Ma davvero Trump sta demolendo la democrazia Usa?

Ordini esecutivi a raffica, nomine di persone discutibili, decisioni affrettate e incoerenti, interventi a gamba tesa su media, economia, politica interna ed estera. Ma il presidente Trump sta davvero demolendo la democrazia americana?


Ma davvero Trump sta demolendo la democrazia Usa? Credits: https://www.flickr.com/photos/83057948@N07/27030444690

Dal 20 gennaio Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Da allora sono in molti, negli Usa e all’estero, che temono per il futuro della più antica democrazia del mondo, avendo egli prima annunciato e poi fatto davvero ogni giorno di tutto e di più, con battute ad effetto spiazzanti, provocazioni, scontri davvero poco politically correct. Ma Trump sta lavorando per distruggere la democrazia americana e fondare un nuovo potere? Oppure si tratta di decisioni solo di facciata, per accontentare i suoi elettori, ma che alla fine avranno una scarsa incidenza sulla realtà? La democrazia americana, per come l’abbiamo conosciuta finora, è ormai prossima alla fine, colpita dalle sparate di The Donald? Oppure ha nel suo seno tutti gli anticorpi utili a difendersi dai possibili esiziali attacchi che potrebbero essere inferti dalle follie dell’imperatore? 

Gli Stati Uniti d’America sono la democrazia più antica ancora oggi esistente, nata il 21 giugno 1788 con la ratifica della Costituzione adottata l’anno prima dopo la ribellione delle 13 colonie inglesi alla madrepatria. Essa è da sempre retta sul principio dell’equilibrio dei tre poteri, il potere esecutivo, in mano al presidente ed al suo governo, il potere legislativo, attribuito al Congresso, composto da due camere (la Camera dei rappresentanti ed il Senato), ed il potere giudiziario, formato dalla magistratura statale e federale. Il primo gestisce tutta la macchina burocratica ed amministrativa federale, il secondo controlla l’azione del governo, l’ultimo giudica e nessuno dei tre può prevalere sull’altro, dovendo sempre rimanere su un piano di tendenziale equilibrio. Queste in estrema sintesi sono le fondamenta del sistema costituzionale democratico americano, basato su una serie di pesi e contrappesi (check and balances) tra poteri, che dovrebbe garantire la sua tenuta anche davanti a possibili tentativi di corromperne la struttura, nonostante il Trump di turno.

Il Congresso, cioè il potere legislativo, è l’argine primo e più importante all’esecutivo ed alle sue possibili tracimazioni. Esso ha in mano il borsellino della nazione, perché decide le entrate e le uscite dello Stato, approvando il bilancio federale, nonché la struttura giuridica della nazione, approvando le leggi, che devono però essere sempre promulgate dal presidente. Il Congresso, inoltre, può mettere in stato d’accusa il presidente con la procedura di impeachment, mentre il Senato ha il potere di ratificare le nomine più importanti. E poiché ministri (detti segretari), giudici della Corte suprema, giudici federali, vertici di varie agenzie federali, quali Cia, Fbi, Antitrust, Federal Reserve ed altre, sono scelti autonomamente dal presidente, ma devono essere ratificati dal Senato, quest’ultimo potrebbe di fatto bloccare l’azione del governo negando la ratifica. Nella realtà però il Partito repubblicano, attualmente in maggioranza nei due rami del Congresso, si è finora sempre schierato senza se e senza ma a favore delle scelte fatte da Trump, chiudendo gli occhi anche davanti ad evidenti nomine di personaggi poco presentabili, come quella di Pete Hegseth, accusato di molestie sessuali, a capo del Pentagono, oppure assumendo decisioni davvero discutibili, come quando nel 2021 ha votato contro l’impeachment di Trump, negando ogni sua responsabilità nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio e permettendogli così di ricandidarsi alla presidenza, salvandolo da un sicuro processo federale. 

Quanto al sistema giudiziario americano, esso è diviso in due livelli separati, quello statale e quello federale, l’unico che può bloccare i provvedimenti del presidente in contrasto con le leggi federali o la Costituzione. I giudici federali sono circa 1770, ma quelli che svolgono veramente un ruolo determinante sono quelli di nomina presidenziale, distribuiti tra i 94 tribunali di primo grado (district courts) e le 13 corti d’appello (circuit courts) federali. Nelle intenzioni dei Padri costituenti, la nomina dei giudici da parte del potere esecutivo faceva parte del meccanismo di check and balances tra i diversi poteri dello Stato, dovendo assicurare alti profili di garanzia, imparzialità, competenza ed esperienza, considerando anche che l’incarico è a vita. Negli ultimi anni però il sistema giudiziario federale è diventato poco trasparente, pesando di più la fedeltà politica del nominato al presidente di turno, piuttosto che la garanzia di indipendenza, imparzialità e preparazione che si aspetta da loro. Com’è noto a tutti, nei primi giorni della sua presidenza The Donald ha emanato diversi ordini esecutivi, provvedimenti normativi simili ai nostri decreti legge che entrano in vigore subito, senza passare per l’approvazione del Congresso, atti con cui il nostro uomo ha deciso di tutto, dalla chiusura della frontiera tra Usa e Messico, all’espulsione dei migranti clandestini, dalla decisione sui generi sessuali ammessi (solo maschio e femmina), all’abolizione del diritto di cittadinanza per i figli di immigrati irregolari. Questi ordini esecutivi possono essere impugnati davanti ai giudici federali per contrasto con la Costituzione o le leggi federali, cosa che è prontamente accaduta. E così alcuni provvedimenti sono stati sospesi dai giudici, suscitato forti polemiche, mentre altri sono ancora in attesa di decisione. Tali cause però possono arrivare, attraverso il meccanismo delle successive impugnazioni, fino alla Corte Suprema, a cui spetta l’ultima parola. Ma qui Trump è blindato, in quanto sei giudici sui nove che compongono tale organo giudiziario sono di orientamento conservatore (tre addirittura sono stati nominati direttamente da Trump nel suo precedente mandato presidenziale), per cui è molto improbabile che l’eventuale giudizio finale della Corte Suprema potrà essere contro il presidente in carica; senza contare che la stessa Corte ha già garantito al presidente l’immunità giudiziaria per tutti gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. 

Passando adesso all’amministrazione federale, alcuni dipartimenti hanno sempre avuto una larga autonomia ed un ampio prestigio. Finora. Ma non sempre sarà così. Si pensi all’Attorney General, il segretario alla giustizia che è anche il vertice dei pubblici ministeri federali. Il ruolo è ora ricoperto da Pam Bondi, uno dei legali che hanno gestito la causa intentata (e persa) da Trump contro la vittoria di Joe Biden alle precedenti elezioni presidenziali. Possiamo essere certi, infatti, che Bondi, fedelissima trumpiana, non solleverà d’ora in poi alcuna obiezione sull’operato del suo patrono alla Casa Bianca. Al Pentagono, poi, come del resto abbiamo scritto sopra, è finito Pete Hegseth, ex ufficiale della Guardia nazionale e presentatore di Fox Tv, l’emittente conservatrice della famiglia Murdoch, accusato di molestie sessuali e privo di alcuna esperienza in materia di difesa. Alla National Intelligence, l’agenzia federale che coordina le 18 diverse strutture dei servizi segreti negli Usa, è stata nominata Tulsi Gabbard, ex combattente in Iraq e candidata alle primarie presidenziali democratiche vicina al leader della sinistra Bernie Sander, ma improvvisamente folgorata sulla via del trumpismo rampante e così premiata con un posto di prestigio. Per tutta risposta Gabbard si è subito perfettamente allineata alla politica ed alle idee di Trump, sostenendo addirittura che Putin non sia il responsabile dell’attacco all’Ucraina (ma va…). Anche il vertice del Fbi è finito sotto le grinfie di un trumpista d’attacco, Kash Patel, mentre quello della Cia a John Ratcliffe, anch’egli militante tra i Trump boys. 

Bisogna infine ricordarsi che nelle ultime elezioni presidenziali Trump ha ottenuto 77 milioni di voti e Kamala Harris, la sua avversaria democratica, 74 milioni, e quindi a metà degli elettori non piace questo presidente; inoltre, fra due anni gli americani torneranno di nuovo alle urne per rinnovare la metà dei seggi della Camera ed un terzo di quelli del Senato, dando così l’opportunità ai democratici di riconquistare questi nuovi seggi e rimettere in moto il contrappeso del Congresso.

Il sistema dei checks and balances, dunque, anche se si trova sotto il continuo attacco delle picconate inferte ogni giorno di più da Donald Trump, potrebbe continuare a garantire – come ha fatto in questi 237 anni di storia costituzionale americana - il corretto funzionamento della più antica democrazia esistente. E noi ce lo auguriamo con tutto il cuore.

07/03/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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Ciro Cardinale

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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