L’impiego delle sanzioni per colpire i propri nemici è una pratica antica, che può avere esiti imprevisti. Ricordo per esempio il Blocco continentale, cui aderirono la Russia e l’Austria, deciso nel 1806 a Berlino da Napoleone Bonaparte, con il quale proibiva l’approdo ai porti dei paesi occupati dai francesi alle navi britanniche in analogia al trattamento che ricevevano le imbarcazioni francesi quando si avvicinavano alle coste d'oltreManica. Dopo che la sua flotta congiunta a quella spagnola era stata sconfitta nella celebre battaglia di Trafalgar, nei pressi di Cadice, nel 1805 l’imperatore dei francesi ritenne che quello fosse l’unico mezzo per piegare i suoi più pericolosi nemici; mezzo che d’altra parte, anche se non sempre rispettato, avvantaggiò la Francia, consentendole di esportare i suoi prodotti in tutta Europa.
Anche l’Italia fu sanzionata dalla Società delle Nazioni in occasione della sua espansione coloniale in Etiopia nel 1935 e le fu proibito di importare armi, materiale militare etc., ma poté continuare a ricevere rifornimenti energetici.
Oggi, dal punto di vista del Diritto internazionale, le sanzioni debbono avere come unico obiettivo quello di far cessare “una condotta illecita” e non possono avere una funzione afflittiva e punitiva. Esse non possono comportare l’uso della forza, che può essere deciso solo dal Consiglio di sicurezza delle NU, evento assai improbabile dato il diritto di veto delle grandi potenze. Ne consegue che gli Stati possono applicare “contromisure a fini di autotutela”, ma queste debbono essere rispettose dei diritti umani e non contraddire altre norme sancite dal Diritto internazionale. È cosa dubbia se il diritto di autotutela sia riservato anche agli Stati diversi dallo Stato leso, per colpire chi avrebbe violato gli obblighi procedenti dal Diritto internazionale e che stabiliscono sostegni di tipo solidaristico. E ciò mette in questione la decisione del cosiddetto Occidente di sostenere l’Ucraina.
Come si ricava da questi brevi cenni, la legittimità delle sanzioni nei confronti della Russia, ma non solo come vedremo, è alquanto problematica, se poi si aggiunge che l’Ucraina a tutt’oggi non fa parte della NATO e quindi non è “protetta” dal suo famoso ombrello, nel senso che non siamo obbligati ad intervenire in suo favore da un punto di vista formale. Siamo invece obbligati, e non solo formalmente, ma anche moralmente e politicamente, a garantire e a dare impulso alla pace, la quale non può che basarsi sull’equilibrio internazionale, calpestato dalla fine della Seconda guerra mondiale proprio dagli Stati Uniti e dalla NATO, che costituisce l’unica organizzazione militare in grado di operare in tutto il mondo.
Quanto poi al divieto di fornire armi un paese belligerante, con il solito decreto legge (28 febbraio 2022, n. 16) il governo Draghi ha stabilito il trasferimento di materiale bellico all’Ucraina fino al 31 dicembre 2022, aggirando quanto previsto dalla legge 185 del 1990, che proibisce tali forniture, appellandosi ad una deroga in funzione di “diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”. Come si vede, non solo il diritto di sanzionare, ma anche le nostre vite e quelle dei nostri simili sono appese ad un filo, che i reali interessi politico-economici dell’attuale conflitto per procura tra Ucraina e Russia possono spezzare in qualsiasi momento, grazie alla dabbenaggine, alla cecità di un pugno di rozzi e incoscienti politicanti.
Ovviamente le sanzioni economiche e commerciali vengono decise sulla base della politica estera adottata dal governo statunitense, il quale utilizza l’Office of Foreign Asset Control (OFAC), una divisione del Dipartimento del Tesoro, per controllare la loro applicazione allo scopo di tutelare la sicurezza nazionale e colpire i Paesi ritenuti pericolosi, terroristi, trafficanti di droghe, proprietari di armi di distruzione di massa etc. Almeno così ci viene detto, anche se poi andando a verificare lo status del Paese sanzionato (v. Cuba), risulta evidente l’infondatezza di tali ragioni.
La OFAC si preoccupa di pubblicare la lista degli individui e delle società possedute o controllate dai Paesi sanzionati o che agiscono in loro favore, al contempo rende noti i nomi di individui, gruppi, entità, come per esempio i terroristi e i narcotrafficanti, non collegati a Paesi specifici. Coloro che vengono colpiti sono definiti "Specially Designated Nationals" or "SDNs”, i loro beni sono bloccati – come è successo a vari “oligarchi” – e i cittadini statunitensi non possono stabilire rapporti con essi. Come se ciò non bastasse, abbiamo visto nei giorni passati il governo statunitense fare pressioni, se non ricatti, a Paesi deboli come la Serbia, e a Paesi forti come l’India e la Cina, ricevendo il netto rifiuto di adottare le sanzioni contro la Russia.
Il Congresso degli Stati Uniti ha attribuito al presidente poteri di emergenza in virtù dei quali può emettere sanzioni, senza consultarlo. Il Sole 24 ore definisce gli Stati Uniti i re delle sanzioni, che sono state scagliate da presidenti repubblicani o democratici, contro Paesi assai diversi come Iran, Libia, Sudan, Myanmar, Cuba, Siria, Cina, Venezuela, Russia. Tuttavia, saggiamente lo stesso quotidiano della Confindustria fa notare: “le drastiche misure in preparazione (siamo oggi arrivati al sesto pacchetto) – provvedimenti di alto profilo su banche e finanza, energia e tecnologia - sono in realtà una partita incerta e ad alto rischio: in gioco è come non mai l’efficacia di uno strumento dalla storia contrastata in termini di esiti e ostaggio di ostacoli fuori e dentro i confini americani. Testimone ne è l’acceso dibattito nel mondo politico accademico e dell’intelligence statunitense”. Del resto, riporta sempre il Sole 24, lo stesso Biden ha dovuto ammonire il Paese che le sanzioni non saranno indolori, dato che esse hanno fatto aumentare i prezzi dell’energia e quelli delle forniture di materiali determinanti quali il titanio (per Boeing) e il palladio (per l’auto), tenendo presente anche che più di 1.100 aziende statunitensi acquistano materiali in Russia. In definitiva, come stiamo sperimentando anche in Italia andando a fare la spesa o rifornendoci di benzina, il costo della vita sta aumentando e alcuni giornali hanno dovuto pubblicare le foto di lunghe file di italiani, non di ucraini, in attesa per ritirare gli ormai indispensabili per loro pacchi alimentari. Nello stesso tempo, la Federazione russa si è trovata a dover ridurre le esportazioni di risorse energetiche ai cosiddetti occidentali, fatto che da un lato – come abbiamo visto – ne ha fatto aumentare i prezzi, consentendo ai “maledetti” russi di guadagnare di più esportando di meno (inaudito!), dall’altro di venderle a prezzi scontati (34 dollari al barile di petrolio) a Paesi come il Pakistan e l’India, mentre noi paghiamo il barile oltre i 100.
Paradossalmente queste decisioni dei paesi della NATO che, come dicono gli analisti latino-americani, costituiscono “un tiro en el pie”, hanno dovuto rivolgersi ad altri Paesi, come per esempio il Congo e l’Angola non certo molto ricchi di risorse energetiche, per ottenere i rifornimenti perduti in vista del prossimo inverno, paventando un nuovo periodo di risparmi (su che?) e di austerità. Chissà se la signora Ursula, con le sue giacchette professionali, imporrà limitazioni anche ai consumi delle basi americane stanziate nel nostro continente, che sono vertiginosi e credo intoccabili. Inoltre, data l’attuale instabilità internazionale, i nuovi Paesi, soprattutto quelli dell’Africa, dove la penetrazione cinese e russa sono sempre più preoccupanti per i “nostri”, potrebbero cambiare orientamento politico e stracciare i trattati, come del resto sono abituati a fare gli Stati Uniti.
I nostri media non hanno dato molto risalto al fatto che funzionari statunitensi, con la coda tra le gambe, si sono dovuti addirittura recare in Venezuela e in Iran per richiedere l’indispensabile oro nero senza il quale l’ingranaggio capitalistico e i profitti si bloccherebbero. Sembra che Israele si sia opposto all’ipotesi di accordi con l’Iran, mentre il Venezuela di Maduro, tra l’altro alleato della Russia, ha ovviamente posto delle ragionevoli condizioni (togliere le sanzioni), trovando un sostegno nella multinazionale Chevron che non vede l’ora di tornare a traforare il suolo della nazione caraibica.
A questo punto sembra opportuno, per valutare l’impatto delle sanzioni varate contro la Federazione russa, farsi una serie di domande: quali sono i Paesi della solita “comunità internazionale” che hanno condiviso questa decisione? In cosa consistono queste sanzioni?
Se teniamo in conto che i Paesi che hanno stabilito di sanzionare la Russia costituiscono solo il 19% dei 193 paesi accreditati alle NU, ci rendiamo conto che non coincidono con la “comunità internazionale”; d’altro lato essi rappresentavano nel 2020 il 59% del PIL mondiale, essendo i Paesi più ricchi. Oltre alla Cina, all’India, il Sud Africa (BRICS), ricordo che si sono rifiutati di aderire alle sanzioni anche la Turchia, l’Iraq, l’Iran, il Vietnam, vari paesi dell’Asia centrale, Paesi importanti dell’America latina come il Messico, il Brasile e la Bolivia, insieme ovviamente a Venezuela, Cuba e Nicaragua; in Africa, la maggioranza degli Stati si è dichiarata neutrale, l’Eritrea e la Repubblica centroafricana si sono schierati apertamente per la Russia (per lista completa v. https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-tutto_quel_mondo_che_dice_no_alle_sanzioni_alla_russia/45289_45413/
Secondo l’Istituto per gli Studi di Politica internazionale), solo un terzo delle sanzioni imposte nel passato hanno avuto successo, ovviamente non tenendo conto dei costi umani (ma questo conta assai poco), e dovrebbero essere adottate dalla maggior parte dei Paesi, cosa che non è avvenuta. Inoltre, in assenza di sanzioni secondarie contro i Paesi non sanzionanti (una sorta di Giudizio universale), la Russia ha a disposizione un mercato rappresentato dal 41% del PIL mondiale, al quale si è già rivolta con risultati soddisfacenti, semplicemente cambiando acquirente. Come ci viene costantemente ripetuto, scopo delle sanzioni contro la Russia è quello di colpire le sue esportazioni per limitare i finanziamenti che le provengono dall’estero con i quali pagherebbe i costi delle sue operazioni belliche.
Dato che ad oggi - 4 maggio 2022 - siamo giunti al sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, senza contare la costosissima decisione imposta dagli Stati Uniti alla Germania di bloccare l’apertura del gasdotto Nordstream2, non è facile fare un quadro complessivo delle attività bloccate, per cui rimando al documento relativo alle decisioni della UE. Quanto agli Stati Uniti, le sanzioni adottate non divergono sostanzialmente da quelle europee, per la semplice ragione che sono loro a dettarne le modalità e i contenuti. Pertanto, complessivamente esse riguardano il congelamento di beni e il divieto di ingresso nei Paesi sanzionatori, sanzioni finanziarie (divieti di pagamento alla banche russe), divieto di accedere al sistema SWIFT (ma Russia, Cina e India pare ne abbiano già creato uno alternativo), divieto di investire nel settore energetico russo, restrizioni in materia di scambi commerciali, divieto di esportazione di alta tecnologia, divieto di importazione relativo a determinati prodotti in acciaio e ferro, combustibili fossili, carbone e ferro, restrizioni al trasporto aereo e marittimo e, last but not least, il blocco ai mezzi informativi del Paese nemico. Se come si sottolineava in precedenza, le sanzioni non debbono colpire i diritti umani, sembra che in questo caso – come del resto anche in passato – ad essere colpite saranno soprattutto le popolazioni della Federazione Russa con ampie ricadute su quelle europee ed extraeuropee (negli USA l’inflazione è all’8,5%). Basti pensare che la mancanza dei fertilizzanti e dei cereali russi provocheranno non solo l’aumento dei prezzi degli alimenti, ma anche una gravissima crisi alimentare per i Paesi più poveri dove ancora regna la fame. Inoltre, mi chiedo quale base giuridica abbia il congelamento dei beni dello Stato russo e di alcuni cittadini di quel Paese che certo non possono essere considerati responsabili direttamente delle decisioni del governo di Vladimir Putin.
Con il sesto pacchetto l’Unione Europea ha previsto che tra sei mesi non si rifornirà più con il petrolio russo, ha bloccato altri canali televisivi, ha escluso da SWIFT anche la Sberbank, ha compilato una lista di criminali di guerra (giudicati da chi?) e ha proibito di prestare servizi di consulenza alle istituzioni del Paese euroasiatico. Purtroppo per questi tecnocrati invasati, nonostante la Germania si sia lasciata convincere a rinunciare al petrolio russo ma non al gas, almeno per ora, l’Ungheria si oppone a questa misura suicida e la bloccherà.
Complessivamente sembrerebbe che le sanzioni determinerebbero una riduzione di circa il 7% delle esportazioni russe grazie alle alternative offerte alla Russia dagli altri mercati, mentre il blocco delle importazioni si riverserebbe inevitabilmente anche sulle imprese occidentali che perderebbero importanti acquirenti. Comunque, nello scenario della recessione che sembra avvicinarsi velocemente, questi ostacoli al commercio internazionale sembrano destinati solo a generare un aggravamento sempre più rapido della crisi sistemica. Sul fronte delle imprese straniere presenti in Russia, invece, oltre alla persistente presenza cinese, possiamo segnalare che un terzo ha deciso di restare e che le più numerose a fare questa scelta sono state quelle francesi e quelle italiane.
Tutta questa instabilità sembrerebbe riconfigurare il sistema delle relazioni internazionali il cui volto ci è ancora ignoto e forse sarà plasmato da altri conflitti e violenze.