Palestina. Aida Camp è un insegnamento alla resistenza

La Resistenza dei giovani palestinesi di Aida Camp, un esempio di lotta contro l’occupazione e di speranza nella libertà e nel ritorno nella propria terra.


Palestina. Aida Camp è un insegnamento alla resistenza Credits: foto Silvia A.

È passato più di un mese dalla morte dei primi martiri a Gerusalemme per mano delle forze speciali della polizia sionista, un mese nel quale la rabbia e lotta per rivendicare la propria terra e i propri diritti si è accesa nel petto dei ragazzi palestinesi. Un esempio di lotta contro l’occupazione e di speranza nella libertà e nel ritorno nella propria terra.

di Silvia A.

Mi presenterò semplicemente come Silvia, senza appellativi o altri aggettivi. Faccio riferimento solo a me stessa, ai miei valori, agli amici e alla famiglia che ho al campo di Aida nella Palestina occupata, che mi hanno aspettata per nove mesi per poi riaccogliermi a casa. I motivi che mi hanno riportata al campo son tanti, dalla voglia di riabbracciare la famiglia e gli amici, al poter lavorare nuovamente a fianco delle insegnanti dell'asilo e centro Amal Al Mustaqbal, al matrimonio di un amico importante come un fratello, per vivere nuovamente il campo e per le ricerche della mia tesi che tratterà dell'agency e del ruolo attivo che i bambini hanno nella resistenza, non essendo meri soggetti passivi bensì agenti attivi capaci di rivendicare i loro diritti attraverso i loro sogni, le loro speranze e le loro azioni. Una volta ad Aida ho vissuto, al fianco degli amici, dei bambini e della famiglia.

È passato più di un mese dalla morte dei primi martiri a Gerusalemme per mano delle forze speciali della polizia sionista, un mese nel quale la rabbia e lotta per rivendicare la propria terra e i propri diritti si è accesa nel petto dei ragazzi palestinesi. Ero al campo profughi di Aida in quei primi giorni, la sera dalla mia cameretta scrivevo e raccontavo, la rabbia, la frustrazione che anche io stavo vivendo con loro davanti alle foto dei martiri, davanti all’impossibilità di andare a Gerusalemme perché occupata da coloni armati, davanti alla morte che il 5 ottobre è toccata ad Abdu Rahman, un bambino di 13 anni del campo, morto per un colpo dum dum, di quelli che ti esplodono dentro, sparato da un cecchino israeliano mentre chiacchierava con degli amici sulla via del ritorno a casa. Non è un terrorista, non lo sono gli altri martiri e nemmeno tutti quei ragazzi con i quali sono scesa anche io in strada e che ancora sono li, su quella via famosa solo per l’hotel Intercontinental e per la porta davanti alla quale Papa Francesco si è fermato a pregare.

Da quella porta non escono preghiere ma soldati, armati di lacrimogeni, proiettili di gomma e veri con lo scopo di potare avanti la pulizia etnica della Palestina attraverso le loro jeep, gli arresti e le intimidazioni proprio come è successo ad Aida, che prima di essere campo è casa, è il luogo in cui ho amici e una famiglia.

La sera del 29 ottobre scorso, dopo aver arrestato un ragazzo, rilasciato poi nella notte, e un’intera giornata di forti scontri e feriti, una jeep dell’esercito sionista è entrata al campo e, per la prima volta, Israele si è dimostrato per quello che è, la forza occupante. “Siamo i soldati dell’occupazione israeliana”, è così che si sono presentati i soldati prima di minacciare di uccidere donne, bambini, vecchi e giovani, di gasare tutti fino alla morte di ogni persona del campo; hanno invitato i giovani della resistenza a smettere di lottare, di lanciare pietre e di andare a casa se non volevano morire ed essere gasati nuovamente. Quando sono rientrata in Italia mi sono portata dietro la paura di perdere qualcuno, di dover sopportare l’attesa del giudizio per un arresto e così è stato.

Pochi giorni dopo il mio rientro, due amici molto importanti per me sono stati arrestati e sono ora nelle carceri israeliane, il campo è perennemente sotto una nuvola di gas tanto che ieri una casa ha preso fuoco a causa dei gas lacrimogeni che sono stati lanciati nel campo e che le sono entrati in casa oltre ad aver affaticato le vie respiratorie della signora. Oggi invece il fuoco bruciava dalla parte giusta, sotto quella torretta già annerata che presto cadrà. A volte è difficile anche per me affrontare tutto ma poi guardo le notizie sul web e li vedo sempre li, a combattere senza sosta da un mese, non si sono mai fermati.

Anche quando pioveva, anche quando hanno ucciso un compagno, anche quando l’esercito ha messo i blocchi di cemento davanti a un’entrata del campo e ha tagliato gli alberi del cimitero, i ragazzi ci sono sempre stati, con le loro kufie e la rabbia che da troppi anni brucia nel petto dei palestinesi, fiammella che ha sempre arso nel diritto al ritorno, nel sogno di pregare nella moschea di Al Aqsa o nella chiesa del Santo Sepolcro (perché in Palestina sono anche cristiani!), negli ulivi secolari, nelle rughe degli anziani e nella voglia di poter vivere, come mi hanno disegnato tanti bambini, in una Palestina libera, decolonizzata dal mostro sionista. Ed è così che ritrovo la forza, la voglia di lottare e di raccontare che poi alla fine si racchiude tutto dietro quegli occhi, quei sorrisi, quel tè alla menta, quelle strette di mani che mi hanno fatto sentire a casa.

"Aida, prima di essere campo, è un insegnamento alla resistenza, è un esempio di lotta contro l’occupazione e di speranza nella libertà e nel ritorno nella propria terra."

13/11/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: foto Silvia A.

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L'Autore

Silvia A.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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