In una prospettiva marxista è sempre indispensabile affrontare, in un’ottica dialettica, tanto le questioni di politica estera che le questioni di politica interna, in quanto le une illuminano necessariamente le altre e viceversa. Anche perché il vero è sempre l’intero, la totalità che ricomprende dialetticamente in sé tanto le problematiche estere che interne. Una politica interna non indagata mantenendo sullo sfondo la politica estera risulta sfuocata, con il rischio di perdersi in questioni dettate da un tatticismo esasperato. Al contempo la politica estera, per chi non si vuole ridurre a mero spettatore della geopolitica, va sempre considerata in relazione alla politica interna, in cui è possibile passare dalla teoria alla prassi.
In una prospettiva leninista la guerra non è un’opzione, una mera possibilità, un rischio, ma è resa necessaria dalla stessa struttura economica di un paese a capitalismo maturo. È la stessa crisi di sovrapproduzione a imporre a chi non intende abbandonare il capitalismo per il socialismo una politica imperialista, dal momento che, per far ripartire il processo di accumulazione, è indispensabile distruggere il capitale, le merci, compresa la forza lavoro, sovrapprodotte. Da questo punto di vista è indispensabile distruggere capitali e merci sovrapprodotte degli altri, in quanto la distruzione implica la perdita. Perciò i paesi imperialisti fanno di tutto per soffiare sul fuoco delle guerre in ogni angolo del pianeta, guerre da cui è indispensabile non farsi coinvolgere troppo in prima persona. Cosa c’è di meglio, in questa prospettiva, di una guerra di logoramento tendenzialmente infinita fra Russia e Ucraina, dei conflitti scatenati e fomentati in ogni modo in Medio Oriente, dei focolai di guerra da tenere sempre accesi nella regione del Pacifico e in una parte, non secondaria, dei paesi africani?
Per quanto irrazionali e antieconomiche, le distruzioni provocate dalle guerre consentono di trovare un investimento produttivo di profitto ai capitali altrimenti sovrapprodotti vendendo armi e tutte le altre merci necessarie ai paesi in conflitto. Nel momento poi che i paesi in guerra non hanno più risorse per continuare ad acquistare merci all’estero finiscono per indebitarsi e per svendersi, finendo totalmente sotto il controllo dei paesi più ricchi e potenti. In questi ultimi poi i costi degli investimenti e dei prestiti volti ad alimentare i conflitti all’estero vengono generalmente fatti ricadere sulle finanze pubbliche – dando a intendere che si tratta di difendere il diritto internazionale, l’aggressore dall’aggredito – cioè essenzialmente sul proletariato che produce la ricchezza e paga in massima parte le tasse.
Senza contare che le devastazioni prodotte prevalentemente all’estero dalle guerre creano, con la conseguente ricostruzione, la possibilità di investire con profitto i capitali sovrapprodotti. Tanto più che quando si investe nella guerra e nella conseguente ricostruzione o nel riarmo antecedente e posteriore ai conflitti si aggira, generalmente, il problema della concorrenza, dal momento che si investe su commissione dello Stato o sulla base di appalti pubblici.
Ecco perché, ad esempio, la Germania – in piena recessione economica a causa della crisi e di conseguenza tutto il resto dell’Unione europea dipendente in modo diretto o indiretto dalla locomotiva tedesca – è sempre più costretta, a meno di non abbracciare il socialismo, a una politica di riarmo e di investimenti nelle guerre degli altri che vanno in ogni modo fomentate. Da qui, ad esempio, le reazioni isteriche, altrimenti incomprensibili, contro il papa che, da parte sua, non può che predicare a favore della pace.
A rendere sempre più necessario fomentare quanto più possibile le guerre degli altri interviene poi l’esigenza di investire sempre più all’estero i capitali sovrapprodotti in patria. Visto che la crisi di sovrapproduzione colpisce necessariamente sempre di più i paesi a capitalismo avanzato, questi investimenti finiscono inevitabilmente per essere attuati in paesi in cui la composizione organica relativamente bassa assicura margini consistenti di profitto.
Perciò, sempre di più i capitali sovrapprodotti nei paesi avanzati vengono investiti con profitto nei paesi arretrati o in via di sviluppo. Tali necessari investimenti all’estero, peraltro in paesi non allineati, o comunque non fedelmente alleati, implica dei rischi molto elevati. Gli investimenti stranieri rischiano sempre, a un certo punto, di essere nazionalizzati, o comunque significativamente tassati. Ora le armi, le guerre e le politiche imperialiste servono proprio come monito a tutti i paesi in cui sono sempre più investiti i capitali dei paesi a capitalismo maturo a non toccare in nessun modo tali investimenti. In questo caso è sempre essenziale dare il buon esempio, magari con la logica di colpirne uno per educarne cento. Questo permette di comprendere la possente copertura che si ostinano a dare tutte le potenze imperialiste, ad esempio, alle spaventose e continue stragi di civili inermi in Palestina, il cui genocidio è funzionale per dimostrare nel modo più vivido cosa aspetta a chi osa mettere in discussione gli investimenti e, più in generale, gli interessi dei paesi imperialisti.
Altro aspetto che spiega le politiche imperialiste, volte a fomentare in ogni continente guerre altrimenti del tutto incomprensibili, in quanto profondamente irrazionali, è la necessità di conquistare sul piano internazionale aree di influenza economica in cui investire capitali sovrapprodotti, vendere le merci che non si riescono a piazzare con profitto in patria e importare, a basso prezzo, materie prime e forza lavoro. Le armi e le guerre sono necessarie a spartirsi il mondo fra le potenze imperialiste e una volta ultimata tale spartizione a difendere la propria zona di influenza mettendo in discussione le aree sotto il controllo di potenze imperialiste necessariamente rivali.
Vi è poi l’esigenza di attrarre investimenti dall’estero in beni rifugio, valutari e in grandi fondi di investimento speculativi. Da questo punto di vista occorre sempre tenere presente il signoraggio innanzitutto del dollaro che consente a una potenza imperialista, che vive da più tempo e nel modo più devastante le contraddizioni necessarie delle società capitalista e le conseguenti crisi di sovrapproduzione, di esercitare il proprio ruolo di potenza dominante sul piano internazionale. Gli Stati Uniti avendo investito sempre più i propri capitali all’estero hanno una bilancia commerciale in continuo squilibrio, in primo luogo nei confronti della Repubblica popolare cinese. Per poter continuare a importare una quantità considerevolmente superiore di merci di quelle che si è in grado di esportare c’è bisogno di imporre la propria moneta come moneta di scambio sul piano internazionale. Così tutte le potenze straniere, a cominciare dalla Cina, saranno costrette ad acquistare dollari, consentendo agli Stati Uniti di stampare una quantità di carta moneta decisamente superiore alle proprie riserve auree, senza dover soccombere sotto i colpi della conseguente inflazione.
Inoltre dollaro ed euro sono imposti, proprio dalle politiche imperialiste volte a generare caos negli altri paesi e continenti, come beni rifugio in cui investire i propri risparmi. Perciò le potenze imperialiste attraggono le risorse monetarie di tutti gli altri paesi del mondo, garantendo la solidità degli investimenti con la potenza delle armi. Tale necessità di investire nelle valute e nei paesi imperialisti si afferma tanto più quanto più le potenze imperialiste fomentano guerre e insicurezza nel resto del globo.
Non a caso molte delle guerre più recenti, a partire dall’aggressione imperialista all’Iraq o alla Libia, hanno come fondamento proprio il tentativo di questi paesi di sostituire il dollaro come moneta di scambio internazionale mettendo in questione il signoraggio su cui si regge il paese più indebitato del mondo e di tutti i tempi, cioè gli Stati uniti.
Così, ad esempio, l’enorme apparato militare statunitense e le continue dimostrazioni della propria furia distruttrice servono a minacciare in primo luogo la Cina la quale, se vendesse le proprie quote azionarie investiti nei titoli di Stato degli Usa, o le proprie riserve di dollari farebbe crollare un paese che può rendere accettabile solo così il proprio sterminato debito pubblico.
Peraltro, come ai tempi del nazismo in Germania, gli investimenti negli Stati Uniti dal resto del mondo non vengono interrotti, nonostante il debito pubblico sempre più spaventosamente grande, esclusivamente in quanto le politiche imperialiste del paese rendono affidabile la propria capacità di continuare a pagare gli interessi sul debito a spese dei paesi travolti dalle aggressioni imperialiste.
Vi è poi il tradizionale motivo per il quale le classi dominanti sfruttatrici portano avanti politiche imperialiste sul piano internazionale, cioè per distrarre le masse sfruttate dalla lotta di classe dal basso, per irregimentarle nelle guerre coloniali dandogli a intendere che è più facile migliorare la propria condizione combattendo i più deboli stranieri, piuttosto che contrastare chi ha il potere nel proprio paese. L’imperialismo è, dunque, necessario per creare quella aristocrazia operaia che deve le proprie condizioni meno peggiori di vita proprio allo sfruttamento selvaggio dei popoli dei paesi coloniali. Gli extraprofitti garantiti dalle politiche imperialiste permettono di redistribuire le briciole al proletariato nazionale per impedire che si volga al socialismo, unico reale antidoto alle politiche di guerra e allo sfruttamento. Così anche quando la caduta tendenziale del saggio di profitto impedisce di fare concessioni ai subalterni da parte delle classi dominanti del paese, ci si rifà a spese dei popoli stranieri più deboli. Tanto più che la terribile violenza che travolge le popolazioni aggredite dall’imperialismo fa perdere al proletariato autoctono la consapevolezza di non aver altro da perdere, impegnandosi nella rivoluzione socialista, che le proprie catene.