Nessuna giustizia, nessuna pace

Spostare il livello dello scontro sul piano militare, dove nulla possono i palestinesi dinanzi allo strapotere degli occupanti sionisti, è il modo migliore per mettere ancora una volta da parte l’esplodere di una imponente lotta di massa, come era stata la prima intifada.


Nessuna giustizia, nessuna pace

Per approntare una visione distorta degli eventi ben più pericolosa delle fake news che, una volta denunciate, perdono gran parte del loro valore, vi è la narrazione parziale e omissiva degli eventi. Esemplare è, a tal proposito, la prima scena del film Novecento. Qui vediamo due validi attori che impersonano due persone distinte, legate fra loro da un sincero rapporto di amore, fuggire disperatamente davanti a una masnada di contadini imbufaliti, realisticamente rappresentati con tutti i loro limiti storici. Questi ultimi finiscono per linciare senza pietà i primi due. L’apparenza è che una massa di bifolchi dominata da passioni disumane massacra implacabilmente due malcapitati esponenti del ceto medio. Raccontata da questo punto di vista la storia porta inevitabilmente lo spettatore a prendere le parti delle due vittime, con le quali è immediatamente più facile impersonarsi.

D’altra parte, ricostruendo con un lungo e dettagliato flashback la storia precedente, veniamo a sapere che la massa inferocita è in realtà costituita da proletari agricoli che, dopo aver subito per oltre un ventennio ogni sorta di angheria da parte dei fascisti al servizio degli agrari, finalmente con la liberazione riescono a giustiziare gli esponenti più diabolici e crudeli del passato regime. Così, rivedendo la scena alla luce di tutta, o meglio di una parte significativa della storia precedente, anche il giudizio sugli eventi muta radicalmente. Quella che era apparsa una gratuita e barbarica violenza, diviene quello che realmente è, ovvero una “violenza seconda”, resa necessaria dal fatto che chi ora la subisce ha preteso di imporre per quasi un ventennio un’aperta dittatura di classe di contro alle masse popolari.

Il problema è che, di quanto avviene ancora oggi in Palestina, i mezzi di comunicazione di massa ci raccontano esclusivamente alcune scene della parte finale di una storia almeno altrettanto lunga e tormentata. In tal modo, come per magia, gli aggressori divengono aggrediti da una violenza apparentemente cieca e barbara da parte di individui con i quali – al contrario di come ci vengono presentati i reali aggressori – appare impossibile identificarsi.

Questo permette di comprendere come tutto l’arco parlamentare, a eccezione delle due residuali forze di sinistra, peraltro borghese e piccolo-borghese, potessero tranquillamente portare la loro incondizionata solidarietà con gli aggressori al momento aggrediti. Così la gran massa della plebe egemonizzata dall’ideologia dominante non potrà che dare credito alle dichiarazioni del leader dell’attuale principale partito italiano, il primo a cui è stata data la parola, che si è schierato con occupanti e coloni, contro gli autoctoni che cercavano di vendicare decenni di angherie di ogni tipo, in modo scomposto e ben poco efficace. Ciò consentirà allo stesso ministro degli Esteri di condannare ogni forma di violenza, denunciando in particolare quella degli autoctoni, intenti a lanciare razzi contro gli occupanti.

Riavvolgiamo il nastro e ricostruiamo la storia dal biennio chiave, 1948-49, quando i coloni sionisti hanno la meglio sugli autoctoni palestinesi, e prendono con la forza il controllo di gran parte della terra di questi ultimi, compresa la zona ovest di Gerusalemme.Di lì a poco, venne varata una delle prime – problematiche leggi, quella sulle proprietà degli assenti, che conferiva a un’amministrazione il compito di gestire le proprietà in questione per un determinato periodo, alla fine del quale sarebbe avvenuta la restituzione ai proprietari legali” [1], ovvero ai palestinesi fuggiti o costretti dalla pulizia etnica ad abbandonare le proprie abitazioni e il proprio paese. D’altra parte, fatta la legge, trovato l’inganno, in quanto l’amministrazione della proprietà degli assenti, in realtà impossibilitati a tornare nelle loro case, “man mano trasferiva case e palazzi agli israeliani. Inizialmente alcuni edifici venivano assegnati a famiglie israeliane che vivevano in modo molto modesto, ricevendo una o due stanze. Ma alla fine i poveri venivano cacciati e sontuose residenze passavano in mani private. Nessun palestinese oggi può rivendicare una proprietà confiscata. A Gerusalemme Est, sono i giordani a rilevare le proprietà degli ebrei fuggiti, e ad affittarle a palestinesi” [2]. 

Occorre partire quanto meno da qui, in quanto si tratta della “configurazione spaziale della città ancora oggi riconosciuta come legittima dalla gran parte della comunità internazionale” [3].

In seguito, nel 1967, con la successiva aggressione preventiva, i coloni sionisti hanno occupato, sempre con la forza, anche la parte est della città, quella rimasta sotto il controllo dei nativi. Gli occupanti hanno dichiarato Gerusalemme “capitale unica e indivisibile dello Stato” ebraico, sebbene le “Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto tale annessione, chiedendo più volte il ritorno ai confini pre-1967” [4]. Per rendere ciò impossibile, da allora fino a oggi, gli occupanti hanno portato avanti il processo “che il geografo israeliano Oren Yiftachel ha definito di simultanea «ebraizzazione» e «de-arabizzazione»” [5] di Gerusalemme. In effetti, “dopo il 1967 si consente la restituzione degli immobili ai proprietari israeliani, ebrei. Diverse organizzazioni di estrema destra iniziano un lento lavoro di recupero dei beni, per l’ebraicizzazione di Gerusalemme. Le famiglie palestinesi, ricche o povere, cominciano a perdere le case in cui hanno vissuto per decenni a Sheik Jarrah, Silwan e altri quartieri” [6].

Da allora è iniziata la colonizzazione di Gerusalemme Est, con quartieri di edilizia pubblica per soli ebrei, che hanno portato 200mila coloni nella parte araba della città, ovvero il 40% dei residenti ebraici a Gerusalemme. Come ha fatto notare l’architetto israeliano Eyal Weizman “l’uso del termine «pubblico» rivela più di qualsiasi altra cosa il pregiudizio politico del governo: il «pubblico» a cui venivano imposti gli espropri ha sempre compreso anche i palestinesi; il «pubblico» che ha goduto dei frutti degli espropri è stato composto solo ed esclusivamente da ebrei” [7].

Agli abitanti arabi a Gerusalemme non solo è stato impedito in ogni modo di espandere i loro insediamenti, ma continuano a essere espulsi da case dove risiedono da decenni. Oltre ai casi eclatanti come quello di Sheikh Jarrah, che rischia di far esplodere l’indignazione popolare araba, si utilizzano generalmente mezzi più sottili, come l’assenza nelle zone non abitate da ebrei anche dei più basilari servizi pubblici. “Le parole di Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme per 28 anni, non lasciano spazio a equivoci: «continuiamo a dire che vogliamo rendere i diritti degli arabi di Gerusalemme uguali a quelli degli ebrei… sono parole al vento… Gli arabi erano e rimangono cittadini di seconda, anzi di terza classe. Per gli ebrei di Gerusalemme negli ultimi 25 anni ho fatto moltissime cose. Cosa ho fatto per gli arabi di Gerusalemme Est? Niente! Marciapiedi? Nessuno. Centri culturali? Nessuno. Abbiamo installato un sistema fognario e migliorato la rete idrica. Ma sapete perché? Pensate che lo abbiamo fatto per il loro benessere? Scordatevelo! C’erano stati alcuni casi di colera in quelle aree e gli ebrei erano spaventati dalla possibilità di essere contagiati a loro volta. Abbiamo adeguato il sistema fognario e idrico delle aree arabe solo per questo motivo»” [8]. Occorre, inoltre, ricordare che il muro di separazione ha consentito di inglobare a Gerusalemme diverse zone limitrofe abitate da coloni, escludendo al contempo due popolosi quartieri arabi. Infine, per quanto riguarda le case abitate da decenni dagli arabi e che dovrebbero finire nelle mani di sionisti “i palestinesi hanno lottato a lungo invano nei tribunali. Adesso l’estrema destra è l’alleata dei coloni che hanno occupato gli edifici. Gli scontri saranno inevitabili. La spoliazione per legge (con Israele che ripete «abbiamo un nostro sistema legale e la Corte internazionale di giustizia non deve intervenire») andrà avanti e altri palestinesi saranno da annoverarsi fra le vittime dirette dell’occupazione” [9]. Le conclusioni dell’accademico israeliano sono sconsolate e improntate al pessimismo della ragione: “ecco all’opera il sistema legale dell’occupazione. Eventuali cambiamenti di governo non saranno una risposta sufficiente per contrastare l’operato di elementi razzisti e parafascisti, che lentamente ma inesorabilmente continuano la loro guerra contro la presenza palestinese” [10].

Gli scontri scoppiati a Sheikh Jarrah vanno inseriti in questo contesto, essendo semplicemente la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Come ha notato l’intellettuale israeliano Zvi Schuldiner: “le manifestazioni a Sheikh Jarrah sono significative perché l’espulsione «legale» di decine di famiglie palestinesi dalle case nelle quali hanno vissuto per decenni è la concretizzazione brutale dell’apartheid a Gerusalemme” [11]. Senza contare che la durissima repressione degli apparati securitari dello Stato ebraico, ha prodotto una vera e propria provocazione, con la polizia che ha fatto irruzione nella spianata e persino nella moschea di al-Aqsa.

Dinanzi a provocazioni così eclatanti, le forze islamiche – divenute le più popolari fra i palestinesi, in quanto apparentemente le più radicali nello scontro con i coloni sionisti – non potevano che reagire minacciando il lancio di razzi. Una mossa necessaria alle organizzazioni islamiche, anche per impedire lo sviluppo di una nuova intifada popolare, che metterebbe in discussione la loro supremazia in quanto, apparentemente, le uniche forze in grado di reagire alle provocazioni sioniste.

In realtà tali forze, a cominciare da Hamas – finanziata da una petromonarchia assoluta del Golfo come il Quatar, fra i principali responsabili del rovesciamento del governo laico di Gheddafi e della guerra in Siria contro il governo laico di Assad – con le loro azioni armate avventuriste, non fanno altro che spostare il confronto su un piano militare dove non può che dominare lo Stato ebraico. Inoltre tali inefficaci lanci di razzi offrono la scusa agli apparati repressivi sionisti di reprimere i movimenti popolari palestinesi e alle potenze imperialiste di schierarsi ancora una volta dalla parte dei colonizzatori, finendo con il contribuire a isolare la Palestina rispetto all’opinione pubblica internazionale, che potrebbe altrimenti dare un contributo significativo a una reale soluzione della questione palestinese. Inoltre tali sfide sul piano militare finiscono per favorire la passivizzazione delle masse palestinesi, che vengono ridotte a semplici spettatori di questo ennesimo scontro impari.

Allo stesso modo le masse palestinesi sono state ulteriormente passivizzate dalla decisione della potenza occupante di non consentire la partecipazione alle elezioni dei palestinesi di Gerusalemme. Nonostante tali misure vadano contro gli stessi accordi “di pace” di Oslo, hanno avuto il tacito consenso delle potenze imperialiste e della leadership – sempre più corrotta e accusata da diversi palestinesi di essere collaborazionista – dell’Anp. In effetti, tale leadership si è così squalificata, collaborando attivamente con i sionisti alla repressione del proprio stesso popolo, da rendere praticamente certa la vittoria delle forze islamiste, oscurantiste come tutti i partiti religiosi. In tal modo tutti i sedicenti “democratici” dell’Anp e occidentali hanno preso la palla al balzo per impedire ai palestinesi di votare. A ulteriore dimostrazione che la “democrazia” è “concessa” solo nel caso in cui non mette in discussione l’ordine costituito

Peraltro l’ex parlamentare palestinese Haneen Zoabi – pur riconoscendo che il mancato diritto di voto ai palestinesi di Gerusalemme è stato solo un pretesto per impedire le elezioni e pur ammettendo che “è vero che in Cisgiordania e a Gaza erano felici di andare a votare” – non può che concludere denunciando che “di fatto non sarebbe stato altro che una legittimazione degli accordi di Oslo e dell’Anp stessa, che per suo statuto rappresenta solo una porzione di popolo palestinese. Inoltre il voto non è una scelta libera se avviene sotto occupazione e colonizzazione” [12].

 

Note:

[1] Schuldiner, Zvi, Una escalation di pulizia etnica, in «Il manifesto» del 09.05.2021.

[2] Ibidem.

[3] Chiodelli, Francesco (Università degli studi di Torino), Gerusalemme, lo spazio del conflitto, in “Il manifesto” del 12.05.2021.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Schuldiner, Zvi, Una escalation…, cit.

[7] Chiodelli, Francesco, Gerusalemme, …, cit.

[8] Ibidem.

[9] Schuldiner, Zvi, Una escalation…, cit.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Cruciati, Chiara, «Gerusalemme è un microcosmo dell’occupazione israeliana e della lotta palestinese», in “Il manifesto” del 11.05.2021.

21/05/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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