinese. Da parte sua Israele preferisce portare avanti una durissima repressione dell’autorità nazionale palestinese laica, piuttosto che delle forze islamiste in larga parte responsabili degli attentati. Ciò aliena ancora di più in occidente le simpatie per i palestinesi, consentendo ai sionisti di realizzare nel 2005 un enorme muro che ha finito con il rinchiudere gli abitanti di Gaza in una enorme prigione a cielo aperto separandoli dalla Cisgiordania e dividendo i palestinesi dei territori occupati da quelli che vivono, non senza difficoltà, nello stato sionista di Israele. Ciò ha impedito ai palestinesi di compiere i loro attentati e ha convinto la dirigenza sionista a evacuare le colonie nella striscia di Gaza, la cui difesa era ormai troppo costosa. Dopo la vittoria alle elezioni degli islamisti di Hamas nel 2006, non accettata dalle potenze imperialiste e filosioniste, si è arrivati a uno scontro fra le forze dell’Anp, accusate di essere collaborazioniste, e le forze di Hamas che hanno avuto la meglio. Tale situazione è stata sfruttata dai sionisti per imporre un blocco terrestre e navale a Gaza. Sul piano militare alla resistenza palestinese non è rimasto che rispondere all’occupazione e all’accerchiamento con il lancio di missili rudimentali che hanno causato pochi danni al nemico e gli hanno offerto l’opportunità di reagire con micidiali azioni militari che hanno impedito anche questa forma di resistenza, in particolare dopo i bombardamenti e l’invasione della striscia nel 2006, fra il 2008 e il 2009 e ancora nel 2014. Ai palestinesi non disponibili alla dominazione sionista – che si sentono sempre più abbandonati dalle loro leadership sempre più in lotta con loro e interessate a trovare una qualche forma di convivenza con la potenza occupante, anche per l’isolamento internazionale – non è restato che portare avanti una disperata e fallimentare intifada dei coltelli. La lotta contro l’occupazione è ripresa dopo che Trump ha deciso, provocatoriamente, di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendola così anche di fatto come capitale di Israele nonostante l’occupazione, contraria al diritto internazionale, della parte est della città sia in corso da oltre cinquant’anni. Trump ha riconosciuto anche le colonie costruite dai sionisti, contro il diritto internazionale, nei territori occupati e, sempre in spregio del diritto internazionale, ha riconosciuto la persistente occupazione sionista del Golan siriano. Infine si è speso per gli accordi di Abramo (2020), che hanno portato all’alleanza fra sionisti e paesi arabi conservatori e reazionari contro le forze della resistenza antimperialista in Medioriente. In tal modo Emirati Arabi, Bahrein, Sudan e Marocco hanno riconosciuto lo Stato ebraico, nonostante la persistente occupazione della Palestina. Il Marocco ha avuto in cambio dagli Stati Uniti il riconoscimento della sua occupazione del Sahara occidentale, dove ha fatto saltare i trattati di pace con i saharawi.