Come avevamo da subito fatto notare, per quanto non si potesse che essere felici della sconfitta di Donald Trump, l’amministrazione Biden rischia di essere una forma di imperialismo democratico ancora più aggressivo, in politica estera. della precedente. La prova più evidente è la sconcertante e criminale dichiarazione di Joseph Biden che ha definito Vladimir Putin un killer, ovvero un assassino, un sicario. Inoltre, con un procedimento caro ai nazisti, ha disumanizzato il proprio competitore definendolo senz’anima. Dichiarazioni che in un primo momento si poteva sperare fossero soltanto l’ennesima prova della arteriosclerosi di un presidente, universalmente noto per le sue continue gaffe. Purtroppo tale speranza è stata presto spazzata via dalla stessa Casa bianca che non solo non ha sentito il bisogno di scusarsi, ma ha rivendicato pienamente le gravissime accuse, anche se prive di qualsiasi prova. Tanto che Biden a sostegno della sua infamante denuncia, non ha trovato di meglio da dire che la Russia avrebbe influenzato le elezioni statunitensi, come se gli Stati Uniti non lo facessero da decenni in tutto il mondo. Così, ad esempio, “nel 1996 senza il massiccio sostegno diretto Usa a Boris Eltsin le elezioni sarebbero state vinte dal Pc russo, ma la democratica America era schierata con il leader che fece bombardare «democraticamente» il parlamento russo” [1]. A poco sono valsi, quindi, i tentativi dei media filoamericani di sminuire la gravità dell’accaduto. In effetti, delle dichiarazioni così pesanti e violente non vi erano state neppure durante i periodi più bui della guerra fredda. A ulteriore dimostrazione che la fine della guerra fredda non ha costituito in alcun modo un evento progressista. In quanto l’equilibrio del terrore era paradossalmente preferibile all’affermazione degli Stati Uniti come sola grande potenza a livello mondiale.
Certo, è innegabile che dichiarazioni così scomposte e gratuitamente sopra le righe siano indizio della profonda crisi di cui, da oltre cinquant’anni, gli Stati Uniti sono l’epicentro. Ma è proprio la crisi a spingere la leadership statunitense a divenire sempre più irrazionalmente aggressiva. A ulteriore dimostrazione di questa isterica escalation dell’imperialismo “democratico” statunitense vi sono stati i recentissimi incontri in Alaska con i dirigenti della Repubblica popolare cinese (Rpc). Ci si sarebbe potuto attendere – come ci aveva insegnato la spregiudicata politica estera statunitense durante la guerra fredda – un’astuta tattica volta al dividere et impera, ossia migliorare i rapporti con la Repubblica popolare, per mettere in discussione la sempre più stretta alleanza di quest’ultima con la Russia. Proprio al contrario, rinunciando ancora una volta alla proprio potenziale egemonico, gli Stati Uniti sono partiti immediatamente con pesantissimi attacchi contro la Repubblica popolare.
Peraltro, anche il tentativo di giustificare questa aperta aggressività con l’esigenza di riassumere il ruolo di maggiore difensore sul piano internazionale dei diritti umani appare debolissimo, dal momento che l’amministrazione Biden aveva appena rinunciato a sanzionare l’erede al trono del paese più totalitario al mondo, in cui si compiono le più sfacciate violazioni dei diritti umani, nonostante gli stessi servizi statunitensi abbiano in mano prove che il principe sia il principale responsabile del killeraggio di un giornalista di uno dei principali giornali statunitensi, colpevole di criticare da un punto di vista liberale il proprio paese.
Ancora una volta ben più sagge e pacate sono state le repliche dei dirigenti russi e cinesi, che hanno nuovamente dimostrato di non accettare il piano della legge della giungla che gli vorrebbero imporre gli imperialisti statunitensi, replicando sul piano della ragione, del dialogo. Putin, non accettando la pesantissima provocazione del proprio avversario, ha cercato di minimizzare l’aggressione subita, da una parte giustificandola con l’avanzata età di Biden – che lo porta spesso a perdere l’autocontrollo – dall’altra con una giustificazione di tipo psicologico, per cui si tenderebbe a proiettare sull’altro le proprie colpe. In altri termini, si tratterebbe di scaricare all’esterno il proprio istinto di morte, per evitare che abbia delle conseguenze autodistruttive rimanendo confinato all’interno di chi ne è portatore.
Allo stesso modo pacata e riflessiva è stata la risposta dei dirigenti della Rpc, dinanzi ai pesantissimi attacchi decisamente provocatori rivoltigli immediatamente dai rappresentanti degli Stati Uniti, a chiudere qualsiasi possibilità di dialogo, necessariamente basato sul reciproco riconoscimento. I rappresentanti della Repubblica popolare cinese hanno mostrato come la pretesa del governo statunitense di voler imporre, con ogni mezzo necessario, il proprio modello di “democrazia” sia sempre meno popolare a livello internazionale. Dal momento che gli stessi presidenti degli Stati Uniti, prima Trump e poi Biden hanno platealmente dimostrato di non essere neppure loro convinti della validità di tale modello, al quale tutti gli altri si dovrebbero conformare.
Peraltro questo estremo e sostanzialmente disperato tentativo di rilanciare la guerra fredda – nonostante Russia e Cina da anni abbiano fatto di tutto per non presentarsi più come un modello alternativo a quello imposto dal pensiero unico dominante – è funzionale a giustificare come anche in piena pandemia molte più risorse pubbliche dovrebbero essere investite nel settore militare, piuttosto che nel settore sanitario, e per riaffermare la propria leadership sugli altri paesi a capitalismo avanzato (imperialisti). Un ruolo guida che non sarebbe più giustificabile se non rilanciando, in ogni modo, lo spirito di crociata contro le nuove edizioni dell’impero del male. A tale scopo l’amministrazione democratica non trova di meglio che rilanciare la concezione politica nazionalsocialista cara a Carl Schmitt per cui l’essenza della politica sarebbe da ritrovare nel nesso amico-nemico e il suo obiettivo non potrebbe che essere l’annientamento di quest’ultimo.
Quello che stupisce è la continuità dell’acquiescenza dei paesi imperialisti europei che, per quanto pesantemente colpiti nei loro stessi interessi economici dalle gratuite politiche guerrafondaie statunitensi, non facciano nulla di significativo per rivendicare la loro reale indipendenza e la necessità di ristabilire rapporti su un piano paritario, essendo ormai sempre più palesemente in crisi il ruolo guida statunitense. In realtà anche i minimi tentativi da parte della classe dirigente di autonomizzarsi e di sottrarsi ai continui ricatti con cui gli Stati Uniti impongono i loro interessi agli alleati, sono stati prontamente costretti a rientrare, per la netta contrarietà da parte della classe economicamente dominante e, di conseguenza, degli strumenti di egemonia sulla società civile in suo possesso – a cominciare dai mezzi di comunicazione di massa. Peraltro analogo è il riflesso pavloviano della classe economicamente dominante non appena si palesa una politica più tattica della classe dirigente, che metterebbe in discussione lo spirito di crociata contro quei paesi che ancora osano resistere al totale dominio globale delle potenze imperialiste. Così anche la più recente aggressione di Biden al presidente russo è stata ampiamente preparata e provocata dai mezzi di comunicazione di massa che fanno di tutto per mantenere vivo lo spirito di crociata e la caccia alle streghe, impedendo qualsiasi forma di distensione e coesistenza pacifica sul piano internazionale, caparbiamente ricercata dai principali competitori dell’imperialismo statunitense, dalla Russia alla Cina, dall’Iran a Cuba.
Tale attitudine a essere sempre più realisti del re – oltre a confermare il predominio nel modo di produzione capitalistico del mondo economico della società civile sul piano politico dello Stato – è dovuta alla necessità di bastonare il can che affoga, rafforzando la sempre più spietata offensiva nella lotta di classe portata avanti dall’alto. In tal modo, la borghesia giustifica il suo predominio a livello internazionale, grazie a un livello molto più elevato di coscienza di classe rispetto ai suoi avversari, che la porta a comprendere come non ci possa essere che lotta di classe in una società divisa in gruppi sociali necessariamente antagonisti. Allo stesso modo la borghesia ha decisamente maggiore consapevolezza rispetto al proletariato che la lotta di classe non si svolge solo sul piano interno, ma anche nella politica internazionale. Dunque, come sul piano interno bisogna stroncare ogni tentativo di resistenza da parte dei ceti subalterni, anche sul piano internazionale la borghesia considera indispensabile spazzare via ogni forma di resistenza e di contropotere.
Così, come in politica interna i partiti borghesi di destra e di sinistra sono sempre pronti a mettere in secondo piano i conflitti interni al proprio campo per fare fronte comune contro il proletariato – al punto che oggi in Italia governano tranquillamente insieme dalla Lega a Leu, con la piena benedizione dal sindacato neocorporativo – sul piano internazionale le contraddizioni inter imperialiste vengono poste sempre in secondo piano quando si tratta di riaffermare il dominio incontrastato dell’imperialismo a livello internazionale.
Da questo punto di vista sembra avere scarso peso il fatto che le maggiori forze che si oppongono al grande capitale finanziario sia sul piano interno che estero siano oggi generalmente sulla difensiva, abbiano pienamente accettato il terreno di battaglia dell’avversario e non rappresentino più una reale alternativa. Anzi, dal punto di vista della lotta di classe tutti questi arretramenti e queste concessioni fatte dall’avversario non fanno altro che manifestare la propria debolezza, spingendo l’antagonista a portare avanti la propria offensiva in modo ancor più spregiudicato.
D’altronde, anche sul giudizio da dare all’attuale governo del blocco sociale borghese, egemonizzato dal grande capitale finanziario, sarebbe del tutto unilaterale e scorretto basarsi esclusivamente sulla politica interna. Occorre necessariamente tener conto anche del piano internazionale. Da questo punto di vista la posizione dell’attuale governo è decisamente più sfacciatamente filoimperialista dei governi precedenti. Tanto che, mentre in politica interna non ha ancora scoperto realmente le sue carte, sul piano internazionale ha da subito spazzato via le tendenze populiste dei precedenti governi, ribadendo di considerare essenziali e indiscutibili la più completa adesione al costituendo polo imperialista europeo e la completa adesione, al solito in funzione subordinata all’alleato statunitense, alla Nato Discorso analogo vale per l’attuale linea dell’Unione europea, apparentemente meno antipopolare, ma decisamente più decisa a rinsaldare l’alleanza interimperialista con gli Stati Uniti, nonostante la politica sempre più decisamente aggressiva e guerrafondaia di questi ultimi.
Un altro errore da evitare è non consentire di far modificare il proprio giudizio sul governo italiano ed europeo sulla base delle maggiori adesioni o le minori opposizioni che incontra fra le masse popolari. In entrambi i casi si tratta esclusivamente di una maggiore capacità di egemonia, rafforzata da governi di larghe intese fra tutte le principali forze filocapitaliste, dal ruolo sempre più neocorporativo dei sindacati maggiormente rappresentativi e dalla sempre più scarsa coscienza di classe delle classi subalterne.
Altro errore assolutamente da evitare è schierarsi con il proprio imperialismo nazionale o continentale con lo scopo di contrapporlo all’imperialismo più aggressivo statunitense. Per quanto sia indispensabile favorire il più possibile le contraddizioni inter imperialiste questo non può portare a sognare una impossibile alleanza con il proprio nemico di classe. Cadere in questo inganno significherebbe tradire completamente il proprio compito storico di lavorare a una radicale alternativa alla società imperialista.
Note:
[1] Tommaso Di Francesco, Joe Biden, i muscoli del rancore, in “Il manifesto” del 18.03.2021.