Se non è sfruttamento...

Come editoriale di questa settimana, vogliamo dare voce alla testimonianza di un giovane lavoratore sul grado di sfruttamento e sulle condizioni di lavoro disumane praticati nella filiera del più grande colosso mondiale delle vendite online.


Se non è sfruttamento...

«Mi ricordo come fosse oggi quelle due ragazze, sangue nelle dita delle due mani tra indice e medio. Ferite leggere ma ferite. Ma perché? Be’, mi serve stare qui, ho bisogno di lavorare, mi guardo intorno e certo è meglio di rimanere disoccupato, ma spesso mi chiedo: come sono arrivato qui?

Eppure vorrei parlarvi di lavoro oggi in Italia, vorrei parlare di cosa l’Italia ci offre oggi, di come ci abbia venduto al miglior offerente, forse l’unico. Ma non ho più voglia, non ho più forze a essere esatto. Voglio raccontarvi la mia esperienza di tre anni di lavoro per il più grande colosso al mondo.

Vivo un paio di mesi alla volta, leggendo e facendo foto al tabellone turni, non posso permettermi di pianificare una vacanza, un weekend fuori, i turni cambiano e ogni settimana si inizia di nuovo: pomeriggio-pomeriggio-notte-mattina e ancora pomeriggio-pomeriggio-notte-mattina. Le ferie, che io pensavo fossero un diritto fondamentale, vietate in certi periodi dell’anno chiamati “picco” e l’obbligo a lavorare sei giorni su sette per far si che babbo “Mozon” (lo chiamerò così) possa portare gioia mantenendo la promessa di spedizioni e arrivi ai destinatari in tre giorni lavorativi. 

Mi chiedo spesso che fine abbiano fatto i negozi sotto casa. Mi chiedo se non sia monopolio. Mi chiedo perché “Mozon” paghi meno tasse e ci paghi il minimo sindacale. Mi chiedo come tutto ciò sia possibile. Ma io non sono un politico (ahimè non prendo la loro fortuna nonostante la mia schiena credo abbia subito negli ultimi tre anni quanto un politico medio forse in tutta la sua vita). Io non lo capisco proprio come sia possibile che si permetta che un colosso il cui proprietario è l’uomo più ricco del mondo possa pagare meno tasse di tutti quei negozi che oggi stanno fallendo, tra questa concorrenza sleale e gli effetti di una pandemia che sta regalando ancora di più a questo colosso una crescita esponenziale.

La stanchezza si fa sentire ma mi ripeto il mio mantra: finirò l’università e avrò un lavoro “normale”, una vita “normale”. La stanchezza è una costante. Ma voglio descrivervi l’altra faccia della barricata.

Quando avevo 18 anni sognavo le albe con gli amici, le serate, il sabato sera, la vita universitaria, adesso una settimana al mese mi pagano per arrivare alle 6 del mattino. E mi ripeto: sei fortunato, hai un lavoro. Per organizzarmi con gli amici, sempre meno visti i miei turni, devo riuscire a incastrare tutto alla perfezione. Oggi, con la pandemia tutto è ancora più difficile. Ma ripeto ancora il mantra: sei fortunato, hai un lavoro.

Mi chiedo spesso se valga la pena, se sia giusto essere un corollario dei conveyor [1] che portano i totes (i contenitori degli oggetti comprati nel sito) in ogni dove. Mi sento un’appendice meccanica, un corpo senza testa: 8 ore al giorno devo solo fare pacchetti, se sono fortunato il mio lead [2] mi manda in altri dipartimenti, se sono “fortunato” posso piccare (ovvero mettere gli oggetti nei contenitori) o fare stow (mettere gli oggetti in arrivo nel magazzino dentro scaffali mobili guidati da robottini). Sempre le stesse routine ma almeno posso cambiare area del magazzino, posso vedere qualcosa di diverso delle postazioni di lavoro, tutte uguali, tutte assordate dal rumore continuo dei conveyor.

Certo uno potrebbe dire “però almeno non è stressante”: quelle due ragazze avevano il sangue alle dita per movimenti errati alle no slam, bucavano i guanti da lavoro per riuscire ad andare oltre il target e guadagnarsi il blu badge [3]. Be’ una delle due non ha passato il periodo di prova con Adecco [4]: una tendinite l’ha lasciata a casa due settimane. È tornata con ancora qualche dolore ma per l’azienda (scoprii dopo con gli anni) avere malattia nel periodo di prova equivale ad assenteismo = rischio per l’azienda = licenziamento.

Ma io ci sono, sono dentro, ho un contratto a tempo indeterminato che pare solo “Mozon” possa offrire in una Italia senza prospettive. Ma a me manca un anno (solo un anno fuori corso nonostante il lavoro) per riuscire a uscire da questo incubo.

Ma continuiamo: “certo non è stressante”, mi dicono alcuni amici. “Che ci vuole a fare due pacchetti? Vieni a lavorare da noi poi mi dici”. Ecco, vi rispondo che io so a memoria i Cpt [5], della mattina, del pomeriggio e della notte e sapete perché perché negli anni ho capito che sotto Cpt, quando si fa dura, i lead iniziano a correre da un lato all’altro e ti portano totes ti dicono “gentilmente” di lavorarli veloce. Loro galvanizzati come fosse un gioco, io invece lì, che penso come sia possibile questo essere sempre spinti al limite della propria velocità fisica: le macchine escono dai laboratori con le loro specifiche tecniche, ma noi uomini non abbiamo istruzioni e l’azienda ci chiede il massimo, ci spreme. Molti lasciano, scommettono su un contratto di tre mesi (lasciando un indeterminato!). Mi risuona ancora quella parola, choosy [6]. Mi chiedo se quei politici che abbiano permesso allora queste condizioni di lavoro potessero mai immaginare un lavoro alienante come questo… Ma sono fortunato, ho un lavoro.

Certo, dicono che la crescita è possibile, che la meritocrazia esiste.

Certo. Eppure il caso ha voluto che una delle ultime lead pare abbia avuto una relazione con uno dei capi del dipartimento, una fra tante. Colosso internazionale in mano a management italiano. A chi dovrei denunciare queste ingiustizie?

Ma l’ambiente è sicuro, è protetto. Adesso posso dire che quello che entrò una notte in magazzino e tra uno schiaffo e un altro lanciato ai miei colleghi del problem solving e qualche urla gioviale di troppo (più tardi scoprimmo che aveva avuto la promozione a general manager) si allontanò verso lo ship [7]. Mi ricordo ancora la rabbia di quella notte: lui il padrone, io lo schiavo che rischia una lettera di richiamo per cinque minuti di ritardo al lavoro. Per cui – sì, miei amici, forse avete ragione – non è così stressante lavorare per “Mozon”, è umiliante e ti toglie molto, forse troppo, a volte amicizie, a volte la salute, molto spesso il tuo tempo la tua vita ricorrendola sempre al ritmo di pomeriggio-pomeriggio-notte-mattina.»



Note:

[1] Macchine trasportatrici (ndr).

[2] Significa sia un contatto che ha espresso interesse all’acquisto che, come in questo caso, una persona interna all’azienda la quale, facendo da tramite fra la direzione e i lavoratori, comunica gli ordini ricevuti a chi deve lavorarli (ndr).

[3] I dipendenti di questa società all’inizio ricevono tutti un badge orlato di colore blu. Nel tempo tale badge viene sostituito con badge di colori diversi ad attestare la loro anzianità di servizio. In questo caso è da supporre che le lavoratrici, che sono in prova, non abbiano ancora il blue badge (ndr).

[4] Nota impresa di reclutamento, o per dirla alla sua maniera, di recruiment, per conto di Amazon e di altre imprese. Svolge anche attività di selezione e di somministrazione di lavoro interinale (ndr).

[5] Commesse. La dizione deriva dalla clausola contrattuale Carriage Paid To (trasporto pagato fino a) in uso per gli scambi internazionali (ndr).

[6] Esigente, schizzinoso, riferito qui a chi, come l’autore, non si accontenta del miserabile lavoro ottenuto (ndr).

[7] Luogo in cui si trasferiscono i pacchi per la spedizione (ndr).

16/04/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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