L’Europa del capitale si è svegliata dopo anni di ubriacatura neoliberista riscoprendo, sia pure in funzione dei profitti, il ruolo dello Stato e dei settori pubblici. I novelli cantori del pubblico sono in realtà gli stessi che per 40 anni hanno favorito i processi di privatizzazione e lo stravolgimento delle regole sul lavoro in nome della precarietà annullando così tutele individuali e collettive giudicate ostacoli insormontabili per l’economia.
I paesi che hanno privatizzato di più si trovano oggi in maggiore crisi, eccezion fatta per la Gran Bretagna che tuttavia è uscita dalla Unione europea (Ue) per avere una sua moneta (da svalutare all’occorrenza) e per non dover rispettare i parametri di Maastricht. Che poi i cantori del pubblico siano gli stessi ad avere ottenuto il pareggio di bilancio in Costituzione dovrebbe indurre la sinistra, o presunta tale, a maggiore cautela e almeno a un’autocritica rispetto agli ultimi decenni. Mentre la Ue rifiuta un’imposta patrimoniale, negli Usa le multinazionali saranno invece soggette a nuove tassazioni in funzione, auspicabilmente, di un potenziamento del sistema sociale che ha palesato, nei mesi pandemici, la sua inadeguatezza.
Tra le proposte di Biden ricordiamo l’aumento dell’aliquota dell’imposta societaria, a livello federale, dal 21% al 28%. Non è abbastanza, se pensiamo che prima di Trump la stessa aliquota era al 35%, ma un fatto che sta a smentire il refrain che nel paese capitalista per eccellenza il capitale goda di benefici fiscali particolari. C’è da tenere di conto che l’abbattimento delle tasse dell’amministrazione Trump si è dimostrato inutile ai fini della ripresa economica ma funzionale ad accrescere utili e speculazioni finanziarie dei titoli azionari, alimentando disuguaglianze ormai insostenibili anche per la tenuta del sistema capitalistico.
Sempre l’amministrazione democratica Usa sta guardando a una riforma complessiva del sistema fiscale che prevede anche nuove tassazioni per le imprese multinazionali che da anni possono beneficiare dei paradisi fiscali dove trasferiscono la loro sede.
Quanto accade negli Usa avrà ripercussioni in Ue, dove di fatto si stanno ipotizzando alcune regole fiscali comuni ai paesi a capitalismo avanzato. Ma torniamo al ragionamento iniziale, quello che partiva dal rilancio, o presunto tale, dei settori pubblici.
La rinnovata fiducia nel pubblico è tutt’altro che un ritorno all’indirizzo a fini sociali dell’economia. Al contrario il sostegno finanziario pubblico è esattamente di segno opposto: funziona da bancomat per le imprese e drena risorse verso il capitale mentre è escluso ogni intervento diretto. I settori pubblici hanno subito un forte ridimensionamento in virtù della riduzione di fondi statali. A causa dei tetti di spesa tanti posti di lavoro sono andati perduti e non solo nella pubblica amministrazione. I continui processi di privatizzazione hanno messo in ginocchio sanità e istruzione. E la svendita delle partecipazioni industriali pubbliche è stato il biglietto da visita nei salotti del capitale per il centro sinistra e l’Ulivo.
In Italia la nozione di pubblico è particolarmente contraddittoria. Per esempio la “sinistra” considera equiparabile al pubblico anche il terzo settore, dove la forza lavoro “volontaria” (virgolette d’obbligo) è sovente fuori da ogni forma contrattuale e soggetta a un sistema di super sfruttamento. Non basta operare per conto del settore pubblico quando sei parte integrante di un sistema scaturito dalla riduzione ai minimi termini dello stato nelle sue varie articolazioni, surrogato da appalti a ribasso e lavoro volontario semigratuito.
Non è quindi accettabile un ritorno al pubblico senza rivedere le politiche operate negli ultimi 40 anni né tanto meno limitarsi al rispetto formale dall'articolo 3 della Costituzione secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Diciamolo una volta per tutte: esiste un diritto di cittadinanza basato sull’uguaglianza dei diritti civili e sociali oppure si torna alla fuorviante definizione delle pari opportunità?
Il merito e la performance sono pilastri ideologici di una società diseguale che sembrerebbero essere ancora i punti di partenza della riforma della Pa e il brodo di cultura dei novelli fautori del pubblico.
Fermarsi alla Costituzione senza domandarsi perché le sue parti socialmente più avanzate siano rimaste inattuate oppure senza chiedersi perché l’arretramento delle condizioni dei lavoratori si è accompagnato al suo stesso snaturamento è un grande limite, anzi direi un vecchio vizio della “sinistra” incapace di ricostruirsi una facciata presentabile. La Costituzione del resto non ha impedito la crescita delle disuguaglianze sociali ed economiche o la precarietà del lavoro nonostante alcuni principi in essa contenuti. E lo stesso ragionamento vale per l’antifascismo e la memoria condivisa. Chi invoca la lotta contro il razzismo e il sovranismo oggi governa d’amore e d’accordo con i sovranisti e sovente con loro trova intese sulle politiche economiche ed estere o sulla chiusura all’immigrazione.
In un paese nel quale la dignità sociale è calpestata dai salari da fame, dai molteplici contratti esistenti nello medesimo posto di lavoro, il richiamo alla Costituzione è un esercizio di mera retorica se non lo si inquadra in un progetto di trasformazione sociale che miri a rendere effettiva, per esempio, la funzione di programmazione economica e di intervento diretto dello Stato nell’economia ogni volta che l’impresa privata non assicuri il raggiungimento dell’interesse pubblico.
La riscoperta del pubblico è funzionale ai processi di ristrutturazione capitalistica e conseguente ai limiti palesati dalle ricette neo liberiste. Il ricorso allo Stato viene invocato dalle imprese per accedere ad aiuti e ammortizzatori sociali. La rinnovata attenzione per lo Stato è funzionale alla spartizione del Recovery Fund.
Gli Usa annunciano l’aumento delle tassazioni e la riforma del welfare, i cambiamenti sono percepiti dagli stessi paesi Ue che hanno strumentalmente allentato la morsa dei parametri di Maastricht. Ma siamo davvero davanti al tramonto del neoliberismo, oppure la situazione emergenziale impone di declinarlo con una nuova strumentazione?
Insistiamo ancora sulle continue giravolte dei pensatori di sinistra. Per loro valga il monito di Federico Caffè che accusava i partiti, gli intellettuali e i giornali di sinistra di essersi adagiati, assuefatti all’inseguimento dei luoghi comuni del mercato al fine di risultare presentabili nei salotti buoni dell’economia e così costruire alleanze di potere con rinnovati blocchi storici di riferimento. È accaduto all’ex Pci e a Romano Prodi, accadrà ancora oggi ai novelli sostenitori del pubblico.
La riforma del welfare e delle politiche attive del lavoro in teoria potrebbero rappresentare una sfida da raccogliere ma nei fatti finiremo con il produrre una sorta di darwinismo sociale elitario nella scuola e nella pubblica amministrazione.
Nessuno parla di capitalismo di Stato ma della rinnovata centralità del pubblico che non determinerà certo la fine del dumping sociale e il tramonto dei processi di esternalizzazione e degli appalti al ribasso dentro cui si consumano le principali contraddizioni di classe.
In questi giorni abbiamo letto del depotenziamento delle norme anticorruzione nei codici degli appalti, cambiamenti giudicati indispensabili per far ripartire l’economia e i cantieri. Analogo discorso andrebbe fatto per chi oggi si erge a difesa del pubblico ma continua a perorare la causa della sostenibilità finanziaria per gli enti locali o il pareggio di bilancio in Costituzione.
Prendiamo per esempio il ruolo dello stato di fronte al Recovery. Serve lo Stato per accedere ai soldi europei ma i progetti da presentare alla burocrazia europea saranno quelli desiderati e invocati dalle imprese. Gli Enti locali nelle ultime settimane hanno costruito accordi con imprese private finalizzate alla presentazione di progetti infrastrutturali da sovvenzionare con soldi comunitari. È forse questo il ruolo dello stato o degli Enti locali pensato dai cantori del pubblico? Così il rafforzamento del pubblico e dello stato diventano indispensabili per raggiungere gli obiettivi del capitale privato accrescendo nel tempo i margini di profitto la cui tendenza alla caduta è stata accelerata dalla pandemia.
Gli attuali difensori del ruolo statale sono gli stessi che annunciavano la lieta novella della convivenza e sussidiarietà tra pubblico e privato all’indomani della crisi dei subprime. Oggi invece invocano più Stato ma al contempo mirano a piegare la Pubblica amministrazione ai piani (e alle logiche) della Bce e battono cassa per sovvenzionare i processi di ristrutturazione richiesti per accedere ai fondi europei. Se prima i padroni volevano la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti oggi pretendono di condividere con i settori pubblici gli interventi prioritari per la ripartenza. Anzi attraverso gli Enti locali e i tavoli ministeriali stanno dettando le linee guida. Ma tutto ciò non ha niente a che vedere con il rinnovato ruolo dello stato che non sia quello di essere sempre più piegato ai dettami del capitale.
Gli odierni e ipocriti cantori del pubblico nulla faranno per cancellare il pareggio di bilancio in Costituzione che di fatto hanno sostanzialmente avallato.
Altro aspetto saliente da analizzare è quello della eventuale partecipazione dei lavoratori alla organizzazione economica e sociale del paese. Non siamo davanti a una nuova fase concertazione. Il ruolo dei sindacati rappresentativi è ancora più ambizioso e collaborazionista del passato. Lo capiremo presto con lo stravolgimento dei contratti di primo livello e il trionfo del welfare aziendale che potenzieranno sanità e previdenza integrativa a discapito di quella pubblica.
Se ha senso parlare di dimensione collettiva del pubblico, crediamo sia imprescindibile accrescere la democrazia nella società e nei luoghi di lavoro. Oggi invece avviene l’esatto contrario e i settori sindacali e sociali conflittuali sono sempre più nel mirino di una strisciante criminalizzazione e oggetto di una dura repressione, come si può constatare con i casi di Taranto, Genova, Prato e molti altri.
Rivendicare maggiori diritti ai cittadini e il potenziamento del pubblico è forse conciliabile con le attuali e inique regole che disciplinano le regole in materia di lavoro o di immigrazione o con i dettami del capitalismo della sorveglianza?
Dietro alla rinnovata attenzione del pubblico si cela ben altro. Ossia la ristrutturazione dello Stato a fini capitalistici per ricostruire un welfare e un sistema di rappresentanza nei luoghi di lavoro diverso dal passato ma non per questo migliore. I rapporti di forza sono oggi più sfavorevoli del passato. Dietro al rinnovato senso pubblico non si nasconde certamente l'accrescimento degli spazi di democrazia come dimostra il mancato dibattito sulle opere da intraprendere con i soldi comunitari.
Se vogliamo ragionare sulla centralità di un moderno ruolo statale non si può eludere la questione della libertà e della democrazia; non si può continuare perorando gli interessi privati in materia di istruzione e sanità oppure cedere alle lusinghe delle previdenze integrative sulle quali si basa la riforma della contrattazione accordando sconti fiscali alle imprese. Siamo certi allora che più del rilancio dei settori pubblici non si sia davanti a un ripensamento del ruolo di Stato ed enti locali in funzione capitalista?