L'Afghanistan è sempre stato un rebus. Nell'Ottocento si coniò la definizione de “Il grande gioco” per spiegare quanto accadeva su quel territorio nella sfida incrociata tra l'impero zarista e quello britannico per controllarlo.
Per mantenere questa tradizione, la caduta del 15 agosto scorso di Kabul - e quindi di quasi tutto il paese - di nuovo nelle mani dei taliban è un evento complesso con diversi protagonisti, alcuni dei quali sono dediti a un pericoloso doppio o triplo gioco. Non c'è spazio in un singolo articolo per spiegarne approfonditamente le cause, forse non c'è nemmeno spazio in un solo “cervello” per elaborare tutte le informazioni necessarie a cercare di cogliere ogni sfumatura, ognuno degli squilibri che hanno determinato questo evento e per disegnare gli scenari del prossimo futuro.
Quello che al momento si può percepire immediatamente in una raccolta di riflessioni è la sconfitta degli Stati Uniti e dei suoi “alleati-ascari” della Nato: e non è poco. Si tratta di una disfatta talmente evidente che nemmeno il velo di Maya del flusso mediatico mainstream di tutti i Paesi Occidentali può occultare e di fatto ha rinunciato a farlo cercando, però, di distorcerne le proporzioni e le cause.
Dunque: dopo venti anni di occupazione militare, 2.261 miliardi di dollari stando alle stime fornite dal Watson Institute - centro di ricerca della università statunitense Brown -, oltre 170.000 vittime tra civili e militari di tutti i contendenti, la forza internazionale occupante, ovvero Stati Uniti, Paesi della Nato e affini, si ritira riconsegnando le chiavi dell'Afghanistan agli stessi studenti coranici cacciati a forza di bombardamenti da Kabul venti anni fa.
Non si tratta ora di festeggiare o di stracciarsi le vesti come si è fatto in diversi luoghi politici e giornalistici ma si tratta di prendere atto di un grande fatto politico dei nostri giorni: gli Usa e quindi la Nato e pertanto i paesi dell'UE che ne fanno parte, non hanno le risorse economiche e militari per tenere l'Afghanistan nel loro recinto. A onor del vero non è nemmeno il primo segnale dato il progressivo ritiro di forze militari statunitensi anche dallo scenario iracheno; tuttavia le modalità quasi da fuga e il crollo repentino del regime di Ghani imposto dalle armi occidentali fanno riflettere su quanto avanti si sia portato il declino della potenza anche militare degli Usa che pure all'indomani del crollo dell'Urss nel 1991 sembrava unica e incontrastata.
Il ritiro: una necessità ma anche un'esca avvelenata per Cina e Russia
Con il 70 per cento dei cittadini statunitensi contrari al proseguimento dell'occupazione militare dell'Afghanistan e a fronte di risorse economiche e militari da destinare ad altro (il rilancio dell'economia dopo la crisi indotta dal Covid e il contenimento militare della Cina nell'arco che va dall'India al sud est asiatico), Joe Biden ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e provvedere al ritiro. Di certo lo ha fatto nel peggiore dei modi ovvero una vera e propria fuga invece di una ritirata ordinata che ha coinvolto il corrotto regime sorto sotto la sua ala protettrice ma anche un pezzo della società civile afghana: soprattutto a Kabul, città che supera i 4 milioni di abitanti e dove gli Usa hanno investito miliardi di dollari finiti nelle tasche di politici corrotti, certamente, ma che hanno contribuito anche a sviluppare una “borghesia compradora” senza una ragione produttiva vera e propria ma con una funzione ausiliaria anche culturalmente indotta dalla presenza occidentale.
Ora, questo pezzo di società è stata cinicamente abbandonata a sé stessa, come si evince dagli orribili fatti dell'aeroporto di Kabul e soprattutto nella sua componente femminile rischia di aggiungersi alle vittime del conflitto provocato dagli Stati Uniti nel 2001. Ma anche questi modi del ritiro sono simbolici del declino di quella che era stata definita l'ultima superpotenza. D'altra parte, al momento, a impedire la partenza da Kabul non sono solo i controlli dei talebani sulla popolazione ma anche la mancanza di aerei e volontà di accoglienza da parte dei paesi occidentali.
La necessità del ritiro nasconde però nella pancia anche un'esca avvelenata per Russia e Cina, ovvero i due maggiori competitor di Washington. Forse Trump, che ha firmato gli accordi di Doha con i talebani, o Biden hanno letto il il capitolo 6 de “L'arte della guerra” di Sun Tzu, quello riguardante i “I vuoti e i pieni”, forse no. Però quello che i nordamericani hanno fatto in Afghanistan è stato proprio creare un vuoto che ha portato di nuovo al potere i talebani ora capeggiati dal mullah Abdul Ghani Baradar, già vice del defunto Omar.
Questo non può non fornire gravi preoccupazioni sia a Mosca, sia a Pechino: nel primo caso perché gli studenti coranici potrebbero rivelarsi un punto d'infezione per il ventre molle dell' Asia centrale ex sovietica (Uzbekistan, Tagikistan, ecc.) dove l'insorgenza di movimenti integralisti ha dato già parecchi problemi a quei regimi; nel secondo caso perché, sebbene per un breve tratto, l'Afghanistan confina con lo Xinjiang cinese abitato dagli uiguri, popolazione musulmana agitata da fermenti religiosi e autonomistici.
In questo senso la scelta obbligata (per debolezza) di Washington coinciderebbe con un tentativo di costringere la Cina e la Russia a spendere risorse per tappare la falla lasciata dalla propria ritirata.
I talebani e gli altri: Pakistan e Turchia
Molto di quello che accadrà dipende dalla testa e/o dal corpo del movimento dei talebani. Dipenderà quindi sia dalle scelte della Shura (il consiglio centrale), sia dall'atteggiamento delle varie fazioni claniche che compongono l'ossatura dell'organizzazione degli studenti coranici e che rispondono probabilmente a interessi non univoci.
Di certo c'è il legame con il Pakistan, questo Paese padrone e vittima dei taliban come lo definiva Ahmed Rashid nel suo libro “Talebani. Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale” del 2001 [1].
Un legame rafforzato da decenni, dalla guerra contro l'Urss degli anni '80 e dall'influenza dell'Inter-Services Intelligence o Isi, i potentissimi servizi segreti pakistani che dai tempi del generale Zia-Ul-Haq si sono cullati nel progetto di rendere l'Afghanistan un protettorato pakistano o meglio pashtun, l'etnia dominante nel sud afgano e nell'ovest pakistano. L'Afghanistan in questa mitologia politica sarebbe servito a fornire profondità strategica al Pakistan nella sua perenne competizione con l'India.
Fatto è, come constatava Rashid, che i talebani resisi autonomi da Islamabad hanno finito al contrario per colonizzarne loro la politica e le aree tribali occidentali al confine con l'Afghanistan. Tuttavia l'influenza pakistana va messa nel conto generale, nel quadro del suo relativo allontanamento da Washington e del suo altrettanto relativo avvicinamento a Pechino.
Così come va messo nel conto che i talebani hanno visto in questi anni crescere in Afghanistan un pericoloso concorrente, ovvero lo Stato islamico che, non a caso, prolifera proprio nei territori a ridosso della frontiera con il Pakistan. Si può dire non a caso perché un fenomeno di questa portata di certo non può sfuggire alla vigilanza dei servizi pakistani e potrebbe costituire una pressione sugli stessi studenti coranici.
Di segno opposto è invece la presenza turca, anche militare, che Erdogan ha dichiarato di voler mantenere al di là del ritiro delle truppe della Nato, alleanza della quale fa comunque parte anche Ankara. Già in un'altra occasione si è avuto modo di parlare del mito panturanico coltivato dai dirigenti turchi e dall'estrema destra di quel Paese e della sua funzione di destabilizzazione nei confronti della Russia e della Cina.
La Turchia vanta buoni rapporti con i talebani e di fatto le trattative di Doha sono avvenute sotto la sua egida e sotto quella del suo alleato, il Qatar. Gli Stati Uniti potrebbero a loro volta cercare di utilizzare le ambizioni “grandi-turche” di Erdogan per cercare di mantenere nella loro sfera di controllo l'Afghanistan.
Nel frattempo, Erdogan ha dichiarato di non voler accogliere rifugiati afghani nel suo paese. Una dichiarazione motivata apparentemente dalla difficile situazione interna turca che già deve fronteggiare milioni di profughi siriani fuggiti dalla guerra in Siria, ma che forse strizza anche l'occhio ai talebani non volendo aprire le sue porte a chi osteggia il regime integralista degli studenti coranici.
Afghanistan, quale via di uscita per un paese lacerato? Domande e indicazioni
Se i talebani hanno potuto resistere a venti anni di guerra con Stati Uniti e Nato e infine vincere non può dipendere solo dagli aiuti del Pakistan. Devono aver contato su una propria base sociale d'appoggio. C'è un'esigenza di semplificazione nel caos etnico e feudale dell'Afghanistan?
L'ideologia islamista radicale di matrice Deobandi dei talebani è forse avvertita come una protezione dai vari clan afghani che poi esprimono in modo distorto le esigenze di vaste masse contadine? Su questo in realtà ci mancano dati effettivi: i mass media occidentali coprono e coprivano soprattutto le zone urbane.
È possibile che, come accadde già negli anni '90, i contadini afghani - che poi sono l'unica classe produttiva del Paese - abbiano avvertito come protettiva l'azione dei talebani rispetto alle vessazioni dei vari signori della guerra e degli eserciti occidentali, nonostante la loro ideologia medievale?
Possiamo disconoscere che la produzione di oppio in questo paese è cresciuta dopo la cacciata dei talebani?
A proposito di violazioni dei diritti umani, cosa sappiamo in realtà delle violenze e degli eccidi subiti dalle popolazioni afghane sotto il dominio dei vari politici corrotti sostenuti dall'Occidente?
Sono comunque probabilmente migliaia le vittime civili dei bombardamenti delle truppe occidentali.
In questo contesto l'unica politica estera sensata da parte di vicini che temono un Afghanistan lacerato e in preda alle sue convulsioni etniche e religiose sembra quella che potrebbe prefigurare la Cina: l'offerta di investimenti economici in cambio di una politica realmente inclusiva di tutte le componenti del paese e di abbandono da parte dei talebani di eventuali velleità ideologiche di destabilizzazione dell'area.
La risposta a questa offerta dipende ovviamente dagli equilibri interni del Paese e dei talebani. Comunque, l'unica via d'uscita per l'Afghanistan è nello sviluppo di una struttura produttiva che a partire dalle sue risorse minerarie lo traghetti fuori dal medioevo e lo porti ai giorni nostri.
Ma non è detto che i talebani lo vogliano e ne siano capaci.
Note
[1] Talebani: Islam, il petrolio e il Grande scontro in Asia centrale. Traduzione di Bruno Amato, Giovanna Bettini, Stefani Viviani, Feltrinelli, 2001.