Le difficoltà dei lavoratori nella prima fase della guerra mondiale

Perché, in un momento di #crisi così importante, il #movimento dei #lavoratori manifesta una debolezza così accentuata?


Le difficoltà dei lavoratori nella prima fase della guerra mondiale Credits: LaPresse, Pomigliano d'Arco (NA)

Nell’autunno 2021 si sono svolti due scioperi generali, uno del sindacalismo di base, l’altro di CGIL e UIL, contro le politiche economiche del governo Meloni. Il dato che è apparso evidente a chiunque avesse un minimo di obiettività è il fallimento di entrambi gli scioperi, la loro debolezza e irrilevanza sul piano politico nonché sulla reale partecipazione delle grandi masse dei lavoratori alle date di sciopero. Non mi voglio soffermare a lungo, soprattutto in questa sede, sui profondi limiti delle organizzazioni sindacali che hanno indetto questi scioperi. È evidente che assistiamo da molto tempo a un processo di autoreferenzialità delle organizzazioni sindacali nelle loro scelte di lotta, che si riscontra in maniera sempre più netta in una difficoltà di condividere, coinvolgere e stimolare i lavoratori al conflitto, fenomeno che, a sua volta, induce – soprattutto in un periodo di crisi, qual è quello attuale – a una pericolosissima sfiducia da parte dei lavoratori nelle potenzialità e nell’efficacia dello strumento dello sciopero. Eppure, se osserviamo la fase politica e sociale in astratto, ci sarebbero, almeno in teoria, una quantità enorme di ragioni per attivare in Italia un grande processo di mobilitazione dei lavoratori, soprattutto in vista di scioperi generali, poiché l’attacco che i lavoratori hanno subito nell’ultimo anno di guerra ha inciso pesantemente sui salari intaccandone decisamente il potere d’acquisto. Perché allora, di fronte a un attacco così pesante la risposta è stata così debole? Perché in una fase di crisi così accentuata del capitalismo, dove il costo sociale viene scaricato quasi integralmente sulla classe lavoratrice, quest’ultima manifesta un grado di debolezza così accentuato, addirittura superiore alla maggioranza dei paesi dell’UE dove i salari hanno perso meno che in Italia? Se una parte delle ragioni vanno certamente riconosciute nei vertici delle organizzazioni sindacali, è oltremodo puerile far ricadere esclusivamente su queste ultime le cause di questa debolezza, non fosse altro per il motivo che in questo modo daremmo alle burocrazie sindacali un potere assoluto, il che equivarrebbe a riconoscere l’impotenza della classe lavoratrice da un punto di vista ontologico, assoluto, oppure elaborare la proposta caldeggiata da alcuni per cui la soluzione di fondo sarebbe auspicare un passaggio della stragrande maggioranza dei lavoratori dal sindacato confederale al sindacalismo di base. Questo passaggio, tuttavia, non è affatto avvenuto, al contrario, la crisi progressiva del livello di sindacalizzazione dei lavoratori italiani ha prodotto una crisi, forse ancor più acuta nelle file del sindacalismo di base che risente, a sua volta, dei limiti profondi della classe lavoratrice nella disponibilità a una conflittualità sul terreno generale ma che è al massimo è disposta a lottare su un terreno di categoria, oppure sul singolo luogo di lavoro. 

Il grosso delle attività sindacali si riduce, quindi, a un lavoro di consulenza individuale, accentuato dall’attitudine dei padroni e della classe dirigente ad alimentare la frammentazione dei lavoratori e a far ricadere su questi ultimi il peso di una burocratizzazione sempre più accentuata degli oneri lavorativi. Il terreno confederale, che avrebbe il compito di riunire le lotte tra le diverse categorie e abbozzare un piano di organizzazione dei diritti generali dei lavoratori, è affidato a una burocrazia sindacale che, non contemplando minimamente un’ipotesi di trasformazione generale dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e non avendo la benché minima idea di un progetto di riorganizzazione generale della produzione, è costretta a ricercare sponde possibili in una classe politica che condivide in pieno i progetti ordoliberisti di cui è inebriata la classe dominante, italiana, europea e, allargando ancora più il campo, potremmo dire, del cosiddetto “mondo libero”.

Il dato di fatto da cui dovremmo partire per un’attenta analisi sulle dinamiche del mondo del lavoro e del conflitto sociale in Italia è che da un anno a questa parte, non solo siamo in guerra ma stiamo entrando in un’economia di guerra. A condurre questa guerra verso la Federazione Russa e, più in generale, verso tutti i popoli del terzo mondo, per salvaguardare la superiorità del cosiddetto Mondo Libero (un eufemismo per camuffare la natura predatoria e rapinatrice dell’Imperialismo euro-atlantico e giapponese) c’è tutto il concentrato ideologico, culturale e politico che accomuna la classe dirigente italiana e la sua visione del mondo, in particolare dal 1989 in poi. Per questa oligarchia industriale e finanziaria la natura ideologica del contendere, inoltre, non attiene solamente al conflitto tra Stati ma alla conservazione dei rapporti di potere all’interno degli Stati, tra le classi sociali. I rapporti di forza che si sono definiti dopo il 1991 e l’idea di fondo per cui il capitalismo equivalesse a un ordine sociale immutabile si abbinava all’ideologia ordoliberista, quindi al principio per cui gli Stati avrebbero dovuto essere completamente al servizio dei movimenti speculativi dei capitali, che il salario e il lavoro fossero variabili marginali e che, quindi, tutte le conquiste ottenute nei conflitti sociali dal dopoguerra in poi dovessero essere abbattute. Il contesto all’interno del quale questa visione si affermava in tutti i meandri della vita pubblica e della politica internazionale era (ed è ancora) quello dell’egemonia del dollaro come unica valuta di riferimento negli scambi internazionali e dell’accrescimento costante dell’apparato militare-industriale statunitense. Questo sistema economico-finanziario sta entrando in una crisi irreversibile in tutto il mondo; tuttavia, per garantirne l’esistenza, le classi dominanti dei principali paesi imperialisti sono disposte a scatenare una guerra mondiale a tutto campo usando tutti i mezzi a loro disposizione. Il primo strumento è il sistema bancario internazionale – accentuando la dinamica delle sanzioni nei confronti dei paesi non allineati – per passare poi al controllo ferreo sull’informazione e all’incremento esponenziale delle spese militari.

La politica economica funzionale al mantenimento dell’egemonia occidentale è una forma di protezionismo accentuato che, non a caso, produce in questi stessi paesi una dinamica iperinflazionistica che tocca esponenzialmente gli Stati più coinvolti nel conflitto bellico. In Polonia l’inflazione ha raggiunto il dato del 26% un dato simile è presente nei Paesi Baltici, in Germania e in Italia la cifra si attesta intorno al 12%. Non è affatto azzardato parlare, in questo contesto, di keynesismo di guerra. Da quanto detto risulta quindi evidente che in alcuni paesi europei – l’Italia, la Germania, la Repubblica Ceca, la Moldavia, la Bulgaria – il sentimento generale dell’opinione pubblica si esprime in una diffusa insoddisfazione rispetto alle politiche belliciste, evidente nei sondaggi e nelle manifestazioni che si sono svolte in questi paesi nell’ultimo anno. Se il sentimento diffuso in molti settori della classe lavoratrice e della piccola borghesia è quello di un rifiuto epidermico rispetto al bellicismo imperante, l’orizzonte politico-sindacale in cui si muovono i lavoratori è quello del particulare, della resistenza all’attacco che subiscono nel proprio posto di lavoro o, al massimo, nella singola categoria. L’orizzonte politico di un superamento del modo di produzione capitalistico è totalmente alieno dal proprio vissuto, tanto più che non esiste una forza politica minimamente credibile che gli descriva le tappe possibili per immaginare questo orizzonte. Con il keynesismo di guerra, poi, i margini d’azione per un’azione riformista si riducono sempre di più, apparendo agli occhi dei lavoratori impossibile anche il semplice recupero dell’inflazione. A ciò si aggiunge una totale incomprensione del ruolo imperialista che svolge l’Unione Europea la quale, per un verso vorrebbe perseguire una politica di rapina verso le materie prime e i mercati di sbocco nel terzo mondo, per un altro sviluppa una competizione e cooperazione con l’imperialismo USA molto più forte sia da un punto di vista militare che finanziario. Molti analisti economici, dimenticando la natura concreta della categoria di imperialismo tendono a pensare che la guerra in Ucraina sia una guerra degli USA contro l’Europa e non riescono a spiegarsi il perché i politici tedeschi, francesi e italiani abbiano accettato una guerra che ricadeva pesantemente sull’economia di questi paesi, danneggiando parte della produzione industriale a causa dell’incremento del prezzo della materia prima e dell’inflazione. A mio parere la categoria del servilismo non spiega nulla mentre rappresenta solamente l’immissione di una categoria morale nell’ambito del conflitto economico tra Stati che non ci aiuta a capire la realtà delle cose.

L’aumento delle spese militari tra le principali potenze europee non si capisce se non si coglie questa natura dialettica tra imperialismi in cooperazione per la distribuzione dei mercati mondiali e, congiuntamente, di competizione tra gli stessi. Il fatto che non ci siano i militari europei o italiani in Ucraina mistifica la realtà dei fatti, ovvero nasconde che siamo completamente immersi in un’economia di guerra e che l’UE rappresenta uno dei principali protagonisti di questo processo. Se siamo in un’economia di guerra vuol dire che si riducono gli spazi di democrazia sia in Italia che in Europa, soprattutto per quanto riguarda le libertà di manifestazione e di sciopero. Per quanto riguarda, invece, la democrazia formale, le trasformazioni in chiave autoritaria e presidenzialista degli ultimi trent’anni connesse a quelle proposte dal governo Meloni – l’autonomia differenziata e la riforma della democrazia in chiave presidenziale – rappresentano un’ulteriore torsione in chiave oligarchica e autoritaria della struttura dello Stato. Un altro punto critico che va messo chiaramente in evidenza riguarda l’attitudine presente in parti della società e nei vertici del sindacato a considerare gli interessi degli industriali e quelli dei lavoratori accomunati da un medesimo destino.

La crisi che stiamo vivendo, soprattutto relativamente all’aumento generalizzato dei prezzi energetici e dei beni di prima necessità, spinge una parte dell’opinione pubblica a immedesimarsi in una paura per il rischio di deindustrializzazione che porterebbe alla chiusura delle fabbriche e, congiuntamente, al licenziamento dei lavoratori. Si tratta di una concezione neocorporativa del sindacato che nasce dagli accordi dell’EUR del 1992 e che si evidenzia in molte dichiarazioni del segretario CGIL Maurizio Landini. Questa concezione neocorporativa è stata talmente interiorizzata nell’opinione pubblica per mezzo degli organi d’informazione che nella maggior parte dei dibattiti e talk show si usa oramai, in tutta la discussione pubblica, la dicitura standard famiglie e imprese. Questa espressione serve a mistificare il conflitto di classe nel paese presentando i lavoratori e gli imprenditori accomunati da medesimi interessi che si contrapporrebbero a quelli di una classe politica corrotta, che vive di rendita e non capisce i reali bisogni della società civile. Il punto di maggiore debolezza del Movimento Cinque Stelle è che, dal suo sorgere, ha condiviso implicitamente quest’interpretazione della realtà e ha raccolto il malcontento generale presentandosi come il rappresentante del popolo contro le elite politiche corrotte. Al Movimento Cinque Stelle è sempre mancata un’attenta analisi del corruttore, che è stato ritrovato in un universo indefinito di banchieri e grandi finanzieri e che si perde nel misticismo della parola generica “poteri forti”. Si tratta della stessa retorica costantemente utilizzata dai movimenti cosiddetti “sovranisti” i quali, avendo una base di massa prevalentemente “piccolo-borghese” cadono perennemente – a volte anche senza volerlo – in un’analisi di tipo complottista della realtà. Secondo quest’analisi, la società idealizzata dei lavoratori e delle piccole imprese del manifatturiero e della distribuzione sarebbe composta di persone buone, oneste e produttive in contrapposizione a un manipolo di finanzieri, giornalisti del main stream e politici corrotti che vivono sulle spalle di questa stessa massa, formando un’oligarchia parassitaria che si alimenta del sangue succhiato al lavoro dei produttori. La stessa Meloni, fino a che era il principale partito d’opposizione, ha usato spesso questo tipo di retorica, forzandola sempre di più in direzione di una visione marcatamente atlantista e culturalmente identitaria. Non è un caso, infatti, che l’impronta legislativa di fondo del nuovo governo sia quella di assecondare una parte consistente dei desideri della piccola borghesia – riduzione del tetto del contante, eliminazione del reddito di cittadinanza – per inquadrarla dentro il progetto generale del grande capitale finanziario e di una parte consistente del settore manifatturiero, pienamente integrato nel mercato europeo e nell’atlantismo. Se consideriamo, poi, che la guerra nella società capitalistica rappresenta anche una ridefinizione dei rapporti di forza tra paesi imperialistici e che, quindi, data la crisi di sovrapproduzione, lo stato più forte economicamente conquista quote di mercato, inglobandole, sullo Stato più debole, possiamo osservare chiaramente che questo fenomeno si evidenzia nel rapporto tra il polo imperialista europeo e quello statunitense, entrambi alleati nella guerra in Ucraina. Per risollevare le sorti della classe lavoratrice dipendente da un attacco che subisce in maniera sempre più subdola e sfacciata non è sufficiente il semplice richiamo alla conflittualità e all’esigenza di praticarla concretamente nei posti di lavoro in cui si è impegnati.

Ciò che serve è un lavoro teorico e pratico di direzione politica che può configurarsi solo con la creazione di un’area politica che lavori in tutti i luoghi possibili del conflitto – così come nei luoghi di lavoro – per collegare i malesseri dei lavoratori – che si esprimono spesso in chiave corporativa, particolare – con le dinamiche più generali. Quest’area politica deve essere in grado di mostrare, con l’esempio personale e con l’elaborazione teorica, che la classe lavoratrice, coadiuvata e sostenuta da altre categorie o classi sociali in declino, è potenzialmente in grado – non solo di difendere il proprio posto di lavoro o di contenere l’attacco che quotidianamente subisce, ma anche di organizzare in maniera più razionale la produzione, di fuoriuscire, almeno potenzialmente, da quella condizione di declino e di mancanze di prospettive in cui è stata ricacciata in questi ultimi trent’anni. Tutto ciò può apparire come un lavoro titanico, o un progetto utopistico, impossibile da realizzarsi nelle condizioni date, tuttavia, la crisi di sovrapproduzione mondiale in cui siamo inseriti, la guerra come tentativo di risolvere la crisi con la violenza, le contraddizioni insanabili nelle quali si trova l’Unione Europea e l’Italia come anello debole di questo blocco imperialista spingono masse sempre più vaste di settori popolari a interrogarsi criticamente sul significato delle azioni che, ai loro danni, sta conducendo la classe dirigente. Gli interrogativi sulla relazione tra aumento dei prezzi e guerra imperialista sono sempre più diffusi; il dibattito sulle cause oggettive del peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori si fa sempre più forte, mentre la classe dominante non riesce a ingabbiarlo dentro i limiti angusti di un'informazione di regime sempre meno rispondente ai bisogni delle masse. Non possiamo conoscere o prevedere il punto critico in cui queste contraddizioni esploderanno in maniera devastante producendo conflitti accesi, né come questa crisi si manifesterà concretamente, tuttavia è nostro compito delineare una possibile via d’uscita, un ribaltamento dei poteri fra le classi che presupponga una trasformazione anche nelle dimensioni aziendali – troppo piccole per reggere la crisi – un incremento dell’intervento statale nell’economia a vantaggio dei lavoratori e che sia finalizzato a un aumento degli investimenti per accrescere le dimensioni aziendali nella produzione e, ove possibile, statalizzare. Una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario che ci permetta di contenere il flagello della disoccupazione. Non è possibile neanche concepire tutto ciò se si rimane incastrati nell’orizzonte della politica protezionista e di guerra condotta dal blocco Nato, quindi è nostro dovere proporre, anche gradualmente, una fuoriuscita da questo blocco di alleanze e, in prospettiva, una diversa collocazione dell’Italia in un mondo multipolare. I meccanismi del debito e le dinamiche ricattatorie agiranno comunque come una tagliola sulla pelle dei lavoratori e delle classi popolari, ed è per questa ragione che i lavoratori hanno ancora paura di questa prospettiva. Tuttavia, senza ragionare concretamente in questa direzione, non è possibile alcuna reale trasformazione rivoluzionaria nel nostro paese.

 

 

27/01/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: LaPresse, Pomigliano d'Arco (NA)

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L'Autore

Francesco Cori

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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