Segue da: Alle origini della catastrofe palestinese
La mistificazione della verità per quanto concerne la questione palestinese è certamente uno degli esempi più emblematici di come lavora a pieno regime quella che Vladimiro Giacché, nel suo omonimo libro, ha definito la fabbrica del falso. Anche perché si tratta di una delle rare merci, insieme alle armi, che non sembra scontrare la crisi di sovrapproduzione che generalmente colpisce oggi gli altri settori del modo di produzione capitalistico, giunto alla sua fase di sviluppo imperialista. Anche perché l’industria del falso tende a diversificare la sua produzione e così l’ideologia dominante, sempre più spesso, non ricorre più a forme semplicistiche di negazione della verità come potrebbero essere le menzogne dirette, ma a forme molto più efficaci e sofisticate, come le mistificazioni e le semplificazioni.
Un momento particolarmente significativo di condensazione di tale strategia sono state le celebrazioni dedicate quest’anno ai 70 anni dalla nascita di Israele. Le ricorrenti semplificazioni e mistificazioni, generalmente interessate, che vengono sapientemente utilizzate nella narrazione dominante della questione palestinese, hanno raggiunto nelle celebrazioni di questo anniversario un caso davvero emblematico di negazionismo storico. Fra le diverse tipologie di mistificazione della realtà, quella predominante è stata certamente quella che nella Fabbrica del falso è stata definita la verità mutilata.
Quest’ultima si dà quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si inserisce, non si ricordano le circostanze e ciò che lo ha preceduto, nel caso specifico la nakba, ossia con la catastrofe che ha travolto il popolo palestinese e di cui generalmente non si fa menzione per non guastare la celebrazione della nascita dello Stato sionista. Come se tale Stato fosse stato costruito su Marte e non su un territorio, abitato e antropizzato da secoli dal popolo palestinese. In tal modo la narrazione della nascita di questo Stato non è solo presentata in modo parziale, ma è interamente falsata da ciò che occulta. La versione della vicenda che è stata propinata all’opinione pubblica occidentale è, quindi, falsata da una verità, volutamente, dimenticata. Proprio per questo intendiamo proseguire nella ricostruzione degli antefatti – iniziata nel precedente numero di questo giornale – che soltanto consentiranno di poter dare un giudizio storico obiettivo all’evento di cui è ricorso il settantesimo anniversario.
Nel 1919, dunque, i sionisti compresero che non bastavano le precedenti buone relazioni stabilite con le principali potenze imperialiste, ma era necessario trattare con gli arabi per conseguire la spartizione della Palestina. Così formarono un centro di informazioni, sfruttando i buoni rapporti che si erano stabiliti fra gli ebrei di seconda generazione, che avevano appreso l’arabo e i palestinesi, per comprendere come questi ultimi avrebbero reagito di fronte al progetto sionista ed entrare in contatto con chi era disponibile a vendere le terre.
Nel frattempo, nel 1920, viene nominato il primo governatore inglese per la Palestina, il già ricordato sionista H. Samuel, che mirò a realizzare il piano da lui proposto cinque anni prima, volto a fare della Palestina uno Stato ebraico, con la complicità del suo amico generale Allenby che aveva occupato il paese. Del resto fra le condizioni del mandato della Società delle nazioni – notoriamente dominate dalle potenze imperialiste inglesi e francesi – al Regno Unito c’era la preparazione delle condizioni per la realizzazione dello Stato ebraico. Così Samuel, appena nominato, rese l’ebraico lingua ufficiale della Palestina al pari di arabo e inglese e con un centinaio di procedimenti amministrativi fece in modo che molte terre palestinesi passassero sotto il controllo dei sionisti e consentì un sistema autonomo di educazione ebraico indipendente da quello palestinese. I sionisti organizzarono anche un loro ministero per l’energia e istituzioni per il controllo delle acque e dei lavori pubblici. Soprattutto Samuel diede la possibilità ai sionisti di dotarsi di un esercito autonomo.
Più in generale, il governo inglese – mirando ad attuare la dichiarazione di Balfour – favorì l’emigrazione di ebrei in Palestina e il loro acquisto di terre. Samuel assegnò tutte le terre non rivendicate, trascurate o di proprietà del governo ai sionisti per costruirvi insediamenti (Kibbutzim). Gli inglesi proteggevano l’entità sionista che funzionava come semi-governo e ne nascondevano l’attività, mentre i palestinesi stentarono a comprendere realmente ciò che stava avvenendo sotto i loro occhi. Gli intellettuali palestinesi non compresero il pericolo costituito dal sionismo nel suo intento di espellere il popolo palestinese dalla propria terra. Più in generale la cospirazione inglese, volta a imporre la presenza sionista, sfuggì o si diede a vedere che sfuggisse ai leader dei paesi arabi, in larga parte prodotti e funzionali al neocolonialismo britannico.
Tuttavia i contadini palestinesi, che venivano espulsi dalle terre dall’autorità inglese per fare spazio agli insediamenti ebraici, cominciarono a ribellarsi formando gruppi rivoluzionari nelle aree rurali. Nel 1921, grazie a questa spinta dal basso che contrastava con l’attitudine quietista imposta dall’alto, i palestinesi cominciarono a prendere coscienza e a reagire, organizzarono grandi manifestazioni contro le sempre più massicce immigrazioni di ebrei europei favorite dagli inglesi.
D’altra parte, però, la stessa leadership palestinese era appannaggio di una sola famiglia, quella del Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husayni, che cercava di mantenere buoni rapporti con gli inglesi da cui considerava dipendere la sua posizione preminente. Inoltre le strutture decisionali palestinesi erano infiltrate da agenti del sionismo, che denunciavano tanto i nemici da combattere, quanto i palestinesi deboli che potevano essere, in qualche modo, corrotti o costretti a corrompersi.
Il resoconto inviato dal governatore inglese alla Società delle Nazioni sottolineava l’aver favorito nel solo 1925 l’immigrazione di oltre trentatremila ebrei, tre volte tanto rispetto all’anno precedente, cui fu assicurata la cittadinanza palestinese. Furono inaugurati tredici nuovi insediamenti, l’università ebraica e a Tel Aviv – controllata dai sionisti – fu accordata l’autonomia amministrativa. L’allora Lord presidente del consiglio, il conservatore Balfour – che con la sua nota Dichiarazione già nel 1917 aveva promesso la realizzazione dello Stato ebraico – ospite di Weizmann, a capo dell’Organizzazione sionista mondiale, visitò gli insediamenti ebraici e si incontrò con Samuel e Allenby per sviluppare ulteriormente la comune strategia. I palestinesi risposero alla visita di Balfour con una manifestazione di protesta, mentre Weizmann si congratulava con il rappresentante del governo britannico per aver portato a termine la prima fase della costituzione dello Stato ebraico in Palestina. Nei primi dieci anni del mandato inglese in Palestina il numero degli ebrei era più che triplicato raggiungendo le 175.000 unità.
Nel 1929 i sionisti organizzarono la preghiera degli ebrei al muro del Pianto che scatenò la rivolta dei Palestinesi. Gli inglesi reagirono facendo arrestare e condannare a morte i leader della protesta. Al contempo favorirono l’emigrazione di coloni di religione ebraica, generalmente europei, il cui numero aumentò vertiginosamente dai 4000 ingressi nel 1931, ai 9.500 dell’anno successivo, fino a raggiungere i trentamila nel 1933, i 42.000 nel 1934, fino a i 62.000 nel solo 1935. A metà degli anni trenta Tel Aviv innalzò la bandiera sionista e i suoi sostenitori assunsero il controllo delle principali attività produttive della città.
I sionisti tendevano a preparare l’opinione pubblica occidentale, all’occupazione coloniale della Palestina, presentandola come un desolato e sostanzialmente disabitato deserto, che solo la colonizzazione degli ebrei occidentali aveva fatto fiorire. Allo stesso modo, i principali politici inglesi, filo-sionisti, come Lloyd George, Balfour e Churchill identificavano i palestinesi con i musulmani, occultando la presenza al loro interno di ben 100.000 cristiani, per impedire qualsiasi tipo di identificazione e di riconoscimento da parte degli occidentali. Nei rari casi in cui se ne faceva cenno, venivano definiti esclusivamente in relazione alla loro religione, occultando così che, insieme ai musulmani, avevano dato vita al popolo palestinese.
Anche i filmati girati dai colonialisti inglesi e sionisti degli anni venti e trenta, praticamente gli unici esistenti, mostrano quasi esclusivamente le attività produttive svolte in Palestina da britannici e coloni ebrei, mentre la presenza dei palestinesi è sistematicamente occultata. Tanto più che gli inglesi, come i sionisti, si rifiutavano di riconoscere ai palestinesi la stessa dignità di essere un popolo, mentre consideravano i coloni sionisti come i legittimi rappresentante del movimento nazionale in queste terre. Ciò non poteva che portare allo scontro con la maggioranza palestinese. Così, a partire dal 1933, le manifestazioni di protesta si intensificarono in Palestina, cui gli inglesi reagirono con inusitata violenza, uccidendo, ferendo e arrestando manifestanti generalmente pacifici. Gli inglesi imposero una durissima legislazione speciale contro ogni forma di insubordinazione da parte dei palestinesi, norme che in parte significativa sono state riprese e mantenute dallo Stato ebraico.
Dinanzi alla sostanziale impossibilità di sviluppare forme di lotta non violente, il siriano al Qassam cercò, nel 1935, di spingere i leader palestinesi a una rivoluzione politica, ma gli fu risposto che le condizioni non erano mature e che si sarebbero risolti in modo più efficace i problemi dei palestinesi con i negoziati politici con gli occupanti inglesi. Così nel suo tentativo rivoluzionario, Qassam rimase piuttosto isolato e fu facile preda dell’esercito britannico – tra i più moderni e potenti allora esistenti – che lo massacrò, con i suoi sparuti compagni. Tuttavia il loro sacrificio non fui inutile, perché colpì profondamente i palestinesi che cominciarono a fare crescenti pressioni sulla propria leadership, affinché abbandonassero le inconcludenti trattative con i colonialisti inglesi.
Ancora una volta la lotta partì dal basso, dando vita, in particolare, all’imponente sciopero nazionale del 1936, cui aderirono tutti i palestinesi, raggiungendo così l’apice della lotta di massa contro il Mandato britannico e l’imposizione dello Stato sionista. Spaventati gli inglesi reagirono in modo brutale con selvagge rappresaglie contro i sospettati di guidare il movimento rivoluzionario, con arresti arbitrari e distruzione delle abitazioni dei sospetti e, come forma di punizione collettiva, misero a ferro e fuoco i quartieri e i villaggi che più si erano spesi nella lotta. Ben-Gurion – capo dell’Agenzia ebraica, volta ad agevolare l’immigrazione di ebrei in Palestina – ne approfittò per proporre agli inglesi di deportate in Transgiordania i palestinesi espulsi dalle terre, per fare spazio agli insediamenti ebraici. La proposta fu approvata dagli occupanti britannici.
Fine della seconda parte, sul prossimo numero la terza e ultima parte