Quel che resta del Referendum

Bocciato il referendum sull’articolo 18 non ci resta che scendere in piazza.


Quel che resta del Referendum Credits: welfarenetwork.it

No al referendum sull'articolo 18, sì a quelli sui voucher e sugli appalti. È questo il verdetto della Corte Costituzionale. La Consulta era chiamata a decidere se dare o meno il via libera ai tre referendum abrogativi in materia di lavoro, per i quali la Cgil aveva raccolto 3,3 milioni di firme. I tre quesiti riguardavano le modifiche all'articolo 18 sui licenziamenti illegittimi contenute nel Jobs act, le norme sui voucher e il lavoro accessorio e le limitazioni introdotte sulla responsabilità solidale in materia di appalti.

Ancora non è il tempo per stabilire quando si voterà per il referendum: in ballo ancora molte eventualità, tra cui la possibile iniziativa governativa tesa a modificare le disposizioni normative oggetto del referendum in modo da “disinnescare”, o almeno “depotenziare” politicamente, i quesiti referendari. La consultazione referendaria, secondo quanto prevede la legge, dovrà svolgersi tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi. Salvo, però, elezioni anticipate: in questo caso, la legge prevede che i referendum abrogativi che hanno avuto il via libera dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale vengano 'congelati' fino all'anno successivo.

Alla fine è, comunque, accaduto quello che molti avevano preannunciato. La Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’art. 18, proposto dalla Cgil per ripristinare le tutele previste prima del Jobs Act e della legge Fornero: quando il lavoratore ingiustamente licenziato doveva essere riassunto, e il datore di lavoro non poteva cavarsela pagando un indennizzo più o meno contenuto.

Ancora non si conoscono le motivazioni che hanno portato al giudizio di inammissibilità, ma è probabile che si tratti del cosiddetto problema della manipolatività-innovatività del quesito sull'art. 18. Il quesito, tramite un ritaglio del testo normativo, proponeva difatti l'abrogazione di alcune parti della disposizione in modo da produrre una normativa di risulta che avrebbe reso applicabile la tutela del reintegro alle imprese con più di 5 dipendenti, una soglia nuova e diversa da quella precedente.

Da più parti viene infatti fatto notare come la decisione di respingere il quesito sul reintegro dei lavoratori in caso di licenziamento considerato illegittimo fosse prevedibile e determinata dal fatto che, nella formulazione presentata, questi non si limitava a cancellare la norma che ha sostituito il reintegro con l’indennizzo ma anche a creare di fatto una nuova normativa. L’effetto di una vittoria del Sì, sulla base del quesito, sarebbe stato appunto l’estensione delle maggiori tutele anche alle aziende con più di 5 dipendenti (mentre in precedenza il limite era a 15) prevedendo anche l’applicazione nelle aziende al di sotto di tale soglia a discrezione del giudice del lavoro.

Il problema viene comunque da lontano, quando la Corte Costituzionale, esaminando i quesiti referendari proposti prima sul sistema elettorale per il CSM, poi sulla legge elettorale per la Camera e il Senato, aveva stabilito che gli stessi dovevano essere formulati in modo tale da lasciare in piedi una normativa autoapplicativa, per non esporre tali organi ad una paralisi nel funzionamento. Lo stesso dicasi più in generale per le leggi cosiddette "costituzionalmente necessarie", che non potrebbero essere abrogate totalmente lasciando un vuoto nell'ordinamento. E così sono stati ammessi, nonostante il parere contrario di una parte della dottrina, i referendum ''manipolativi'', quelli cioè non meramente abrogativi di tutta o di un'intera parte della legge, ma aventi per oggetto singole porzioni o frazioni delle disposizioni contenute in una legge, con la conseguenza che, in seguito all'avvenuta abrogazione di questi ''frammenti'' normativi, il testo legislativo risulti non tanto mutilato, quanto ''manipolato'', vale a dire produttivo di altre norme, diverse da quelle preesistenti.

Tutto ciò ha spinto i promotori negli anni ad un utilizzo sempre più "spinto" e spregiudicato della tecnica del ritaglio testuale nei referendum manipolativi, per riuscire a farli dichiarare ammissibili dalla Corte, gravandoli di un onere del tutto improprio, cioè quello di produrre una normativa di risulta chiara e autoapplicativa. Così come la Corte si trovava in quegli anni dinanzi ad un onere improprio, ovvero fronteggiare la forte spinta di ondate di richieste referendarie plurime ogni anno, allo stesso modo i promotori venivano gravati di compiti che più correttamente spetterebbero al legislatore. Quando il vero problema era quello del perché queste spinte passavano per il canale delle iniziative referendarie, trovando "ostruito" il canale della rappresentanza politica. Ora questo è il vicolo cieco in cui ci troviamo. La Consulta si trova nel mezzo dell'arena politica, sottoposta a pressioni eccessive e ad un rischio di delegittimazione che è molto pericoloso per il suo ruolo.

La manipolazione quindi viene indirettamente richiesta dalla Corte stessa, che però poi da un certo punto in poi pretende che questa manipolazione non sia troppo innovativa individuando una linea di confine (davvero invisibile e sicuramente mobile) tra manipolatività ammessa e non ammessa. Cioè quella che lascia espandere principi o regole già presenti nell'ordinamento sarebbe ammessa, mentre quella che introduce regole del tutto nuove non sarebbe ammessa, con una prevedibilità delle decisioni in molti casi uguale a zero.

Il problema è che il referendum deve restare abrogativo, come la costituzione lo definisce. La Corte da questo punto svolge un ingrato compito: non potrebbe ammettere referendum dichiaratamente propositivi, ma ogni forma di abrogazione corrisponde a una innovazione e indiretta creazione. Il problema insomma è dove porre l'assicella.

In ogni caso, la Corte costituzionale non ha portato solo brutte notizie. Ha ammesso – come abbiamo ricordato all’inizio - gli altri referendum proposti dalla Cgil: quello per abolire i cosiddetti voucher o buoni lavoro, e quello per ripristinare la responsabilità solidale delle società appaltatrice e appaltante nei confronti dei lavoratori. Si tratta di referendum su temi privi della forza simbolica tradizionalmente attribuita all’art. 18 e alla sua difesa, il cui significato non è però meno sentito. In particolare i voucher sono divenuti l’incarnazione del lavoro ridotto a variabile dipendente dalle caratteristiche e necessità del processo produttivo: i lavoratori retribuiti con i voucher sono lavoratori alla spina, da assumere quando servono e licenziare subito dopo, a cui non riconoscere dignità e diritti, a cui destinare salari da fame.

La battaglia sull'articolo 18 resta però decisiva, in un'ottica di ripristino di una fondamentale norma antiricatto che consentiva al lavoratore di poter esercitare con una certa tranquillità, durante il rapporto, tutti i suoi diritti, legali e contrattuali. Oggi, in conseguenza dell'abolizione dell'art.18, i datori di lavoro possono contare su uno strumento sicuro di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento, giustificato o meno. E per i lavoratori si fa ancora più difficile esercitare e a far valere i propri diritti sindacali senza il deterrente della reintegra nel posto di lavoro in caso licenziamento arbitrario.

Un industriale torinese nel passato ripeteva ad ogni assemblea dell’Unione industriali che bisognava abolire l’articolo 18, perché voleva in mano una pistola con il colpo in canna. Io poi non la uso, diceva, perché non mi piace licenziare, ma i lavoratori devono sapere che quella pistola ce l’ho.

Un aneddoto, questo, che spiega bene il significato dello smantellamento dell’articolo 18: riequilibrare i rapporti di forza fra datori di lavoro e lavoratori in senso assai più favorevole ai primi. E cominciano a palesarsi i primi effetti di questa operazione. Fra questi, la recente sentenza della Corte di Cassazione che sancisce la legittimità del licenziamento per motivi economici quando questo è motivato da ragioni inerenti la salvaguardia del profitto privato. Così contrastando la giurisprudenza pre-Jobs Act, per cui la facoltà di ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ovvero per ragioni tecnico-organizzative, quand'anche legate a specifiche esigenze di mercato) doveva configurare come extrema ratio, e mai poteva essere giustificata da ragioni di mero profitto (valeva inoltre l'obbligo per il datore di lavoro di verificare e motivare l'impossibilità di collocare in altra mansione il singolo lavoratore prima di ricorrere al suo licenziamento). Si capisce, così, come ben poco vale qualsiasi nuova tipologia di contratto a tempo indeterminato senza quel tipo di tutela prevista dall'articolo 18.

Quel che è certo è che la strategia seguita in questi mesi della Cgil scontava i limiti di una lotta fatta a metà: la battaglia sacrosanta per i referendum e per la Carta dei diritti doveva difatti appoggiarsi ed essere sospinta da una nuova ondata di conflitto e mobilitazioni, per radicare e sedimentare questo percorso nei luoghi del disagio sociale e intrecciarlo con le condizioni di vita e di sofferenza delle persone. In assenza di questo doppio binario, tutto è apparso proiettato su tempi troppo lunghi, tutto schiacciato su una dimensione soltanto istituzionale, quando c’era e c’è l’urgenza di rispondere al qui ed ora di una condizione sociale che per molti si è fatta insostenibile. Ancora una volta, dunque, il sindacato viene sollecitato ad un cambio di passo rispetto ad alcuni suoi passaggi: andava infatti praticata un’opposizione sociale alle politiche governative degli ultimi anni più intransigente e combattiva, in grado di intercettare e rappresentare il disagio e la rabbia sociale crescenti (le pratiche concertative nelle quali è stato sempre più organicamente coinvolto sembrano averne minato la capacità di produrre conflitto e di far valere un punto di vista autonomo. Come se nella concertazione si esaurisse l’ambito della libertà e dell’attività sindacale) e andava e va affrontato diversamente il tema della rappresentatività. Da qui la necessità per il sindacato di ridefinire il proprio ruolo e i propri compiti, aprendosi molto più di quanto non si faccia ora alle nuove forme di lavoro precario e di lavoro povero, al mondo del non lavoro, a chi vive nella zona grigia tra le attività autonome ed eterodirette, ma non è riconoscibile nel perimetro del lavoro subordinato, lavorando infine alla ricomposizione di un tessuto sociale oggi frammentato e diviso. Perché c’è bisogno di indagare materialmente tutte le pieghe della nuova articolazione sociale, anche quelle che sembrano più lontane dal lavoro dipendente, per essere capaci di elaborare piattaforme politiche e sindacali capaci di far emergere le connessioni e gli interessi comuni.

21/01/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Giulio Di Donato

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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