La liberal-democrazia reale: il modello statunitense

Quale fondamento ha la pretesa dei presidenti statunitensi di avere il diritto-dovere di esportare in tutto il mondo il loro esemplare modello liberal-democratico?


La liberal-democrazia reale: il modello statunitense Credits: https://www.salon.com/2019/07/10/trump-ridiculed-for-buying-into-inaccurate-fox-friends-report-about-the-pledge-of-allegiance/

Gli Stati uniti pretendono di essere i campioni a livello internazionale della liberal-democrazia e tal primato gli è generalmente riconosciuto dai commentatori liberal-democratici. Da qui la pretesa, sempre fondata sul destino manifesto e la volontà divina, di esportare tale modello, considerato il migliore possibile, in tutto il mondo con l’egemonia e, quando non è sufficiente, con la violenza. Molto studiosi, in generale quelli d’ispirazione lib-dem oggi dominanti a livello internazionale, considerano gli Usa la patria della democrazia moderna. Tale concezione si fonda, più o meno consapevolmente, sulla de-umanizzazione dei nativi – massacrati e ridotti a sopravvivere in riserve nelle zone più impervie del paese – degli afro-americani (ridotti prima in schiavitù e pesantissimamente discriminati fino ai giorni nostri) e dei coolie cinesi, ridotti in uno stato di semi-schiavitù. Inoltre erano ritenuti esseri inferiori al genere umano le donne e i più recenti immigrati cui erano negati gli stessi diritti politici. Da questo punto di vista la liberal-democrazia, per come si è venuta affermando nella prima metà del XIX secolo, era presumibilmente più vicina al modello antico della democrazia ateniese, fondata sulla schiavitù, piuttosto che prossima all’idea che ce ne siamo fatti oggi.

Si potrebbe obiettare che la liberal-democrazia si sarebbe costantemente perfezionata nel corso del tempo, sino a divenire un modello esportabile ai nostri giorni. Anche in questo caso, però, bisognerebbe continuare a considerare gli afro-americani e i più recenti immigrati degli esseri inferiori, considerate tutte le forme di discriminazione che sono anche oggi costretti a subire. Pure in questo caso gli apologeti del sistema liberal-democratico a stelle e strisce obietterebbero che si tratta comunque di una minoranza della popolazione, la cui condizione del resto tenderebbe progressivamente ad avvicinarsi a quella della maggioranza. Tesi piuttosto discutibile viste le campagne xenofobe lanciate costantemente contro i più recenti immigrati dallo stesso presidente degli Stati uniti. Anche in questo caso si potrebbe obiettare che l’attuale presidente sia un vero e proprio outsider rispetto al sistema liberal-democratico statunitense, ovvero un’eccezione che confermerebbe la regola. Tesi alquanto bizzarra visto che l’eccezione può tutt’al più mettere in discussione una regola, se non addirittura falsificarla, senza contare che l’attuale presidente non può essere considerato un corpo estraneo, un hyksos, dal momento che è divenuto presidente non sovvertendo le regole della liberal-democrazia, ma proprio attraverso di esse.

A scanso di equivoci e per non limitarci a un caso, per quanto eclatante, vale la pena di riflettere proprio su queste istituzioni liberal-democratiche attuali che sarebbero da esportare in tutto il mondo. Il primo dato eclatante è che la liberal-democrazia tende a incentrarsi sempre più sul solo suffragio universale, anche perché altrimenti sarebbe difficile continuare a sostenere Israele, che occupa la Palestina, come l’unico Stato democratico dell’area. Altrettanto difficile sarebbe considerare un oligarca come Trump come il presidente della più grande liberal-democrazia del mondo. Senza contare che considerare il suffragio universale come caratteristica fondamentale della democrazia significa sostenere l’esatto contrario dei teorici antichi e moderni di questa forma di governo che si fonda, al contrario, sull’esercizio diretto, e non delegato, della sovranità popolare.

D’altra parte, pur limitandoci a quest’unica connotazione, l’attuale sistema statunitense dovrebbe essere considerato del tutto antidemocratico dal momento che, anche riferendoci solo all’attuale secolo, i repubblicani hanno avuto il controllo della presidenza tre volte su cinque, pur essendo sconfitti, dal punto di vista dei voti complessivi ricevuti, ben quattro volte su cinque dai democratici. Ad esempio Trump, pur totalizzando quasi tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, è stato eletto presidente grazie ad appena 80.000 voti strategicamente spalmati in tre Stati minori. Tutto questo grazie alla vecchia modalità di voto antidemocratica per cui ogni Stato, a prescindere dal numero di elettori, invia due rappresentanti in Senato. Così, già nel 2000 George Bush era divenuto presidente, pur prendendo due milioni di voti in meno del candidato democratico Gore. I tentativi dei democratici di modificare tale norma, sempre più palesemente antidemocratica, per cui i voti tradizionalmente democratici della popolatissima California eleggono lo stesso numero di senatori di Stati del hinterland con una popolazione scarsa, ma conservatrice, che dà la maggioranza dei propri voti ai repubblicani. Altro aspetto del tutto antitetico allo spirito della democrazia, ossia del potere del popolo, è l’enorme potere che si concentra nelle mani del presidente degli Stati Uniti, da sempre molto superiore a quello dello stesso monarca inglese. Il potere dell’esecutivo è così preponderante da mettere seriamente in discussione la stessa base fondamentale del regime liberale, per cui è sorto in opposizione all’assolutismo, ovvero la divisione del potere. Il presidente, in effetti, finisce per avere un potere preponderante, a partire dal diritto di veto, sulle assemblee legislative e ancora più diretto sulla magistratura, visto che i membri del suo organo fondamentale, la corte suprema, sono scelti dal capo dell’esecutivo.

Così, paradossalmente, la destra repubblicana, pur perdendo dal punto di vista del suffragio universale quattro elezioni su cinque di questo secolo, ha designato ben quindici degli ultimi diciannove magistrati della corte suprema. In tal modo, i repubblicani pur essendo minoritari dal punto di vista del voto popolare – ovvero anche della concezione oggi dominante di democrazia ridotta ai minimi termini – hanno ora un controllo completo sulla corte suprema, ormai dominata da magistrati reazionari. Ciò è stato possibile anche grazia alla lesione di un altro concetto base della liberal-democrazia, ovvero il principio dello stato di diritto per cui la legge è uguale per tutti. Infatti, al presidente democratico Obama è stato impedito di poter scegliere un giudice liberal-democratico, per quanto moderato, rafforzando così la maggioranza reazionaria filo-repubblicana.

In tal modo, con una terza clamorosa violazione di ogni principio liberal-democratico, proprio in questi giorni la Corte suprema con due sentenze ha confermato ai repubblicani la possibilità di mantenere il controllo nella maggioranza dei singoli Stati e a livello federale, pur essendo sempre più in minoranza rispetto ai democratici. La prima sentenza ha di fatto sancito la legalità del gerrymandering, ovvero la possibilità per chi è al governo dei singoli Stati di determinare in modo sostanzialmente arbitrario i distretti elettorali. In tal modo i repubblicani, pur essendo una minoranza, controllano la maggior parte degli Stati, ben 34, e potranno ridisegnare i collegi elettorali per fare sì che, nonostante gli elettori classici repubblicani maschi e bianchi tendono sempre più a diminuire, riescano egualmente a mantenere il potere. Senza contare che con il crescere dei potenziali elettori democratici Trump, con il sostanziale supporto del partito Repubblicano, ha introdotto sistemi sempre più radicali, come il blocco dell’immigrazione e la pulizia etnica degli irregolari, che ricordano i vecchi sistemi di eugenetica a lungo in auge negli Stati uniti e mai davvero abbandonati. Così, ad esempio, Trump sta facendo di tutto per introdurre nel censimento l’obbligo di indicare la nazionalità, in modo da non calcolare più gli immigrati irregolari che popolano a milioni soprattutto gli Stati democratici come la California. In tal modo il numero reale degli abitanti sarà pesantemente sottostimato e così diminuiranno proporzionalmente tanto i fondi federali, quanto il numero di rappresentanti della Camera, proporzionali al numero di abitanti censiti.

Inoltre i singoli Stati controllati dai repubblicani introducono modalità di voto che tendono a impedire la partecipazione degli afroamericani e del proletariato urbano che tradizionalmente votano democratico. Ciò, in un regime antidemocratico di maggioritario secco, per cui il primo pur con un solo voto di vantaggio è eletto e tutti gli altri voti vanno perduti, consente di manipolare in modo anch’esso antidemocratico il voto popolare, in favore della minoranza (filo-oligarchica). Dal momento che, con questo sistema antidemocratico contano le vittorie nei singoli collegi e non il risultato del suffragio universale a livello di Stato e tanto meno di Federazione. Così potrà ancora accadere che i democratici che hanno la maggioranza nello Stato, saranno sconfitti perché la manipolazione dei collegi farà sì che i repubblicani ne conquistino di più. Così, ad esempio, in Wisconsin i democratici avevano la maggioranza assoluta dei voti, ma ben sessanta dei novantanove seggi sono andati ai repubblicani. Con il bel risultato che la minoranza ha la meglio sulla maggioranza, secondo il vecchio trucco dei conservatori britannici dei borghi putridi, per mantenere il controllo del governo pur avendo molti meno consensi dei liberali. Con il risultato che Grandi città proletarie eleggono meno deputati di campagne scarsamente popolate e conservatrici.

Tutto ciò non fa che aumentare l’astensionismo dei subalterni che voterebbero in maggioranza democratico. Anche perché il sistema elettorale americano è pensato in modo tale da svantaggiare al massimo la partecipazione al voto dei ceti meno abbienti. Innanzitutto, perché il voto si svolge sempre in giorni feriali e durante l’orario lavorativo e i padroni difficilmente danno i permessi necessari al proletariato urbano per recarsi alle urne. Inoltre gli elettori debbono, per poter votare, iscriversi per tempo nelle liste elettorali del proprio collegio, superando difficoltà burocratiche che tendono a sfavorirne la partecipazione. Questi meccanismi sono particolarmente raffinati negli Stati del sud, in cui, prima delle epiche lotte per i diritti civili, agli afroamericani era nei fatti praticamente impossibile votare. Certo le grandi mobilitazioni degli anni sessanta e settanta hanno eliminato queste leggi antidemocratiche e proprie di un sistema di sostanziale apartheid. Tuttavia, in anni più recenti, per la debolezza dei subalterni nel conflitto sociale, tali leggi sono a poco a poco resuscitate. Senza contare che il razzismo porta un numero altissimo di afroamericani a essere condannati, perdendo così per sempre il diritto di voto.

Inoltre, con la progressiva crescita del lavoro precario negli ultimi decenni vi sono moltissimi proletari statunitensi che sono costretti a cambiare più volte Stato per trovare lavoro e, in questo modo, la possibilità di poter votare diviene proibitiva. In quanto la burocrazia rende estremamente difficile poter votare nel nuovo Stato in cui ci si è dovuti trasferire per poter avere un salario sufficiente a sopravvivere.

Senza contare che, in particolare fra i “democratici”, nella scelta del candidato attraverso le primarie decisivi sono i voti dei grandi elettori, ovvero della nomenklatura naturalmente orientata in senso moderato. Mentre un candidato forte fra i subalterni come Sanders, che tutti i sondaggi davano e danno tuttora in vantaggio nella sfida con Trump, pur avendo molti più voti popolari niente ha potuto contro il meccanismo antidemocratico per cui la scelta del candidato finisce per essere ostaggio dei grandi elettori non eletti. In tal modo, è stata imposta alla base Hillary Clinton, candidata ultra-moderata – tanto da far apparire, su determinati aspetti, persino più progressivo Trump e proprio per questo destinata alla sconfitta.

05/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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