Pensioni: l’estremismo di Banca D’Italia e Corte dei Conti

Pur nel quadro delle compatibilità neo-liberiste, c’è davvero bisogno di tanto rigore?


Pensioni: l’estremismo di Banca D’Italia e Corte dei Conti

Il governo ha da poco varato la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (DEF) sposando le considerazioni di Bankitalia e Corte dei Conti sulle pensioni. “Le ultime proiezioni sulla spesa pensionistica mettono in evidenza l’importanza di garantire la piena attuazione delle riforme approvate in passato, senza tornare indietro”, osserva palazzo Koch, mentre i magistrati contabili evidenziano che “non si tratta, evidentemente, di rispondere alle nuove evidenze con ulteriori restrizioni dei parametri sottostanti al disegno di riforma completato con la legge Fornero; si tratta invece di cogliere ancor meglio il senso della delicatezza del comparto e confermare i caratteri strutturali della riforma, a partire dai meccanismi di adeguamento automatico di alcuni parametri (come i requisiti anagrafici di accesso alla evoluzione della speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione). Ogni arretramento su questo fronte, esporrebbe il comparto e quindi la finanza pubblica in generale a rischi di sostenibilità”.

Parole pesanti che chiudono la porta ai Sindacati che avevano chiesto un ammorbidimento del meccanismo introdotto dalla riforma Sacconi dell’adeguamento all’aspettativa di vita, che dovrebbe far scattare un altro aumento di ben 5 mesi a decorrere dal 2019, portando così l’età di pensionamento di vecchiaia esattamente a 67 anni per tutti.

Ma pur nel quadro delle compatibilità neo-liberiste, c’è davvero bisogno di tanto rigore?

Dopo la crisi del debito greco, vengono emanate in Italia nuove ed incisive norme riguardanti le pensioni, i cui scopi dichiarati sono: (i) di equilibrare ‘strutturalmente’ la spesa pensionistica pubblica, costituita dagli assegni pensionistici correnti, con i contributi sociali (che comprendono i contributi previdenziali) versati dai lavoratori in attività; (ii) di mettere ‘in sicurezza’ i conti previdenziali, facenti parte dei conti pubblici, e rendere ‘sostenibile’ il sistema previdenziale nel lungo periodo.

Le nuove norme pensionistiche sono comprese in due provvedimenti legislativi organici, che vanno sotto il nome, rispettivamente, di “Riforma delle pensioni Sacconi” e “Riforma delle pensioni Fornero”. Esse completano un ciclo di incisive riforme pensionistiche iniziato nel 1992. Da allora, le riforme delle pensioni, considerando un’unica riforma le norme emanate da Sacconi nel 2010 e 2011 (oltre che nel 2009, col DL 78/2009), sono state sette: Amato, 1992; Dini, 1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi, 2010 e 2011; Monti-Fornero, 2011.

La riforma Sacconi (2010 e 2011, oltre a Damiano, 2007: DL 78/2010, L. 122/2010, DL 98/2011, L. 111/2011 e DL 138/2011, L. 148/2011), è più corposa, immediata e recessiva di quella Fornero; in sintesi, essa ha introdotto:

  1. L’aumento dell'età per il pensionamento sia di vecchiaia che di anzianità;
  2. La "finestra” (= differimento dell’erogazione) di 12 mesi per tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati o 18 mesi per tutti quelli autonomi (“finestra” mobile che incorpora la “finestra” fissa, mediamente di 4 mesi, introdotta dalla Riforma delle pensioni Damiano con la L. 24/12/2007, n. 247;
  3. L'allungamento, senza gradualità, di 5 anni (+ “finestra”) dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti pubbliche per equipararle a tutti gli altri a 65 anni (più “finestra”), tranne le lavoratrici private;
  4. L'deguamento triennale all’aspettativa di vita, che porterà l’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni nel 2020.

La riforma Fornero (DL 201/2011, L. 214/2011) ha stabilito, principalmente:

  1. L’estensione pro-rata del metodo contributivo a coloro che erano esclusi dalla riforma Dini del 1995 (anzianità contributiva maggiore di 18 anni), a decorrere dall'1.1.2012;
  2. L’aumento di un anno delle pensioni di anzianità (ridenominate “anticipate”) ed eliminazione delle cosiddette quote (somma di età anagrafica e anzianità contributiva);
  3. L’allungamento graduale entro il 2018 dell’età di pensionamento di vecchiaia delle dipendenti private da 60 anni a 65 (più ‘finestra’), per allinearle a tutti gli altri;
  4. L’adeguamento all’aspettativa di vita, dopo quello del 2019, non più a cadenza triennale ma biennale.

Gli effetti si avranno soprattutto a partire dal 2020.


Si noti bene che la legge Fornero ha opportunamente eliminato la “finestra” di 12 mesi (estesa anche ai lavoratori autonomi, in luogo dei 18 mesi) sostituendola con un allungamento corrispondente dell’età base, ma l’allungamento (già recato dalle riforme Sacconi e Damiano con le “finestre”) è solo formale. Ciò ha sia dato maggiore trasparenza al sistema, sia reso omogeneo il dato dell’età di pensionamento nel confronto internazionale.

Come si arguisce facilmente confrontando le misure, l’allungamento eccessivo dell’età di pensionamento è stato deciso molto più da Sacconi (DL 78/2010, art. 12, + integrazioni con DL 98/2011 e DL 138/2011) che da Fornero (DL 201/2011, art. 24):

  • sia portando l’età di pensionamento per vecchiaia, senza gradualità, a 66 anni per tutti i lavoratori dipendenti e a 66 anni e 6 mesi per tutti i lavoratori autonomi, tranne le lavoratrici dipendenti del settore privato, per le quali ha poi provveduto Fornero nel 2011, ma gradualmente entro il 2018;
  • sia introducendo – sempre Sacconi e non Fornero – l’adeguamento triennale all’aspettativa di vita (che dopo il 2019, in forza della riforma Fornero, diverrà biennale), che ha portato finora l’età di pensionamento di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi e la porterà a 67 nel 2020, o forse prima.

Anche il sistema contributivo l’ha introdotto Dini nel 1995, non la Fornero nel 2011; ella ha solo incluso, col calcolo pro rata dal 1° gennaio 2012, quelli esclusi dalla legge Dini, che all’epoca avevano già più di 18 anni di contributi, quindi nel 2012 tutti relativamente anziani, equiparando così i giovani e tutti gli altri.

Come è potuto succedere un caso così eclatante di disinformazione sulle pensioni, analogo a quelli coevi sul risanamento iniquo e recessivo dei conti pubblici nella scorsa legislatura, che quasi tutti i 60 milioni di italiani ascrivono a Monti, quando invece Berlusconi lo ha battuto per ben 4 a 1 (267 mld cumulati contro 63), o sugli obiettivi statutari della BCE che sono due e non uno soltanto? I 60 milioni di Italiani sono stati vittime della vulgata diffusa ad arte dalla potentissima propaganda berlusconiana-leghista e simile; coadiuvata dalla stessa professoressa Fornero, la quale, nella sua legge di riforma (DL 201/2011, art. 24), anziché – come si fa di solito – limitarsi a modificare ed integrare la legislazione preesistente, ha confermato e ripetuto le misure della severa riforma Sacconi, il quale, dal suo canto, non ha rivendicato la paternità e smascherato il plagio ma col suo lunghissimo silenzio lo ha assecondato.

Per quanto attiene, infine, alla spesa pensionistica, i risparmi di spesa dopo le varie riforme dal 2004 sono stati dalla Ragioneria Generale dello Stato (RGS) quantificati in 900 mld fino al 2060 e ascritti, tagliando istituzionalmente la testa al toro della disinformazione sulle pensioni, solo per circa un terzo del totale alle riforme dal 2011 (modifiche della riforma Sacconi e riforma Fornero) e quindi per meno di un terzo ascrivibili alla riforma Fornero [1].

Nonostante questi risparmi di entità elevatissima, oltre alla RGS, sia la Banca d’Italia sia la Corte dei Conti, nelle loro audizioni al Parlamento sulla Nota di variazione al DEF 2017, si sono dette contrarie ad intervenire “sull’adeguamento automatico di alcuni parametri (come i requisiti anagrafici di accesso alla evoluzione della speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione)”. Il motivo della contrarietà è riconducibile al rischio di pregiudicare nel medio-lungo periodo la ‘sostenibilità’ del sistema pensionistico, a causa di una riduzione del Pil dovuta soprattutto a due fattori di ordine demografico: (a) la flessione del tasso di natalità e (b) un minore apporto netto dell’immigrazione, relativamente al periodo dal 2020 al 2045. “Per effetto della revisione delle ipotesi demografiche, e principalmente della riduzione del flusso netto di immigrati, la popolazione italiana al 2060 è prevista contrarsi di oltre 9 milioni rispetto al livello stimato nel precedente round previsivo e, contestualmente, l’indice di dipendenza degli anziani aumenta di oltre 8 punti percentuali”, per cui “il livello della spesa pensionistica in rapporto al PIL aumenta di circa 2 punti percentuali nel 2035, raggiunge un massimo di 2,6 punti percentuali intorno al 2045, per poi ridursi a circa 1,2 punti percentuali al 2060 e a 0,5 punti percentuali al 2070”.

Tra le tante critiche che si possono muovere al riguardo, ve ne sono tre che rivelano il carattere politico della posizione estremista e ortodossa di Bankitalia e Corte dei Conti: (i) l’aleatorietà delle previsioni a lunghissimo termine, per altro condivisa dalla stessa Corte dei Conti (“forti incertezze connaturate a previsioni di lunghissimo periodo”); (ii) la stranezza dell’evoluzione demografica posta a base della nuova previsione ISTAT, che, a pensar male, sembra confezionata ad arte per parare richieste di modifica alle pensioni; e (iii) soprattutto, la composizione della spesa pensionistica, che comprende voci spurie.

È importante osservare, infatti, che la spesa pensionistica italiana include (nel confronto internazionale) delle voci spurie, che sono:

  1. TFR, che è salario differito e può essere riscosso anche decenni prima del pensionamento;
  2. Un 10% di spesa assistenziale sul totale della spesa pensionistica, che è stata pari nel 2016 a 265 mld;
  3. Un peso fiscale comparativamente maggiore (la spesa pensionistica italiana è al lordo di quasi 50 mld di imposte, che per il bilancio pubblico è una mera partita di giro);
  4. Un uso prolungato, a causa dell’assenza di adeguati ammortizzatori sociali (usati negli altri Paesi, dove non vengono classificati spesa pensionistica), delle pensioni di anzianità appunto come ammortizzatore sociale;
  5. Infine, nella spesa pensionistica degli altri Paesi andrebbero sommati gli incentivi fiscali ( = minori entrate) alle pensioni integrative (v., in particolare, la Gran Bretagna).

Al netto delle voci spurie, la spesa pensionistica liquidata nel 2016 ammonta a quasi 200 mld, di cui circa 20 mld di natura assistenziale, [2] e la sua incidenza sul Pil passa dal 16% al 12% circa, che è inferiore al dato “lordo” previsto per il 2060, con ampio spazio quindi almeno per introdurre due correttivi compatibili col sistema vigente: (i) che l’adeguamento sia anche previsto in diminuzione in caso di riduzione dell’aspettativa di vita; e (ii) che esso resti a cadenza triennale anche dopo il 2019, quando dovrebbe diventare biennale.

In conclusione, è ragionevole pensare che la preoccupazione della Corte dei Conti su un parziale alleggerimento dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita non potrebbe inficiare il suo giudizio che “nel panorama internazionale il nostro Paese può vantare un sistema pensionistico di avanguardia, sistema che per le sue intrinseche caratteristiche (stretta correlazione attuariale tra prestazioni e contributi versati) è stabile e intergenerazionalmente sostenibile nel lungo termine” [3]. E che sarebbe strano se anche la Commissione Europea, nel suo prossimo rapporto, non confermasse il giudizio espresso in passato, e confermato dalla BCE, ossia che, dopo le riforme, il sistema pensionistico italiano è tra i più severi e ‘sostenibili’ in UE28 [4].

Note:

[1] Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario. Previsioni elaborate con i modelli della Ragioneria Generale dello Stato aggiornati al 2017 – Rapporto n. 18

Box 2.3 - Effetti finanziari del complessivo ciclo di riforme adottate dal 2004 (pag. 76):

Considerando l’insieme degli interventi di riforma approvati a partire dal 2004 (L 243/2004), si evidenzia che, complessivamente, essi hanno generato una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al PIL pari a circa 60 punti percentuali di PIL, cumulati al 2060. Di questi, circa due terzi sono dovuti agli interventi adottati prima del DL 201/2011 (convertito con L 214/2011) e circa un terzo agli interventi successivi, con particolare riguardo al pacchetto di misure previste con la riforma del 2011 (art. 24 della L 214/2011).

[2] L’Osservatorio statistico sulle pensioni è stato aggiornato con i dati relativi alle pensioni vigenti al 1° gennaio 2017 e liquidate nel 2016. Al 1° gennaio 2017 le pensioni erogate dall’INPS, con esclusione di quelle a carico delle Gestioni Dipendenti Pubblici ed ex-ENPALS, sono 18.029.590. Di queste, 14.114.464 sono di natura previdenziale, cioè derivano dal versamento di contributi previdenziali, mentre le altre 3.915.126, che comprendono invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali, sono di natura assistenziale. Nel 2016 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 197,4 miliardi di euro, di cui 176,8 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali.

[3] Corte dei Conti - Rapporto 2017 sul coordinamento della finanza pubblica - Aprile 2017

2. I risultati dell’analisi allora offerta [Rapporto 2016] portarono a tre principali conclusioni: i) nel panorama internazionale il nostro Paese può vantare un sistema pensionistico di avanguardia, sistema che per le sue intrinseche caratteristiche (stretta correlazione attuariale tra prestazioni e contributi versati) è stabile e intergenerazionalmente sostenibile nel lungo termine ed è riuscito anche a correggere alcuni squilibri di medio periodo che si manifestavano, dopo la riforma Dini, soprattutto in termini di una indesiderata “gobba” nella curva tra spesa pensionistica e prodotto interno lordo; ii) tuttavia, la sostenibilità finanziaria del sistema poggia crucialmente su parametri macroeconomici di lungo termine (evoluzione demografica - flussi di natalità, mortalità, migratori -, andamento dell’occupazione e della produttività, ecc.) la cui dinamica è di difficile previsione e soggetta a rischi, dal che consegue che l’aver realizzato un sistema equilibrato nel suo disegno è condizione necessaria ma non sufficiente per gli equilibri dei saldi pubblici dei prossimi decenni; iii) il sistema realizzato, pur complessivamente solido, non è privo di residue insufficienze, tali essendo in particolare l’elevata quota di prestazioni pensionistiche “povere”, la modesta flessibilità nelle modalità di accesso alle prestazioni, l’inadeguata soluzione del problema del rapporto tra longevità e capacità lavorative degli anziani.

[4] Si veda anche l’Annual Ageing Report. Si veda anche: Vítor Constâncio, Vice Presidente BCE quando dichiara che “è precisamente nel campo delle riforme per contenere il peso a lungo termine dell’invecchiamento della popolazione sulla spesa pubblica che I paesi sotto stress hanno già effettuato aggiustamenti. L’Italia ed il Portogallo, per esempio, hanno aumenti stimati per spese legate alla longevità minimali…”. Come il grafico sottostante conferma.

21/10/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Vincesko

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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